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Il libro ha 700 pagine. Ci tengo a precisarlo subito. Ma ci sono molte immagini, anche questo è importante. Ed è un libro di storia, seppur scorrevole quanto un romanzo. È un’acrobazia di scrittura, un virtuosismo di stile e buon gusto, un libro che il solo pensare di scriverlo sembra una follia.
Neil MacGregor sceglie 100 oggetti esposti al British Museum (di cui è direttore) e li utilizza come leve per imboccarti l’intera storia dell’umanità che, al contrario dei libri scolastici, delle enciclopedie o delle pesantissime pagine di Wikipedia, divori con avarizia e curiosità, stupore e talvolta eccitazione.
100 oggetti, 100 capitoli lunghi una manciata di pagine, si leggono sia in ordine cronologico che sparso, uno alla volta, anche uno al giorno. Piccoli pezzetti da trangugiare in qualunque momento della giornata: prima di andare a dormire, in pausa pranzo, a colazione.
100 oggetti non particolarmente famosi. Anzi, spogliato dell’Onda di Hokusai e del Rinoceronte di Dürer, nel volume non restano altre opere “pop”, ma l’autore crede fortemente nella rilevanza storica di ogni oggetto, persino di utensili che, al mio occhio ignorante, appaiono come vecchi utensili e basta. E invece hanno un enorme potenziale narrativo. Raccontarlo è il suo modo di dar loro una seconda possibilità per essere apprezzati, ed è anche un metodo incredibilmente romantico di far aumentare le visite al museo (perché il libro è anche, e in fin dei conti, uno acuto strumento di marketing).
È come se ogni oggetto avesse una storia invisibile, ecco, MacGregor racconta quella storia. Parlare dell’Onda di Hokusai è relativamente facile, con studio e pazienza chiunque riuscirebbe a scrivere almeno una paginetta zuppa di frasi interessanti. Ma intrattenere ed entusiasmare descrivendo monete d’oro indiane, coppe neppure affascinanti rinvenute nei pressi di Gerusalemme o maschere messicane di pietra, beh, la questione si complica, e l’abilità nella scrittura non è più sufficiente. Servono nuovi occhi, capaci di vedere l’invisibile e trasformarlo in argento. Questa abilità, di cui l’autore è padrone, sarebbe un’arma invincibile nelle mani di copywriter, storyteller e pubblicitari. E questo libro, La Storia del Mondo in 100 Oggetti, è uno strumento didattico molto più efficace di guide e volumi che promettono di svelare i segreti del marketing.
Le storie raccontate attraverso gli oggetti, ovviamente, non sono storie inventate. Sono piuttosto il risultato di una paziente ricerca che, esposta con ordine e precisione, diventa un tassello della storia del mondo. La descrizione di un oggetto, in realtà, è un pretesto usato per spiegare i cambiamenti sociali, politici ed economici delle più importanti tappe della storia umana.
L’oggetto che più mi ha colpito è il “Cronometro della Beagle”, un cronometro inglese in ottone risalente tra il 1.800 e il 1.850. È famoso perché fu consegnato alla Beagle, la nave sulla quale salpò Charles Darwin nel suo viaggio intorno al mondo, dal quale sarebbe nata la celebre teoria dell’evoluzione. Ma l’autore non si concentra su questo, preferisce invece mostrare quanto sia cambiato il mondo grazie a tecnologie come il cronometro per la navi:
Per portare a compimento la sua missione, tracciare una carta geografica della linea costiera del Sudamerica, la Beagle aveva bisogno di misurare con accuratezza latitudine e longitudine. Il cronometro permetteva per la prima volta un rilevamento cartografico degli oceani estremamente preciso, con tutto quello che ciò comportava per la creazione di rotte commerciali sicure e rapide […]. Per far fronte a possibili discrepanze, o errori, la Beagle aveva a bordo 22 cronometri: 18, compreso il nostro, erano forniti dall’ammiraglio, e 4 dal capitano, Robert Fitzroy, secondo il quale 18 non sarebbero bastati per un lavoro così lungo e importante. Dopo cinque anni di mare, gli 11 cronometri ancora funzionanti mostravano una discrepanza di appena 33 secondi rispetto all’ora di Greenwich. Per la prima volta una cintura cronometrica dettagliata avvolgeva la terra.
