WALL-E: un corso di comunicazione.
Quanto comunica WALL-E, senza parole, e senza voce. Come comunica un robot, con i gesti e le espressioni che rendono il suo design spigoloso più dolce di quello dei pelosissimi personaggi dell’Era Glaciale. Il suo segreto è fatto di movimenti, quasi impercettibili, come la messa a fuoco delle sue lenti o l’inclinazione struggente dei suoi occhi. Non ha nemmeno la bocca. Ha però le mani, due, ognuna con tre dita d’acciaio. Le tiene sempre vicine, quasi in segno di preghiera, perché quello è un gesto morbido, delicato. Le sue emozioni si concentrano tutte nei gesti e negli spostamenti, nelle vibrazioni e nell’inclinazione degli occhi e delle mani, niente di più. Poi ci sono le musiche e i suoni, alcuni di questi sono gli stessi di Robocop e Terminator, ma in un robottino come WALL-E, anche i rumori macchinosi hanno un significato diverso, uno scopo differente, una profondità nuova, e dolce.
Guardare WALL-E è come seguire un corso intensivo di comunicazione. È un film quasi privo di dialoghi, e l’assenza delle voce viene compensata dai gesti, dalla colonna sonora e dall’attenzione per ogni dettaglio, oggetto, colore, paesaggio e inquadratura. Pensare che questi accorgimenti appartengano esclusivamente al linguaggio cinematografico è sbagliato. Anche nella prosa è possibile eliminare i dialoghi in cambio di una cura maniacale per tutto ciò che accade attorno ai personaggi, attorno e addosso. Ne si può descrivere ogni piega e sfumatura, ogni gesto e mania, anche i tic, le ossessioni, le particolarità. I dialoghi lasciano così il posto al racconto meticoloso dei gesti, dei suoni e dei colori, delle ombre e dei movimenti impercettibili delle pupille, delle sopracciglia, delle labbra, delle rughe, dell’inclinazione del capo. Queste cose qui, davvero, parlano senza voce, e senza dialoghi.
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