DAVIDE BERTOZZI STUDIO
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Fiat è una storia, un brand in cui le famiglie si riconoscono. Un pezzo d’identità italiana che profuma di quotidiano e fatica. FCA è invece il finale, non lieto, di quella storia. E profuma di abbandono e rinuncia. Fiat non è mai stato un marchio di lusso e innovazione, come Mercedes, ma ha sempre rappresentato una certa tradizione, che viene da lontano e che ha fatto parte di milioni di persone qualunque.
Se usiamo il termine crowdfunding passiamo per furbi e innovatori, se invece parliamo di colletta passiamo per poveracci. Un meeting è più professionale di una riunione, e un lunch di lavoro è più esclusivo di un pranzo tra colleghi. L’engagement hai il retrogusto di strategia mentre il coinvolgimento ha a che fare con qualcosa di personale. Vintage è alternativo, mentre antico fa odore di miseria. Un trend è una moda a portata di tutti, mentre una moda, forse, è qualcosa per pochi. Se parliamo di reason why veniamo ascoltati con attenzione e curiosità, ma appena pronunciamo le nostre ragioni passiamo dalla parte di chi ha torto o è in svantaggio. Continua a leggere
Oltre a incantare, interrompere, offendere, rimare e trasportare, le parole hanno anche lo strano potere di fermare un preciso momento. Che siano scritte o raccontate, incise o sussurrate, sono indelebili e impongono un certo ordine ed una precisa misura alle cose. Sono come firme che autenticano gli eventi. Ricordi. Voci lontane.
Che io debba scrivere è cosa di cui sono sicura. C’è in me un desiderio struggente di esprimere la mia vita in una forma duratura. – Christa Wolf
Magari è per questo che certa gente non sa stare in silenzio. Che parla anche a costo di sprecare parole solo per fermare qualche frammento nel tempo, un legame, un istante, un saluto, un ricordo. Per non restare sola. E pensare che su questo pianeta ci sono sette miliardi di abitanti, è difficile credere che possano soffrire di solitudine. Le parole sono una buona medicina. Ecco perché i social network. Perché Twitter, si, si, bastano anche 140 caratteri per sentirsi meno soli. Eccome.
Spionaggio è una parola negativa, di solito è il nemico a praticarlo. I Governi, per apparire più fini ed eleganti, usano il termine intelligence. In realtà intelligence e spionaggio sono la stessa identica cosa. E anche Governi e nemici, probabilmente, lo sono.
A volte non riesco a scrivere nulla. Nemmeno una frase, nemmeno un tweet. Ci sono momenti in cui vorrei scrivere anche parole a caso, per il semplice gesto di pigiare i polpastrelli sulla tastiera e trovare rifugio in un qualche sentiero ricamato dentro un racconto, una storia, o anche un semplice post.
Il cursore se ne sta immobile sul foglio bianco e non si sposta di un millimetro. Mi annoio e trovo un senso romantico anche in quel segmento digitale condannato ad un legame inscindibile con il mouse. Mi piacerebbe sapere come si chiama. Svolgo una ricerca sui nomi dei cursori, sono convinto che debbano avere denominazioni diverse, un po’ come gli alberi: ci sono gli olmi e i pioppi, i pini e le sequoie, eccetera.
E in effetti è proprio così. Ci metto poco a trovare un elenco ben fornito che li nomina uno ad uno. Li osservo velocemente e scopro che hanno nomi orribili, tristissimi. Quello che mi interessa, quel segmento verticale che appare sui fogli di testo, si chiama xterm. E basta.
Già, tutto qui. Poi la gente si illude di trovare un po’ di romanticismo, eleganza e filosofia anche solo in un nome. E questo di bello non ha nulla, nemmeno il suono. Forse è utile, facile da ricordare per uno sviluppatore. O almeno glielo auguro, altrimenti sai che fregatura.
