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I marciapiedi sembrano campi minati, la gente li attraversa guardando a terra per evitare di pestarla, come se ci fosse merda dappertutto. Sembra una metafora pessimista del presente. Per fortuna, il problema non sono le cacche, ma gli smartphone. Precisamente,  l’iPhone. Quelli che camminano a testa bassa, lo fanno o perché stanno attenti alle mine o perché hanno gli occhi incollati sull’iPhone. Prima di comprarlo ero il primo a criticare i passanti armati del telefono Apple. E adesso cammino a testa bassa pure io, o magari con la fotocamera puntata sulla città, pronto a colpirla dal suo interno e riempire i social network con scatti e fotogrammi.

Il mondo gira dentro alle fotografie, photo sharing, si trasforma in una lunga passeggiata in tutti i viali e tutti i mari, i porti e parchi naturali, i laghi e le cascate. Il mondo corre in questo campo da gioco, le persone sparano, lo colpiscono, bucano forano ma non lo feriscono, ne strappano zolle e ne mostrano ogni segreto, photo-sharing. E tutti i posti bellissimi sono visibili a tutti, e magari son meno belli perché già visti, o più ricercati, dipende dai punti di vista. La vista, con gli occhi verso orizzonti reali. Reali, niente schermi e niente trucchi, senza filtri, e l’unico sharing è quello del vento che condivide ogni profumo dei posti che attraversa. Il vento, e la vista, e l’odore. A sforzarsi si riesce a sentire anche il gusto.

Ed ecco allora la vera differenza tra le due cose, tra il vento e lo schermo. Perché c’è gente che gira il mondo, a testa bassa o con l’iPhone puntato, gira il mondo e colpisce ogni suo segreto, ogni posto e paese, gente che attraversa le magie di Londra e New York ma poi si perde nei sentieri della propria anima.

Foto scattata, ovviamente, con l’iPhone.

Quasi un elogio allo scrivere, alla comodità e all’eleganza del gesto. Per scrivere in modo più veloce, e comodo, e pure pulito, dimenticando tutte le problematiche del farlo a mano, come i crampi e le macchie di inchiostro sulla pelle (i mancini occidentali sono condannati a catastrofi con l’inchiostro). Per agevolare ogni aspetto di questo antico gesto, scrivere, nel 1864 Christopher Sholes brevettò lo schema QWERTY. Il solo parlare di brevetto conferma un certo genio. Grazie allo schema QWERTY le mani si distribuiscono ordinatamente sulla tastiera, le dita non si scontrano mai, i movimenti diventano particolarmente ergonomici e si ottiene un equilibrio tale che mentre un dito schiaccia un tasto, un altro dito nel frattempo si prepara all’azione. Destri o mancini non fa differenza.

Sholes deve aver visto incepparsi migliaia di volte i merletti della sua prima macchina per scrivere, deve avere intuito che nell’ordine alfabetico in cui erano distribuite le lettere sulla tastiera c’era qualcosa che non andava. Lui era un inventore, un altro nome bellissimo, inventore. Insomma lui si mise a studiare i movimenti delle dita di entrambe le mani e la frequenza con cui le lettere si ripetono nelle parole più usate – ci sono infatti lettere che si usano più di altre, quindi meglio separarle, secondo lui. Ecco dunque che il suo ordine inizia con la Q e termina con la M, distribuendosi in 3 righe.

Un elogio allo scrivere

Poi c’è questa faccenda dell’orientamento sulla tastiera, quelle due linee in rilievo sui tasti della F e della J che rendono possibile il cominciare a scrivere senza abbassare gli occhi sulla tastiera. Con gli indici vado alla ricerca dei due rilievi, poi inizio a scrivere e non sbaglio mai, dico, mai! È incredibile. Sholes deve avere immaginato una persona che appoggia le mani sui tasti e inizia a scrivere senza guardare. Deve avere immaginato le lettere precise, e i movimenti perfetti delle mani e delle dita.

Fino a poche ore fa non capivo il motivo di quelle due lineette in rilievo, e perché poi proprio sulla F e sulla J. Davo per scontato che il mio lavoro e la mia passione, che si realizzano nel trascorrere la maggior parte del mio tempo con le mani sulla tastiera, hanno a che fare con un certo genio. Un brevetto favoloso e ordinato.
Quasi un elogio allo scrivere, il brevetto di Christopher Sholes, inventore.

