Come fanno quelli che si alzano alle 6:00 del mattino e vanno a correre? Li invidio un sacco. Davvero. E ci ho provato a farlo pure io, con risultati vergognosi: dalle gambe tinche come il legno al mal di testa post corsa. Io li invidio quelli che ce la fanno con tanta semplicità, una semplicità che a me proprio non riesce.

Anche fare yoga all’alba, magari in giardino rivolti verso il sole, o anche in spiaggia. Come si fa? O anche quelli che capiscono da che parte soffia il vento e sanno tutto delle nuvole, delle maree e delle correnti. Come fanno? 

Non me ne capacito. Anzi, a volte mi sento tremendamente impreparato e ignorante, retrogrado e antico, ma io non lo so come si fa a diventare così. 

Ci sono un sacco di cose che non conosco e che proprio non mi riescono. Questo non significa che voglia diventare un guru o un cervellone, no. Mi basterebbe, e lo dico con tutta la fragilità che ho nel cuore, mi basterebbe imparare ad orientarmi nel mondo. Orientarmi. Non dico trovarmi, sarebbe troppo bello e troppo facile, ma almeno orientarmi, sarebbe abbastanza.

Ci sono notti in cui guido senza meta, l’autoradio divora una canzone dopo l’altra e i fari squarciano chilometri di buio. In quelle notti accade qualcosa che in nessun modo riesco ad interpretare: con i pugni stretti sul voltante ed il piede sull’acceleratore, mi perdo nelle strade che percorro da sempre, come se non riuscissi più a trovare la via di casa o un motivo per tornare, che poi sono la stessa identica cosa. E per quanto possa cercare e vagare nella notte, non riesco a capire da che parte va la vita.

piccoli paesi

Quei piccoli paesi, di solito mai sulla costa, ma appena poco all’interno, magari tra le colline e ai campi di grano, dove c’è un campanile, una drogheria, un bar, un falegname e talvolta un pittore e un collezionista di bottoni. Quei piccoli paesi, frazioni del mondo. Una manciata di anime, forse un centinaio, pochi bambini, molti anziani, perché i giovani sono partiti, quasi nessuno tornato se non dopo lungo tempo e la schiena stanca e curva. Talmente piccoli che c’è un solo barista, un solo artigiano che sa costruire tutto, un solo fioraio, un solo elettricista che ne sa anche di idraulica e metalmeccanica.

Una sola piazza dove in estate l’aria ristagna e il caldo uccide. I gatti sotto le panchine a soffrire l’afa. E i cani non hanno guinzaglio, casa e padrone, ma sono amati da tutti e mangiano facendo il giro dei portoni. Quei piccoli paesi in cui si insegna come scappare ma non come restare e rendere giustizia ad un fascino mite e qualunque, fatto di mattoni e semplicità, tenerezza e anziani che ti fissano con i loro occhi lucidi – come se stessero per scoppiare a piangere ma poi non lo fanno.

C’è un campetto da calcio, senza erba, solo terra e polvere, le porte senza rete, le linee bianche svanite. Un piccolo cimitero, poco altro. Il sindaco è più contadino che politico, perché le decisioni vengono prese dal vento e dal tempo, dalla terra, dai fiori.

Quei piccoli paesi, dove non ci sono alberi ma tigli, pioppi e olmi, e le persone conoscono i nomi di ogni pianta, persino dei fiori, dei funghi e delle erbacce. Gente che ha l’aspetto di chi viene da lontano e sa produrre l’olio in casa e ha la pazienza di attendere il raccolto, gente che conosce i venti e bagna il pane nel vino.

Antichi vasi di terracotta incorniciano i lati dei portoni, e nelle strade la polvere viene spazzata via solo dalla pioggia. Quando piove c’è un silenzio che ti rimette al mondo, solo la violenza del cielo e basta. E i gatti dietro le finestre, i vetri sottili che tremano e lasciano entrare il fresco.

Ora dimmi se immagini un mondo senza questi paesi. Dimmi se riesci a respirare, scrivere, pensare senza averli mai visitati. Senza aver mai parlato con quel barista, che è scorbutico, si, quando entri non dice buongiorno ma solo “cosa vuoi”.
E non è mai una domanda, è un’affermazione. Cosa vuoi.