Il cronometro marino permetteva dunque ai marinai di trovare la longitudine con enorme precisione, e da un oggetto così piccolo è nata una vera e propria rivoluzione dei viaggi e della geografia. La cartografia moderna incomincia proprio da questa piccola scatoletta di legno con all’interno un orologio, anzi, un cronometro in ottone. Come dicevo, gli oggetti sono pretesti per raccontare una storia, un cambiamento, un tassello del passato.
È questa la magia del libro. La magia degli oggetti. È questa, come scrivevo precedentemente, la storia invisibile trasformata in argento.
“Siamo tutti storyteller, con le storie degli altri”. Inizia così la prefazione che Paolo Iabichino ha curato per il manuale di Andrea Fontana, di cui ho mostruosamente storpiato il nome nel titolo di questo articolo: Storytelling d’impresa, la guida definitiva. Una prefazione che ho letto alla fine del libro, addirittura dopo i ringraziamenti (è un vizio di cui non riesco a privarmi). So bene che se si chiama pre-fazione un motivo c’è, tuttavia questa sadica decisione mi permette di scoprire dettagli non colti durante la lettura.
Leggere la prefazione all’inizio condiziona eccessivamente il punto di osservazione e crea un’aspettativa con la quale non voglio avere nulla a che fare.
Tutta questa solfa sulla prefazione per dire che, nelle prime 20 righe, Paolo Iabichino racconta uno dei motivi che hanno spinto Andrea Fontana a pubblicare questo manuale: trattare il mestiere dello storyteller con il dovuto rispetto.
Ora, non sto a raccontare chi sono queste due persone per evitare di prolungarmi, ma anticipo solo che il primo è Chief Creative Officer di Ogilvy & Mather Italia (odio le iniziali maiuscole nei nomi dei mestieri, ma lui si firma così, tutto maiuscolo), mentre Andrea Fontana è “il più rilevante esperto di Corporate Storytelling (ancora maiuscole) del nostro Paese e Amministratore (!) delegato del gruppo Storyfactory”.
Scrive Iabichino:
Mi è già capitato altrove di stigmatizzare usi e abusi di questa nuova buzz-word che da qualche anno a questa parte ha cominciato a riempire PowerPoint, strategie di marca, idee di comunicazione, convegni, corsi di formazione, job description, siti internet e, neanche a dirlo, saggi, manuali e abbecedari.
Queste righe riassumono, a mio avviso, una buona metà del libro. L’autore si impegna tantissimo nel descrivere cosa è storytelling e cosa non lo è. Paragrafi su paragrafi per dare dignità, spessore e identità ad un mestiere e ad un modo preciso di fare marketing. Non solo: tra le righe noto una magistrale intenzione di punire e mettere al tappeto tutti coloro che usano la parola storytelling senza aver la minima idea di cosa sia davvero lo storytelling.
È una buzz-word d’altronde, impossibile negarlo. E quando un vero professionista vede usare in modo improprio uno strumento (o una parola) che gli appartiene, viene colpito da un senso di disgusto. Ma Fontana non è uno che se la prende con gli storyteller improvvisati. Piuttosto, si eleva. Con fare metodico descrive ogni sfaccettatura del suo lavoro in un modo così preciso che nessun altro “collega” riuscirebbe a fare. Si eleva.