Immagine di Marco Morosini

Succede che vado al bar e nessuno tifa più per Valentino Rossi. Nessuno. Tutti quelli che fino a poco tempo fa sostenevano il nove volte campione del mondo, ora che la sua carriera è scivolata in una brutta crisi, tutti, cazzo, tutti negano di essere stati fan accaniti del # 46. Sono gli stessi che ora lo danno per fallito, gli stessi che improvvisamente si sono rivelati seguaci storici di Marco Simoncelli. Naturalmente, anche questo fanatismo è nato solo dopo la triste scomparsa del pilota di Coriano. E io non capisco questa forma di tifo, che poi parlare di tifo non è nemmeno esatto. Forse è più corretto parlare di una insolita forma di simpatia, che va già meglio. Moda, è perfetto.

In un mondo dove anche gli eroi svaniscono così in fretta, qui, in questo mondo qui, non vedo alcuna possibilità di scampo, di talento, di salvezza. Salvezza, sì, perché i campioni e gli eroi servono anche a questo, per salvarci e farci sognare, evadere dalla realtà. Fanno le cose incredibili, cose che noi non possiamo, ma vogliamo fare, e una di queste è salvarci. Salvarci, che è molto diverso da farsi belli al bar dimostrando di essere in perfetta sincronia con la moda del momento. Salvarci dalla quotidianità, dalle bugie, dai nostri limiti e dalle paure, dai falsi sorrisi e dalle verità trattenute come si trattengono solo gli starnuti.

Che cosa resta dello sport, e che fine fanno i campioni, se nessuno poi si salva… Che cosa rimane del brivido di un sorpasso, dello stupore – stupore – per una staccata violenta, di un traverso. Che cosa rimane se il pubblico smette di cercare un sentimento, un senso, e s’arrende alla paura di tifare con il cuore. Non rimane granché, né dello sport, né dei tifosi.

Succede che vado al bar e tutti indossano la moda più consueta, e tutti appaiono bellissimi con il loro amore per Casey Stoner e per i goal di Ibrahimovic. Vado al bar e scopro solo queste cose qui, e se chiudo gli occhi e mi concentro su quello che c’è da sentire, ma sentire con il cuore, succede che non sento nulla, se non un profondo silenzio. Come se la mancanza di sorpresa generi solamente silenzio, e in questo silenzio precipitano gli eroi. Che fine fanno loro, eccola qui, la fine, nel silenzio e nell’assenza di stupore. E nessuno si salva più.

Annamaria Testa è una copywriter italiana di successo, guru della comunicazione pubblicitaria. Ho letto, studiato, sottolineato e stropicciato alcuni sui scritti, tra cui La parola immaginata, che considero uno dei libri sacri del mestiere del pubblicitario. Sfogliando le sue pagine si trova un paragrafo pazzesco dedicato alle diverse interpretazioni che si possono dare alle parole. Ce ne sono alcune, spiega, che si prestano ad una doppia lettura, parole come letto, che può essere inteso come sostantivo (il mobile domestico) o anche come participio passato del verbo leggere. Annamaria Testa usa la parola leggere anche nel titolo di un suo libro di racconti: leggere e amare. Anche qui la lettura si presta a due diverse interpretazioni: leggère e amare intesi come due aggettivi, o anche lèggere e amare intesi come due verbi all’infinito. Questa cosa la trovo semplicemente fantastica. Anche un disco di Samuele Bersani si presta a questo gioco: Manifesto Abusivo.

Sospeso fra significati e significanti, ho cercato più volte di mettere in pratica questa tecnica formidabile. Ci sono riuscito in una campagna pubblicitaria per Motopolis, realizzata dall’agenzia pubblicitaria in cui lavoro – P+A. Motopolis è una scuola di educazione alla guida per ragazzi, che si occupa di preparare i giovani all’esame del patentino e alla guida sicura sulle due ruote. In questo caso, il concetto di educazione è alla base di tutto. Ho messo in pratica quanto appreso dagli “insegnamenti” di Annamaria Testa: l’headline della pubblicità dice Educati alla guida. La possibilità di interpretarlo in due modi congruenti, èducati o educàti, è il punto di forza del messaggio, e il logo che strizza liberamente l’occhio a quello di Topolino, collega il prodotto al mondo dei giovani. Insomma, la lingua italiana offre molte più possibilità di quanto comunemente si immagini.

Art director: Gianluca Alessandrini
Copywriter: Davide Bertozzi
Web & communication: Stefano Paolucci