Dimmi se immagini un mondo senza questi paesi. Che quando ti si rompe la tapparella arriva l’elettricista tutto fare che ripara anche il lavandino, il campanello e dà una potata alla siepe.

Una vita senza clacson, in equilibrio tra la quiete e la paura che assale ogni uomo e ogni donna. Perché la paura arriva dappertutto e non si dimentica dei piccoli paesi.

Le parole sono ovunque

Le parole sono ovunque, sui manifesti pubblicitari, nelle voci di sottofondo e nella nostra testa. E non sono mai parole e basta. Sono musica, significati e collocazioni, ricordi e suoni increspati nelle pieghe della vita.

Ad esempio, ci sono parole bellissime, come pastello e frangiflutti, e altre evocative, come grano o tramonto. Frangiflutti è una musica, la pronuncia scorre con una pausa intensa dopo le prime due sillabe, e la ripresa con il suono “fl” provocato dalla lingua che scorre dal palato verso i denti, ci piace sia nel gesto che nel suono. Ci piace sempre. La “L” è una lettera affascinante, amiamo pronunciarla e per questo molte parole che la contengono ci piacciono più di altre.
Pastello, dicevo. Ma anche ciò che evocano è altrettanto importante, perché martello, ad esempio, non è bella quanto pastello.

La “L” inoltre è anche leggera, sia nel suono che nella grafia. Molte parole che contengono con frequenza questa lettera diventano anch’esse leggere, come libellula.
Fatte eccezione per la “L”, troppe consonanti rendono le parole complicate e zoppe, soprattutto quando ci sono di mezzo le lettere “Z”, e “T”, che interrompono il suono – la musica – delle parole. Ottimizzare, assicurazione, trattore, torrefazione, zattera e zanzara sono ricche di spigoli e inciampi. Orizzonte no, il significato e i pensieri che evoca sono più forti del taglio provocato dalla doppia zeta.

Anche troppe vocali tutte vicine tra loro possono peggiorare il suono: ad esempio, ghiaia è terribile. Ma nella lingua italiana ci sono parole che contengono anche tutte le vocali e molte di esse sono bellissime, come estuario, sequoia e aquilone.

Come frangiflutti e pastello sono bellissime anche nuvola, lucciola, pagina e coccinella.
Ma ci sono anche parole orribili, come ruga, cranio e grattugia. Parole nostalgiche come lontano e tramonto – forse perché tutti i tramonti sono nostalgici -, o parole pesanti, come gravità e capitalismo. Altre sono rigide, come vetro, o eleganti, come perla, ma ce ne sono anche di fastidiose come spigolo, spina e microbo. Ne esistono anche di silenziose, come intimità, o altre sempre fuori luogo, come droga. Alcune hanno un suono curioso, come buco. Ci sono parole che pronunciamo con parsimonia, come rugiada e tepore, e altre di cui abusiamo, come cuore, amore e tumore. Potrei andare avanti all’infinito, dimenticando che le parole possono essere descritte con aggettivi anche improvvisati eppure precisi.

Le parole si impadroniscono del loro significato, o forse viceversa, ecco perché vanno scelte con cura. Pensa ad una parola come buio, che per me è quasi inquietante. Pensa alla sua capacità di inghiottire tutto il resto della frase. Rende il buio ancora più pauroso. Buio. Parola brevissima, quasi un tuono o un colpo di fucile, e in entrambi i casi c’è una luce, un abbaglio, in cielo o davanti ai tuoi occhi, e in un solo caso vieni attraversato da un proiettile, e poi tutto diventa buio per davvero.

Infine ci sono le parole non dette, e siamo tutti bravissimi nel sceglierle e soppesarle. Quelle non si trovano nei manifesti pubblicitari, nelle voci di sottofondo o nelle strade. Mi piace pensare che siano dentro la nostra testa, se così fosse sono davvero abili nel non farsi mai trovare al momento giusto. Eppure tornano, come echi lontani. Ne ho incontrate alcune in sorrisi mancati, in fotografie ingiallite e nelle linee sul viso che ci ricordano la vita è un soffio.

Stonehenge è un posto magico. Dista due ore di pullman da Londra, per alcuni è lontanissimo, per altri una passeggiata, a mio parere ne vale la pena. Meglio se ci vai nel pomeriggio, così ti godi il sole che tramonta dietro i megaliti (non è una situazione che capita chissà quante volte nella vita).