La prima metà del volume serve proprio a questo: far capire che non bastano una fotografia e un hashtag per parlare di storytelling, che tra raccontare e vendere raccontando c’è una differenza decisiva e che c’è un mondo sconfinato nascosto dietro questa buzz-word. Un mondo che va studiato, analizzato, capito e ponderato. Un mondo che si traduce in opportunità di lavoro, ricavi, valore.
Il messaggio che traspare è che
non basta un corso di visual storytelling per potersi definire storyteller, e nemmeno alla fine di questo manuale sarete in grado di fare storytelling. Workshop e libri sono solo tappe di un percorso di studio molto lungo, complesso e ricco di imprevisti.
Ma non è tutto qui, ovviamente.
Nella seconda metà del volume, più o meno dai capitoli 9 e 10, si inizia a “fare sul serio”. Andrea Fontana ci aiuta a capire tutte le competenze indispensabili per realizzare un racconto, descrivendole nel dettaglio una per una (voi che dite di fare storytelling, le possedete?); ci aiuta a capire come quantificare un progetto; si sofferma con passione ed entusiasmo nelle modalità di costruzione di un racconto d’impresa e descrive minuziosamente tutte le variabili e le difficoltà che ha incontrato nel suo percorso professionale. E in questo riconosco un vero valore aggiunto.
Le pagine si impreziosiscono con brevi box riassuntivi, case study di progetti vissuti in prima persona dall’autore (cosa non da poco, perché è fin troppo facile parlare dei successi degli altri) e di grafici e tabelle che aiutano a comprendere le metodologie di lavoro.
Tra i tanti motivi per cui lo consiglierei a colleghi e professionisti del mondo pubblicitario, spicca la chiarezza con cui l’autore tratta ogni argomento. Se vuoi capire cos’è lo storytelling e cosa ti serve per poter creare o anche solo avere voce in capitolo riguardo un argomento tanto chiacchierato quanto incompreso, beh questo è il manuale che fa per te. Altri punti di forza sono le micro interviste a figure professionali di rielievo che si sono affidate allo storytelling e alla creatività di Storyfactory. Non solo, il percorso di lettura è magistrale: man mano che si scorrono le pagine crescono l’entusiasmo e la voglia di arrivare alla fine per capire come si possano davvero realizzare progetti di così elevata qualità.
I grafici e le tabelle. O meglio, il modo in cui questi elementi sono rappresentati. Per quanto siano fondamentali per la comprensione degli argomenti trattati, risultano spesso graficamente complessi e, soprattutto, manca un disegno “madre” in grado di coordinarne il loro layout.
Non mi piace nemmeno la copertina, ma questo mi capita con il 99% dei libri editi da Hoepli (ci tengo a sottolineare, però, l’umiltà del responsabile di questa collana, Luca Conti, che nella prima pagina chiede ai lettori consigli su come migliorare il proprio operato). Per un gusto personale, inoltre, non amo particolarmente la moltitudine di inglesismi incastonati nelle pagine, tra le quali si ripetono decine di volte i termini “management”, “skill” e “stakeholder” che, al contrario di “storytelling”, non hanno particolari problemi ad essere scritti in italiano.
Non mi fa impazzire nemmeno il sottotitolo “La guida definitiva”, a causa della parola “definitiva”, di cui ho ampiamente parlato in un post dedicato proprio agli aggettivi superflui. Tuttavia, capisco il motivo per cui Fontana ha utilizzato tale aggettivo. Questi sono ovviamente giudizi personali, criticabili milioni di volte.
Ho avuto il piacere di conoscere Andrea Fontana, a Pesaro, qualche anno fa. Abbiamo preso un caffè poche ore prima di un suo intervento in pubblico – mi pare si trattasse di un convegno riguardo il futuro del marketing e della comunicazione, o qualcosa del genere. Un caffè, pochi minuti insieme nei quali con tono grave e deciso mi ha parlato di quanto fosse importante scrivere, leggere e riscrivere, di quanto lo storytelling avesse bisogno di competenze e lungimiranza.
