campo da calcio di notte

Affianco casa mia c’è un campo da calcio, ci si allena una delle squadre della città, non ricordo la categoria tanto è bassa. Il terreno è tutt’altro che uniforme, ci sono avvallamenti e pendenze, zone prive di verde e qualche velo di sabbia vicino alle porte. Nonostante questo il manto erboso è sempre ben curato, basso, morbido, umido e di una trama quasi rilassante. Di notte, nel buio, è grigio pesto. Un tappeto color piombo, morbido sotto le scarpe, quasi accompagna i passi.

Mi trovavo lì fermo nel buio assieme al mio cane, poco prima di mezzanotte. Ce ne stavamo dentro al cerchio della metà campo. Mi sono seduto, prima, aspettando che Milo si appoggiasse al mio fianco in cerca di un contatto – lo fa sempre, è una sensazione che gli trasmette una sorta di tranquillità -, poi ho appoggiato la schiena a terra, rivolgendo il naso verso il cielo stellato. Sai, di quelle notti che le luci del quartiere sono spente e le stelle brillano più forte. Sdraiato sull’erba con il respiro del mio cane accanto. Geometrie disperate in cielo. Ricordo di aver cercato la Luna e sono più che sicuro di non averla trovata.

L’ho cercata giusto qualche istante prima di dimenticarmene. In fondo non mi importava davvero che ci fosse o meno quella lanterna bianca. Eravamo li, io, il buio, le stelle e il mio cane, riuscivo a distinguere lo scoccare delle lancette dell’orologio. Non ricordo nemmeno quanto tempo siamo rimasti li, stesi nel mezzo di un campo da calcio nel cuore della notte. Era abbastanza.

Quel momento era abbastanza.

inventori

Ti dico una cosa, lo faccio con un dispiacere nell’anima, davvero: gli inventori sono gente di altri tempi. Gente sempre fuori luogo, insoddisfatta per natura, ambiziosa, gente di altra pasta e altri posti.

Devi metterti in testa che gli inventori non esistono più. Oggi ci sono gli ingegneri, i designer, i progettisti. Si, c’erano anche una volta, ma oggi la loro figura professionale ha guadagnato terreno ed importanza, togliendone, come ti dicevo, agli inventori. Apparentemente la differenza è sottile, anche i dizionari faticano a scandire bene il ruolo di uno e dell’altro. Beh, te la spiego io questa faccenda che, ti assicuro, è molto più romantica e lungimirante di quanto si possa immaginare.

La differenza tra inventori e ingegneri

Gli inventori sono ossessionati dall’esigenza di creare cose che non esistono e che migliorano la vita, anche in modo assurdo. Hanno inventato oggetti geniali come la cannuccia e il cavatappi, tu ora dirai che sono cavolate ma prova a pensare ad un mondo senza cannucce e cavatappi. Capisci di cosa parlo? Hanno trascorso l’intera esistenza a semplificare la vita di noi coglioni. La radio, per esempio, quasi abbiamo smesso di ascoltarla, se non quando siamo al volante o in un centro commerciale. Ma hai idea di quanto genio serva per concepire un apparecchio del genere? Non costruire ma concepire. Non solo la radio, pensa alla tastiera dalla quale stai scrivendo, ti sei mai chiesto perché i tasti sono disposti in quel modo? Lo sai perché iniziano con la Q e non con la A? C’è stato un tizio, un certo Christopher Sholes, inventore, che ha brevettato un nuovo modo di disporre le lettere: lo ha chiamato QWERTY, come le prime sei consonanti che trovi sulla tastiera, e ha permesso a chiunque di battere a mano più velocemente evitando che s’inceppassero i merletti della macchina per scrivere. Sholes ha fatto tutto questo nel 1864, ascolta bene, milleottocentosessantaquattro. Non c’erano ancora le penne a sfera.

Per inventare queste cose serve un certo genio. Una sorta di follia che non ha niente a che fare con la visione progettistica, di certo affascinante, degli ingegneri che hanno costruito veicoli per andare sulla Luna. Vedi, anche le astronavi spaziali sono invenzioni, ci mancherebbe, ma appartengono ad una categoria differente, dove la scienza si evolve di pari passo con la creatività. Tali invenzioni sono proprie, come ti dicevo, degli ingegneri, dei progettisti, talvolta dei designer. Un inventore non costruirebbe mai una navicella spaziale. Si impegnerebbe, piuttosto, nell’invenzione di una macchina volante, capisci dove sta la differenza?

Gli inventori si riuniscono nei club degli inventori, o almeno così facevamo fino a quando esistevano (entrambi). Oggi quanti ne conosci? Quanti ne hai visti? Nessuno, perché loro non ci sono più, si sono portati nella tomba anche la parola stessa: inventore. Non la trovi bellissima?