Ti ritrovi in un campo verde, i tipici prati inglesi, dove l’erba, chissà perché, non cresce mai. Sembra appena tagliata, migliaia di ettari di erba appena tagliata. Se ci pensi è pazzesco. Ci sono questi megaliti, questi sassi enormi che per quanto possa informarti e razionalizzare non riuscirai mai a capire come siano davvero finiti e come qualcuno sia riuscito a sollevarli. E perché. Ci sono un sacco di teorie, vero, molte di esse anche parecchio condivise dagli storici, ma qualcosa dentro ti bussa nelle ossa e ti dice che non è come te la raccontano. Ti fai la tua idea. Ognuno la sua.

Il pullman si ferma a poco meno di un chilometro di distanza e ti lascia in una valle dove ancora non si vedono sassi di alcun genere, solo prati a non finire. Manca dunque un breve tratto di strada da percorrere a piedi o con una navetta, entrambe le soluzioni creano una certa attesa difficile da spiegare a parole, io ci sto provando ora, rendendomi perfettamente conto che forse non tutti si riconosceranno, perché dicevo, ognuno si fa la sua idea.

C’è questa bellissima attesa, quasi una forma evanescente di ansia, un torpore tra le dita, come quando stai scrivendo una frase meravigliosa che ti è appena venuta in mente e speri di riuscire a comporla senza dimenticarti nessuna parola. Quell’attesa li, quando sai che sta per accadere qualcosa che desideri davvero e che nulla impedirà che accada. Anche questa situazione non capita chissà quante volte nella vita.

E mentre ti avvicini incontri i corvi, a decine. Come in un’opera di Van Gogh. La scena è davvero surreale, se ne stanno li, in mezzo al nulla e all’erba bassa, talmente bassa che non si piega nemmeno al soffiare del vento. I corvi, si tengono a dovuta distanza l’uno dall’altro, quasi fossero nemici. Non sembrano prestare attenzione alle persone che avanzano verso Stonehenge, ma contribuiscono a nutrire la trepidazione.

E poi li vedi, finalmente, i megaliti. Che non sono altro che massi, disposti secondo una volontà che puoi provare a capire, ascoltare o raccontare senza venirne mai a capo. A tutti appaiono più piccoli del previsto. Eppure sono enormi. Ma l’attesa, la voglia e l’impazienza corrompono la tua immaginazione e così finisci per aspettarti qualcosa di smisurato e infinitamente più grande della realtà. Come molte altre cose della vita, d’altronde.

Ci arrivi davvero vicino, non quanto vorresti, ma abbastanza vicino da farti la tua idea e percepire l’umidità e il freddo sulla pietra. Ma non li puoi toccare. Se ci provi le guardie ti sotterrano all’istante e nella migliore delle ipotesi di te rimane un ricordo sepolto sotto l’erba bassa dei prati inglesi. Ci arrivi davvero vicino, dicevo, puoi camminarci intorno, osservarli da differenti angolazioni e prospettive, e mentre passeggi ad un certo punto ti accorgi di qualcosa. Ognuno percepisce qualcosa. Posso dirti quello che ho sentito io, che pare banale ma è estremamente semplice: un senso di pace. Pace e basta. Come se il resto del mondo e la frenesia fossero lontani milioni di chilometri, come se non ci fosse nulla di più vero di quel momento, nulla di più importante, e gli assi dell’anima, del cuore e del desiderio fossero perfettamente allineati. Una situazione che non accade tante volte nella vita.

Impressioni d'autunno

In autunno i tramonti hanno una gran fretta di consumarsi, ma senza bruciare e fare rumore. Come se avessero voglia di sparire e basta. Nient’altro. Le ombre si allungano rapidamente e le luci dei locali brillano con timidezza. La luna si nasconde dietro le nubi, stanca di guardarci ogni notte senza mai potersi voltare.

L’autunno si porta via un sacco di cose, come l’entusiasmo e la voglia di restare svegli fino a tardi, o quella strana sensazione che si prova quando si è sicuri che stia per accadere qualcosa di meraviglioso, ma poi non accade, senza motivi né spiegazioni.