Di quanto la mia giovane carriera da copywriter dovesse sfamarsi continuamente di storie di vita e racconti d’impresa per continuare a crescere in modo sano, etico e professionale. Quei pochi minuti trascorsi insieme con i gomiti appoggiata al bancone di un bar hanno un valore enorme ancora oggi. Mi aiutano a distinguere le storie che sono storie e basta da quelle che sono, invece, storytelling.
E questa distinzione è solo il punto di partenza, la prefazione di un lungo cammino, di un intenso racconto che ha i suoi protagonisti, gli antagonisti, le difficoltà e poi, inevitabilmente, un finale. Dolce, amaro, romantico, ambiguo, drammatico, imprevedibile, inverosimile, divertente, triste, grottesco o addirittura trionfale.
Scrivere un libro è una cosa che non so fare. O non mi riesce. Il perché è frammentato in tante tessere che non formano un mosaico, ma una serie di immagini alle quali è stata negata una certa idea di perfezione. Una certa idea di come sono.
Scrivere un libro non è mica facile. Scrivere un bel libro, poi, oh, che casino. Continua a leggere
Ho sempre mangiato di tutto, dagli hamburger non identificati di McDonalds ai panini di plastica dell’Autogrill, e vengo da una famiglia che mangia carne tutti i giorni. Insaccati, bistecche, pesce, ragù, salsicce, spiedini, hot dog, pollo fritto e così via. Questo ha fatto di me l’esatto contrario della parola vegetariano e il perfetto sinonimo di tritatutto.
Fino a pochi mesi fa non ho mai prestato particolare attenzione agli animali che finivano nel mio piatto. O almeno, l’unica cosa a cui badavo era il gusto: è buono, non è buono. Nient’altro. Non mi sono mai soffermato sulla loro provenienza, o se avessero trascorso una vita felice prima di finire in mattatoio. Se avessero avuto una famiglia, o a come vivessero in allevamento.
La verità è che di queste cose non me ne è mai fregato niente, e l’alimentazione vegetariana era per me una sorta di rinuncia, una tendenza o addirittura una forma di estremismo, quindi sbagliato.
In generale la gente vuole la carne, l’ha sempre voluta e sempre la vorrà, punto. I vegetariani sono, nella migliore delle ipotesi, teneri ma fuori dal mondo. Nella peggiore sono sentimentalisti deliranti.
Tutto questo fino a quando ho adottato un cane. Vivendo assieme a lui ho scoperto che tutte le cose che si dicono sui cani, sul fatto che hanno sentimenti, che capiscono ciò che diciamo e che sono fedeli al proprio padrone in ogni istante della loro vita, ecco tutte quelle cose li, sono vere. Il mio cane, come tutti gli altri cani, ha pensieri ed emozioni, soffre il dolore, percepisce i pericoli. Ha memoria. Molti altri animali hanno le stesse qualità, anche i maiali. Ma per motivi di costume, sentimento e tradizione, noi occidentali non mangiamo i cani, mentre i maiali si.
Attraverso un processo industriale di trasformazione chiamato rendering, che permette di riciclare proteine animali inadatte all’alimentazione umana facendone mangimi per il bestiame e per gli animali domestici, i cani morti sono trasformati in elementi produttivi della catena alimentare. In America, milioni di cani e gatti soppressi ogni anno nei centri per animali diventano cibo per il nostro cibo. (I cani e i gatti eutanasizzati sono quasi il doppio di quelli adottati ogni anno).
Quindi è solo un passaggio della catena alimentare. Il maiale che io mangio trova nel suo cibo resti di altri animali domestici. E il mio cane, a sua volta, trova resti di altri animali domestici nei croccantini della sua ciotola.
Perché allora non mangio direttamente carne di cane? Perché a me importa della vita e della felicità dei cani. E anche di quella dei gatti.