Se dovessi darti una definizione più precisa di quella che trovi sul dizionario, ti direi questo:

l’inventore inventa per il gusto, il gesto e la passione di creare cose che ancora non esistono fisicamente. Queste cose lui le vede prima che qualcuno ne senta l’esigenza. Le inventa prima che chiunque si possa chiedere come migliorare la vita quotidiana. L’inventore inventa oggetti e marchingegni incredibili per dimostrare che tutto è possibile. Inventa per consentire alle persone di fare cose grandiose, come volare, telefonare, scrivere meglio, respirare. Lo fa perché ha una sorta di dono che interpreta come un dovere, quasi avesse fatto uno sgarbo al mondo e si sentisse in dovere di farsi perdonare.

I veri appassionati iniziano già nei primi giorni di novembre. Anche se la ricerca di un’idea originale è attiva tutto l’anno. A volte è una tecnologia, un nuovo modo di illuminare la scena, un motore per innescare un movimento, una serie di statuette ricercate.

Nei paesini di Provincia il momento del presepe diventa motivo di guerra, invidia e superiorità. In ogni quartiere si accendono micro battaglie dove a fare la differenza sono gli “oooh” e gli “aaah” del pubblico. In premio c’è il titolo “miglior presepe della città”. Mica poco. Pensate ad uno che durante tutto l’arco dell’anno non aspetta altro che questo momento, uno che per dodici mesi medita su innovazioni e migliorie, sperando di trovare l’intero vicinato davanti al suo presepe. Mica poco.

È così che il fascino del Natale diventa una guerriglia combattuta a suon di statuette, buoi e asinelli.

Ho visto presepi in cui scorre acqua vera, grazie ad un sistema idraulico che la spinge in un canale di plastica – il fiume – e la rimette in circolo in appositi tubi che raggiungono il tetto della struttura (il cielo), facendo poi cadere qualche goccia qua e là (la pioggia) sul muschio o sul prato. Vero anche quest’ultimo.

Ho visto sistemi LED a intermittenza che danno l’idea di lampi e fulmini, e udito il rumore del temporale dalle casse audio nascoste dietro un gregge di capre di plastica o addirittura dentro la grotta. Alcuni appassionati piuttosto futuristici e lungimiranti hanno installato una serie di binari che percorrono l’intero perimetro del presepe, dove, sopra di essi, vengono posizionati i Re Magi, che si muovono lentamente dando quel senso di attesa, arrivo, pazienza.

Piuttosto comune, ormai per tutti gli sfidanti, è invece il sistema di illuminazione del cielo stellato, con luci disposte sempre più spesso secondo le costellazioni più o meno amate dai progettisti. La più quotata è l’Orsa Maggiore, vai a capire il perché.

Nei quartieri di provincia la sfida è agguerritissima: dall’otto dicembre ogni presepe è aperto al pubblico, composto quest’ultimo dai soliti anziani curiosi e annoiati e da bambini ancora più curiosi ma che si annoiano dopo, e non capiscono, perché in fondo son bambini, tutta la ricerca, lo studio e la fatica necessari per la costruzione di un progetto di simile precisione.

L’anno scorso il campione in carica del mio quartiere, che da sette anni consecutivi vince qualsiasi sfidante per creatività, tecnologia e qualità delle statuette (alcune delle quali le conserva in cassaforte per il resto dell’anno), ha deciso di investire tempo e risorse per una campagna pubblicitaria: ha realizzato un manifesto in cui valorizzava la sua opera e invitava il pubblico a visitarlo ogni giorno dalle otto del mattino alle undici di sera, distribuendo decine e decine di fotocopie del manifesto nei luoghi strategici presenti nel raggio di 500 metri attorno casa propria: un tabacchi, un bar, una macelleria, una lavanderia, due pizzerie da asporto, un fornaio, un minimarket, una rosticceria, una farmacia, un asilo e una scuola elementare. Non ha però affisso nulla in chiesa.

Quest’anno la battaglia si fa davvero dura: lo sfidante più temuto, che negli ultimi inverni è sempre arrivato a un passo dalla conquista del titolo di miglior presepe del quartiere, ha investito tempo e denaro sui social network: ha creato una pagina Facebook e un canale YouTube in cui pubblica foto e video del suo presepe, definendolo “il più ambizioso tributo al Natale di tutta la Romagna”. Si mette dunque davvero male per il campione in carica. L’altro giorno l’ho intravisto mentre vagava in strada con il suo malloppo di fotocopie sotto braccio. Alla lavanderia si dice che abbia espanso la distribuzione dei suoi manifesti anche negli altri quartieri.