In autunno inoltrato arriva il freddo, il primo freddo, che s’infila sotto le coperte e nelle asole dei vestiti, confondendosi nelle le pieghe della vita e nei versi delle canzoni. Trascina con sé infinite ragioni per chiudersi in casa e tenersi tutto dentro, fingendo che la fatica di questi giorni sia una fonte di calore, o una sorte di colore con cui ricoprire e riscaldare le pareti.

Se provi ad uscire in strada, quando il freddo è più forte, se provi a mischiarti in mezzo alla gente, fare finta di essere come qualsiasi altra persona al mondo, se riesci a mascherare con un respiro quanto di brutto ti affligge, beh, se davvero ci riesci allora puoi anche concederti il lusso di un pianto, in mezzo a tutti. Nessuno se ne accorgerà. In fondo, il freddo giustificherà le tue lacrime. E spesso, in autunno, piove.

Circa un anno fa ho comprato un taccuino Moleskine in versione limitata: riportava Batman in copertina, una tentazione alla quale non ho saputo resistere. Tra i tanti supereroi, Batman è uno dei miei preferiti, secondo solo a Clark Kent. Se un anno fa, nell’eCommerce Moleskine Shop ci fosse stato il taccuino di Superman avrei certamente preferito quello, ma all’epoca il negozio offriva solamente l’edizione con l’uomo pipistrello. Non ho esitato a farla mia.

La pagina web dedicata al prodotto è ancora online e il taccuino è tutt’ora in vendita (cosa che mi fa pensare che non sia poi una limited edition, ma vabbè), in essa si trova un testo scritto da un copywriter a me sconosciuto ma che ha il massimo della mia stima:

“La leggenda continua: Batman, l’eroe urbano, è approdato sulla copertina del taccuino Moleskine. L’illustrazione del paesaggio urbano di Gotham stampata sul risguardo, gli adesivi a tema e i quattro diversi design tra cui scegliere, sono la tua chiave di accesso per Gotham City”.

Complimenti al copywriter, davvero. Non so che darei per poter scrivere di supereroi e battaglie del bene contro il male, di ambientazioni e simbologie del mondo DC Comics e altre cose che riguardano persone con i superpoteri.

Ma comunque, non è questo il punto. Il fatto è che il taccuino che ho acquistato contiene otto adesivi raffiguranti le più celebri versioni del logo dell’uomo pipistrello. Ora, in gergo volgare, più che volgare, li chiamo “adesivi di Batman”, come ho scritto nel titolo, rendendomi perfettamente conto della grossolanità e dell’imprecisione della mia scrittura, la quale afferma che, letteralmente, tali adesivi sono di proprietà di Batman. So che non è particolarmente corretto, tuttavia preferisco chiamarli così, “adesivi di Batman”, come d’altronde fa anche Peter Griffin nella celebre frase

“Lois, questo non è il mio bicchiere di Batman”.

Ma il punto non è nemmeno questo. Sto continuando a dilungarmi e la colpa è l’infinito piacere che trovo nello scrivere. Scusate, è più forte di me. Arrivo al punto, ora. Questi adesivi sono davvero stupendi, li amo tantissimo. E quando li ho avuti tra le mani per la prima volta ho pensato che avrei potuto utilizzarli in tantissimi modi, appiccicarli in posti non convenzionali, su oggetti meravigliosi, appropriati o, a mio avviso, perfettamente idonei per accogliere il logo di Batman.

Dopo un anno esatto sono ancora tutti qui sulla mia scrivania in attesa di essere usati. Il problema, purtroppo per loro, riguarda me: non sono mai riuscito a decidere dove incollarli.

Pazzesco, otto adesivi, e niente, ogni volta che trovavo un posto in cui attaccarne almeno uno, boh, qualcosa mi fermava, una sorta di imperativo severo. Ricordo di essere stato vicinissimo dall’appiccicarne uno sopra un biglietto di carta, da inserire successivamente nello spazio dedicato al foglietto dell’assicurazione dell’auto, quello incollato nella parte interna del parabrezza. Così dall’esterno si sarebbe visto il logo di Batman.

