Lavorare bene, come insegna Cormac McCarthy

Il 13 giugno 2023 è morto Cormac McCarthy. A mio avviso, uno degli scrittori più importanti dell’ultimo secolo. Il suo stile ha influenzato autori e autrici di ogni angolo del pianeta, le sue frasi sono state usate un po’ da chiunque, a volte scopiazzate senza la cura di celarne la provenienza. Penso sia normale. Non bello, certo, ma capisco che una scrittura così ricca diventi una tentazione per chi ama scrivere.

McCarthy ha pubblicato 12 romanzi. I primi quattro o cinque non hanno nemmeno venduto granché, o almeno prima del successo dell’autore, avvenuto in punta di piedi con la “Trilogia della frontiera” (tre libri grandiosi: “Cavalli selvaggi”, “Oltre il confine” e “Città della pianura”) ed esploso, poi, con “Non è un paese per vecchi”. Quest’ultimo è uno dei miei romanzi preferiti, forse perché è il primo che ho letto di McCarthy, o forse perché le pagine finali sono quanto di più profondo abbia mai letto, non scherzo.

Ad ogni modo le vendite non gli interessavano granché, o almeno così pare. Addirittura, Il Manifesto riporta che in un’intervista del 1973 McCarthy disse:

“Immagino che potrei scrivere un libro di quel tipo (un successo commerciale) in una trentina di giorni”.

Pure spavaldo, penso, ma effettivamente, leggendo i suoi romanzi più difficili (“Suttree”, “Figlio di dio”, “Il guardiano del frutteto”) capisco una precisa intenzione nello scrivere. La sua prosa richiede attenzione, resistenza, ricerca. D’altronde, se si vuol leggere qualcosa di facile in libreria si trovano centinaia di titoli. Se si vuol leggere McCarthy bisogna invece prepararsi ad un lungo duello con la lettura. Estenuante, a volte. Ma necessario. Un romanzo come “Suttree”, che secondo alcuni è il capolavoro di McCarthy, richiede una notevole preparazione alla lettura. Riporto qui l’incipit del romanzo:

Caro amico adesso nelle polverose ore senza tempo della città quando le strade si stendono scure e fumanti nella scia delle autoannaffiatrici e adesso che l’ubriaco e il senzatetto si sono arenati al riparo dei muri e dei vicoli o nei terreni incolti e i gatti avanzano scarni e ingobbiti in questi lugubri dintorni, adesso in questi corridoi selciati o acciottolati neri di fuliggine dove l’ombra dei fili della luce disegna arpe gotiche sulle porte degli scantinati non camminerà anima viva all’infuori di te.

Un’unica frase, lunghissima. La punteggiatura la riconosci mentre attraversi le parole, cosa ben nota a chi legge James Joyce. Poi nel romanzo non trovi una storia avvincente, no, sarebbe barbaro e scontato, trovi invece una lenta camminata lungo i fiumi americani e il sole americano e i paesi di frontiera. Se non hai mai letto nulla dell’autore, ecco, non cominciare proprio da “Suttree”; comincia, piuttosto, da “La strada”, più semplice e scorrevole, quasi pop. Quasi.

A dirla tutta consiglio di partire da “Non è un paese per vecchi”, un libro devastante. Mentre lo leggo riconosco l’influenza che McCarthy ha avuto su altri scrittori, anche italiani. E anche su di me.

Nel mio caso, non nascondo di avergli rubato l’intenzione di lavorare in un certo modo, lavorare bene, fare qualcosa di enorme senza pensare unicamente al risultato commerciale. Pensare, piuttosto, alla grandezza del progetto.

Con questo non sto dicendo che la qualità del mio mestiere abbia minimamente a che fare con la qualità raggiunta da McCarthy, figuriamoci. Si tratta piuttosto di lavorare con una certa “promessa nel cuore”. Se vuoi sapere di quale promessa parlo, leggiti le ultime pagine di “Non è un paese per vecchi”, le trovi anche nel saggio “I barbari” di Alessandro Baricco (a proposito di influenze).

Se non hai voglia di aspettare, le trovi lette (malissimo) da me al minuto 04:36 di questo video. Buon ascolto, o buona lettura.