Ci sono parole che andrebbero bandite dalla lingua italiana per almeno un paio d’anni. Parole che affollano il mondo della pubblicità, della radio, della tv e soprattutto della politica. Sono dei tormentoni linguistici che provocano seri danni alla comunicazione. Il termine più odioso, come segnala anche Massimo Birattari in “È più facile scrivere bene che scrivere male”, è criticità. Ascoltate le interviste dei nostri parlamentari e provate a farci caso: criticità territoriali, occupazionali, criticità nel tratto autostradale e tante altre tipologie di criticità, delle più creative. Stop! Creatività è un altro tormentone. Le agenzie pubblicitarie ne fanno grande uso in autocelebrazioni come “siamo un’agenzia giovane e creativa”, “offriamo soluzioni creative”, “la creatività è il nostro punto di forza”. Su LinkedIn, addirittura, chiunque può aggiungere la voce creativity alle proprie competenze ed esperienze.
Oltre ai singoli termini, ci sono delle espressioni che riempiono di parole senza significato il parlato e lo scritto quotidiano: soluzioni concrete è la migliore. Le banche offrono soluzioni concrete, mica ti fregano – ci tengono a precisarlo, si sa mai. Ma allora perché le usiamo? Perché siamo insicuri, crediamo che un lessico apparentemente ricercato ci dia una certa credibilità, ma purtroppo ci rende imprecisi e logorroici.
Due guru della comunicazione italiana, come il già citatato Massimo Birattari e Luisa Carrada, bocciano un’abbondante quantità di parole ed espressioni: esclusivo, prestigioso, creativo, trasgressivo, provocatorio, scomodo, impietoso – lui; coniugare, contaminazione, contesto, lavoro di gruppo, mediatico, momento di, monitorare, qualità della vità, riscoperta, segnale forte, significato simbolico, società civile, strumenti concreti, tempi tecnici, territorio – lei. A queste aggiungo: auspicare, stress, design, immagini d’impatto, potenzialità, molteplicità e ottimizzazione.
Queste parole andrebbero evitate in virtù di un linguaggio chiaro e preciso, e onesto, che non si perde e non si nasconde dietro alle criticità dell’italiano.
Quanto comunica WALL-E, senza parole, e senza voce. Come comunica un robot, con i gesti e le espressioni che rendono il suo design spigoloso più dolce di quello dei pelosissimi personaggi dell’Era Glaciale. Il suo segreto è fatto di movimenti, quasi impercettibili, come la messa a fuoco delle sue lenti o l’inclinazione struggente dei suoi occhi. Non ha nemmeno la bocca. Ha però le mani, due, ognuna con tre dita d’acciaio. Le tiene sempre vicine, quasi in segno di preghiera, perché quello è un gesto morbido, delicato. Le sue emozioni si concentrano tutte nei gesti e negli spostamenti, nelle vibrazioni e nell’inclinazione degli occhi e delle mani, niente di più. Poi ci sono le musiche e i suoni, alcuni di questi sono gli stessi di Robocop e Terminator, ma in un robottino come WALL-E, anche i rumori macchinosi hanno un significato diverso, uno scopo differente, una profondità nuova, e dolce.
Guardare WALL-E è come seguire un corso intensivo di comunicazione. È un film quasi privo di dialoghi, e l’assenza delle voce viene compensata dai gesti, dalla colonna sonora e dall’attenzione per ogni dettaglio, oggetto, colore, paesaggio e inquadratura. Pensare che questi accorgimenti appartengano esclusivamente al linguaggio cinematografico è sbagliato. Anche nella prosa è possibile eliminare i dialoghi in cambio di una cura maniacale per tutto ciò che accade attorno ai personaggi, attorno e addosso. Ne si può descrivere ogni piega e sfumatura, ogni gesto e mania, anche i tic, le ossessioni, le particolarità. I dialoghi lasciano così il posto al racconto meticoloso dei gesti, dei suoni e dei colori, delle ombre e dei movimenti impercettibili delle pupille, delle sopracciglia, delle labbra, delle rughe, dell’inclinazione del capo. Queste cose qui, davvero, parlano senza voce, e senza dialoghi.