L’idea mi sembrava fantastica, o almeno lo era per me che amo rendere “super” ogni cosa di mia proprietà. Tuttavia c’era qualcosa di non corretto. La mia Golf grigia, anzi, tungsten silver, non ha nulla di simile alla celebre Batmobile, che è nera e decisamente “aggressiva”. Avessi avuto un’auto a due posti, nera e con l’assetto ribassato, la cosa si sarebbe potuta fare. Ma no, l’adesivo di Batman sulla mia auto non era adatto.

Così, tanto per togliermi lo sfizio di personalizzare quello spazio sul parabrezza, ci ho inserito il marchio di Superman. Lui non guida auto ma vola, e la mia Golf di certo non levita, però capitemi, dovevo pure inserire qualcosa in quello squarcio così “vuoto”. Capite quanto sia importante per me la questione?

Superman

Ma non sono un supereroe

A distanza di un anno ho ancora otto adesivi raffiguranti otto versioni del logo di Batman. E questo dimostra quanto le mie indecisioni tengano a freno la creatività e la voglia di fare, personalizzare, raccontare e, soprattutto, comunicare.

Cose banali, come questi dannati adesivi, talmente belli da non volerli mai appiccicare per la paura di pentirmene e di non poterli più recuperare, svelano un lato troppo timoroso della mia personalità. Una terribile insicurezza di sbagliare.

Se penso a quante situazioni simili ho bruciato e quante occasioni ho perso per la paura di compiere un gesto che, con le dovute distanze, non è poi così differente dall’attaccare (e quindi allontanare da me) un adesivo, se penso alla follia di cercare un luogo perfetto senza trovarlo mai, e all’assurdità che tutto ciò è una metafora della vita, capisco quanto le piccole scelte siano in realtà una copia in scala della mia anima. Di come sono. E chi sono.

In tutto questo, la cosa davvero bellissima è il trovarmi qui a scrivere, con la Moleskine piena di appunti e gli adesivi ancora immacolati sulla scrivania. Non so ancora se ne appiccicherò mai uno, ma so per certo che continuerò a scrivere sempre, per il semplice gusto di rapire storie e riflessioni anche da oggetti qualunque, come un taccuino, oggetto bellissimo e dal nome nostalgico e musicale, che serve a nient’altro che questo: appuntare, scrivere e disegnare storie invisibili.

Taccuino. Leggilo a voce alta, assapora il fascino della sua pronuncia. Non è una parola bellissima?

Località Barbischio - Gaiole in Chianti - Toscana

A luglio non ho scritto nemmeno una parola su questo blog. Nemmeno una frase. Ci ho provato senza riuscire, dando la colpa alla mancanza di ispirazione, alla mancanza di tempo e alla frenesia di questi giorni. Solo adesso ho realizzato che nessuno di questi era colpevole, solo adesso lo so, ma l’ho capito solamente dopo essermi imbattuto in una particolare forma di meraviglia.

Durante la mia vita ho visto grandi metropoli e luoghi naturali che non riuscirò mai a dimenticare, ho avuto la fortuna di viaggiare e assaggiare prelibatezze che dalle mie parti non vengono nemmeno menzionate, ma non avevo ma visto, toccato e attraversato un borgo medievale di 21 abitanti.

Località Barbischio - Gaiole in Chianti

21 abitanti, 13 cani e 4 gatti, questo è il censimento più recente di Barbischio, un microscopico borgo nascosto tra le colline toscane del Chianti. Una manciata di casette in pietra, un ristorante, un piccolissimo cimitero. E basta. Ettari di verde e vigneti a non finire lo isolano dal resto del mondo. Dal resto di qualsiasi altra cosa che avevo già visto prima.

Ancora fatico a comprendere davvero come dev’essere vivere lì.

Siamo soliti lamentarci che il posto in cui abitiamo ci sta stretto, che siamo stanchi di incontrare sempre le stesse facce e fare le stesse cose, e anche che abbiamo voglia di visitare luoghi diversi, conoscere gente nuova, e provare a spostare qualche tassello della nostra vita. Penso allora ai 21 abitanti di Barbischio, si lamentano di queste cose? Hanno voglia di cambiare?

Località Barbischio, Gaiole in Chianti, Toscana

Ci sono arrivato cercando un ristorante tra i tanti presenti in quelle zone. Sinceramente non ricordo perché abbia scelto proprio Il Papavero, è poetico pensare che ci sia arrivato per caso, ed è anche una mezza verità. L’osteria è l’unica vera possibilità che possa condurci in questo borgo di sole cinque o sei casette – nessun’anima in giro per i viottoli e un silenzio di quelli che fanno bene al cuore.