A me importa e non voglio che la mia alimentazione contribuisca allo sterminio di pesci, maiali, conigli, polli, tacchini e cavalli, non voglio che gli animali soffrano negli allevamenti. Se vi state chiedendo se la bestia che riempie il vostro piatto abbia sofferto durante il ciclo della sua vita, nel 99% dei casi la risposta è si.
Questo perché fatta eccezione di pochissimi allevatori, gli animali che compriamo al supermercato derivano da allevamenti intensivi che ammucchiano, ad esempio, anche 20.000 tacchini all’interno di un capannone rettangolare di 150 metri per 40 metri.
Le uova della tua frittata sono state “covate” da una gallina che ha trascorso la sua intera esistenza (inferiore ad un anno) in uno spazio ampio quanto un foglio A4. Il prosciutto nel tuo panino deriva da un maiale che ha vissuto ogni istante della sua vita in una gabbia talmente stretta da impedirgli di girarsi (il parallelo con un cane rinchiuso in un armadio è abbastanza accurato, per quanto benevolo).
Una vita atroce è peggio di una morte atroce.
Per non parlare poi del modo in cui vengono uccisi: molte mucche, tanto per citare un caso, vengono stordite e fatte a pezzi quando sono ancora in vita (in modo da permettere al sangue di defluire facilitando il taglio). Polli e maiali sono destinati a una fine ben peggiore. Ma anche i pesci degli allevamenti non se la passano granché bene.
Se pensate che tutto questo non sia vero, provate a chiedere ad un produttore di mostrarvi il momento in cui uccide gli animali. Provate a chiedere di visitare un macello di un brand come Amadori (uno a caso). La risposta, nella remota ipotesi che qualcuno si prenda la briga di fornirvela, sarà sempre negativa, o almeno nel 99% dei casi.
I produttori sanno bene che più il consumatore capisce cosa accade davvero in un macello, meno carne ha voglia di mangiare.
Queste sono le motivazioni per cui ho deciso di non mangiare più carne animale. Certo, non è facile, e la mia dieta non è priva di contraddizioni (perché allora mangio i derivati come uova e formaggi? Anche questi derivano quasi sempre da allevamenti intensivi in cui gli animali vengono picchiati, maltrattati e dopati con antibiotici), ma quello che posso dire, oggi, anche in seguito alla lettura del libro da cui sono tratte le citazioni di questo post è: a me importa della vita degli animali.
Per quanto possa sembrare semplice, questa risposta è la mia motivazione e mi ha permesso di cambiare idea dopo 29 anni di cucina carnivora. Altri trovano la propria motivazione dopo studi approfonditi sulle malattie causate dal mangiare carne e dai benefici della cucina vegetariana, o addirittura per questioni ecologiche: l’allevamento intensivo è responsabile del 18% delle emissioni di gas serra e del 70% delle deforestazioni del pianeta, senza contare i danni del consumo del suolo e dell’inquinamento da nitrati.
Il libro di Jonathan Safran Foer, parla del mio motivo, e offre un’attenta e brutale analisi sul modo in cui vengono allevati gli animali oggi (con tanto di interviste dirette ad allevatori e animalisti), sui farmaci che vengono loro somministrati, sul modo in cui si riproducono (artificialmente) e, in alcuni casi, sui maltrattamenti documentati.
“Se niente importa – perché mangiamo gli animali?” non è un libro sul diventare vegetariani, ma si rivolge a tutti i consumatori di carne, per far luce su quello che mangiamo ogni giorno e soprattutto quello che diamo da mangiare ai nostri figli.
Ben scritto e facilmente scorrevole, il libro offre una tonnellata di fonti che documentano i fatti raccontati e si concentra, senza alcuna pietà, su come la tecnologia abbia permesso all’uomo di trasformare il pianeta in un luogo di sterminio (animale) di massa. Tuttavia l’autore confessa un sottile e trasparente velo di ottimismo verso il futuro:
Quando cambia il nostro modo di mangiare cambia il mondo.