Al bar, invece, si vocifera che i due non si rivolgano più la parola e che la tensione degli anni precedenti sia nulla in confronto al gelo che li divide quest’anno, o almeno fino alla Befana, quando a nessuno fregherà più nulla dell’aria natalizia, dei Re Magi e delle statuette, e la vita di ogni giorno riprenderà il suo corso, il suo tepore, il suo lungo vagare senza mai voltarsi indietro.

Scrivere un libro è una cosa che non so fare. O non mi riesce. Il perché è frammentato in tante tessere che non formano un mosaico, ma una serie di immagini alle quali è stata negata una certa idea di perfezione. Una certa idea di come sono.

Scrivere un libro non è mica facile. Scrivere un bel libro, poi, oh, che casino. Continua a leggere

Agli sgoccioli di dicembre qualcuno aspetta la neve, qualcuno il Natale, sicuro c’è chi li desidera entrambi. Si corre per i regali e sulla calcolatrice per non sforare con le spese. Ci sono le ferie, per alcuni, gli straordinari per altri, o anche la semplice routine per chi non fa differenza tra gli ultimi giorni dell’anno e quelli della primavera, abbigliamento e nebbia a parte. I social network e le pagine dei taccuini si riempiono di buoni propositi, di parole barrate e desideri intrappolati con inchiostro e grafite. Hashtag a fiumi, ondate continue di titoli acchiappa click come “Le 10 foto più belle dell’anno”, cappellini di Babbo Natale sui loghi aziendali, le vetrine che promettono sconti clamorosi, il calore di una tazza di cioccolato nel tardo pomeriggio.

E si iniziano a tirare le somme. Ci si guarda allo specchio, come per controllare il tempo, e qualcuno riesce pure a piacersi un po’ di più. Sfogliando gli archivi nel computer e sugli smartphone si cercano le foto e i momenti più importanti degli ultimi dodici mesi, si fa un back up e si fugge fuori casa per conservarlo al freddo degli ultimi giorni di dicembre.

Nel primo pomeriggio le ombre si allungano fino all’arrivo della nebbia e del buio. E quando non so più che ore sono e dove sto andando, sfilo via il guanto dalla mano e cerco il mio vecchio Swatch di acciaio – ogni volta scopro qualche graffio in più sul vetro – e misuro la lunghezza e la distanza dal posto in cui sono e quello che non riesco mai a raggiungere.

Agli sgoccioli di dicembre i conti non tornano mai, o almeno non ho mai incontrato qualcuno pronto a dimostrarmi il contrario. Non serve nemmeno cercare il modo di farli quadrare, basterebbe, semmai, amarsi un po’ di più, e guardare con più dolcezza, e pietà, i graffi e le cicatrici, sull’orologio e sulla pelle. Che poi sono la stessa identica cosa.

Sai che a guardarle, certe sere, non mi sembrano poi così lontante? Prima che faccia buio dico, quando il cielo è ancora abbastanza chiaro, che le vedi, lì. Non sembrano mica lontane come dicono.

Pensa se tutte quelle cose che ci hanno sempre raccontato sulla grandezza dell’universo, sulle distanze di anni luce, sui pianeti e tutto il resto, fossero solo una bugia.

Pensa se l’universo fosse invece questo posto in cui ogni giorno camminiamo. Saremmo soli per davvero, qui in questo mondo, e basta. E le stelle, boh, tipo lanterne, o lucciole, appiccicate la, in alto in alto.

La sera, al circolo Kappa, anche l’infelicità si fa un po’ più dolce, invece di logorare l’anima pare accarezzare la pelle e soffiare sui mozziconi, quasi volesse tenerli accesi per tutta la notte. Nella sala biliardi c’è chi rimane fino a tardi, fino a quando in strada non c’è più nemmeno il vento, e l’unico suono che si sente, dentro, è quello dei colpi della stecca, o il fruscio dei birilli colpiti, o lo scontrarsi della palla bianca con quella gialla, e la rossa ferma ad aspettare. I rumori sono soli più dei giocatori, che non fiatano, si guardano e con poche smorfie commentano i tiri dell’avversario. Continua a leggere

– Non riesco a disegnare, questi giorni.
– Io non ne sono mai stato capace.
– È come se non ci sia più niente in scala. Le prospettive si sono sganciate, gli assi incrociati, le proporzioni mischiate.
– Discorsi seri.
– Serissimi.
– Stammi a sentire, è una donna, mica te la sei sposata, mica è incinta di tuo figlio.
– Non ti sto dicendo che sono innamorato.
– E cosa mi stai dicendo?
– Che non riesco più a disegnare niente. Continua a leggere