Osteria il Papavero - Chianti - Toscana

I gestori del ristorante raccontano con passione storie legate al territorio e ai prodotti gastronomici, concentrandosi sulle particolarità del vino locale e sul motivo della presenza di alcuni quadri appesi all’interno del locale. Sono opere di Franco Innocenti, pittore ironico e dannatamente creativo, ancora in attività e disposto, a loro dire, a ricevere curiosi e passanti per parlare di arte, pittura, e di come va il mondo.

Le opere appese appartengono alla collezione Uno straniero tra di noi, e c’è anche un ché di autobiografico: una persona su 21 è riuscita ad elevarsi, a farsi riconoscere come artista di alto livello e a far parlare del suo piccolo borgo sperduto e nascosto tra le colline toscane. È riuscita a fare un dolce rumore in un posto in cui il rumore è un ospite sgradito.

A stranger among us - n.52 - Franco Innocenti

Uno straniero tra di noi – n.52 – Franco Innocenti

Ricominciare a scrivere

A luglio non ho scritto nemmeno una parola su questo blog, dicevo. Ho dato la colpa all’incapacità di trovare ispirazione quando invece si trattava solo di fare ordine tra le tante cose da sistemare, gli appunti, le idee e gli scarabocchi. Dovevo solo ordinare. E lì, a Barbischio – nome che sembra rubato da una favola – ho realizzato che le parole non mi servivano. In quel posto in cui qualsiasi cosa è di troppo, dove anche il postino è visto come uno straniero, dove ho camminato quasi in punta di piedi per non fare rumore, lì, non serve altro. Nemmeno le parole. Nemmeno i libri, o Facebook, la musica e tutto il resto. Qualsiasi cosa è di troppo, e tutto ciò che viene dall’esterno viene radunato all’osteria Il Papavero, che diventa così un interessante accumulatore di persone forestiere.

Nel momento in cui mi son reso conto che non avevo bisogno di nulla – se non dei cantucci con il vin santo -, ho capito che appena sarei tornato a casa avrei trovato la voglia di scrivere e una quantità enorme di storie da raccontare.

Ed eccomi qui, come rinato.

Io di storia dell’arte non ne capisco niente. Davvero. Non l’ho mai studiata al di fuori del contesto scolastico. Non mi sono mai appassionato, informato, aggiornato. Sono un vero ignorante, lo ammetto. Eppure credo di riconoscere esattamente il sentimento, la ricerca, la necessità, il gusto e la follia di alcuni pittori.

Sarà che per me l’arte è una. Che si parli di musica, letteratura, cinema o scrittura, credo che tutto si riduca ad un unico piacere che si manifesta secondo le regole e i colpi di genio di mani e muscoli, per soddisfare il solitario piacere di interpretare i giorni e le sensazioni più intime.

Questo, credo di aver capito. E sono certo di averlo riconosciuto curiosando tra le stanze di Palazzo Fava, a Bologna, in occasione della mostra di Edward Hopper. Ripeto, di storia dell’arte non ne capisco granché, ma osservando le sessanta opere esposte ho percepito il suo senso di solitudine.

Con grafite e colori, acquerelli e poco altro, lui disegnava le storie invisibili, quelle che ci sfuggono per mancanza di sensibilità. Lui le ricostruisce con pazienza e le propone chiedendoci di prestare nuova attenzione alle cose normali che sono, a suo avviso, la più grande meraviglia di ogni giorno.

Hopper disegna e racconta l’invisibile

Guardando Stazione di una piccola città trovo quella meraviglia. Al di là dello stile e della tecnica pittorica, di cui preferisco non parlare per evitare figuracce, penso che per lui quel momento, quella scena e quei colori, fossero abbastanza. Me lo immagino posare gli occhi per la prima volta su quella stazione, magari ascoltando il rumore di un treno lontano, innamorarsi della vernice sulle pareti, cercare la miglior prospettiva da cui osservare, coinvolgere quell’albero per spezzare la scena. Proprio l’albero, in musica sarebbe una pausa. In letteratura forse, una punto e a capo. Dicevo, l’arte è una.

small-town-station

Sera Blu – Edward Hopper

Sera Blu è l’opera che ho inserito come immagine di testa per questo articolo, e anche la mia preferita. La trovo di una solitudine senza fine e la interpreto come un tentativo di rappresentare il mondo. La malvagità nello sguardo del clown, l’uomo borghese sulla destra che osserva un orizzonte buio, come se possedesse tutto e niente; la donna in piedi truccata a puntino, forse una prostituta che mette scompiglio nei pensieri dei presenti; un tizio con la barba rossa, cappello e sigaretta, forse un omaggio a Van Gogh (del quale si riconosce l’influenza); il “direttore” del circo, o di qualche genere di evento, seduto in mezzo alla gente comune, come se lo spettacolo si camuffasse alla vita reale. O come se la realtà non fosse altro che una finzione devastante, e tutti noi attori, pagliacci, mossi dall’esigenza di truccarci o di indossare delle maschere. Ognuno per i suoi motivi.

Il ponte di Manhattan

Nonostante Hopper abbia disegnato decine di volte i ponti di New York, in questa opera si concentra soprattutto sui carrelli in primo piano. Il dipinto si chiama Ponte di Manhattan ma il ponte è solo una scusa per dare rilievo a quegli oggetti comuni, i carrelli. Lasciati li, soli, hanno un senso, costruiscono la scena, sono una storia invisibile.

ponte di manhattan

Gli avamposti e la voglia di restare

Hopper presta la massima attenzione al significato di ogni oggetto, costruzione o persona che incontra nei suoi viaggi. Ne cerca il senso, il motivo dell’esistenza, il motivo per il quale qualcosa si trovi in un determinato posto. Da qui la passione per i fari, quelli affacciati al mare e all’orizzonte, come in The Lighthouse at Two Lights. Li rappresenta soprattutto visti dalla parte della terraferma, quasi mai dalla parte del mare. Lui preferisce stare dietro, perché il faro traccia un confine preciso. La terra e il mare, la luce e il buio. Il faro è a tutti gli effetti un avamposto.

the lighthouse at two lights

In Starway, ad esempio, le scale conducono alla porta d’ingresso, aperta, ancora qualche passo e c’è il bosco. La porta è vista dall’interno, da dietro, proprio come i fari visti dalla terraferma. Percepisco una voglia di restare, di non oltrepassare certi confini, di non sfidare la malignità del bosco. Non mi sorprenderei nello scoprire che Hopper avesse paura del buio.

stairway-hopper

Le luci delle stanze, il sole sui muri e le ombre

L’ultimo quadro della mostra è il celebre Second Story Sunlight. Imponente. La sua luce è devastante. Le due figure ritratte sul balcone sembrano quasi un’ornamento, e quello che davvero conta è come il sole illumini la casa e le stanze all’interno. C’è il bosco dietro, buio. Ma la salvezza è in casa, al sicuro, nelle stanze illuminate. Hopper trova un certo fascino nell’oscurità ma, dicevo, se ne sta sempre ad una certa distanza, dove c’è luce.

Second story sunlight - edward hopper

Prendevo appunti mentre passeggiavo incuriosito ed emotivamente scosso tra le stanze di Palazzo Fava, scorrendo una dietro l’altra le opere senza tempo di un pittore che deve aver combattutto un vero e proprio conflitto personale con il mondo.

Prendevo appunti, frasi incomplete scritte con grafia poco elegante, tra queste noto oggi alcune parole ricorrenti: boschi, edifici, confini, avamposti, faro sul mare, luce sui muri, solitudine.

A rileggerle ora, con il senno di poi, penso che descrivano piuttosto bene l’arte di Edward Hopper, che è fatta proprio di boschi, edifici, confini, avamposti, fari, luce, buio, pareti. Solitudine. Cercando in rete le opere che (dannazione!) mancano alla mostra, come Gas e Nighthawks, ritrovo quasi ovunque gli stessi concetti.

Nighthawks - Edward Hopper

Ma ripeto, per l’ultima volta, io di arte non ne capisco nulla. Eppure mi emoziono. A volte ho quasi paura. In certi momenti, mentre lavoro, mentre guardo il fumo uscire dalla moca del caffè o mentre passeggio sotto i portici di Bologna, mi sembra di vedere le storie invisibili. E anche gli avamposti.