London, Museum of Brands

Ho appena letto l’interessante articolo “Londra da scoprire: Museum of Brands, Packaging & Advertising su Ninja Marketing”. Questo breve articolo mi ha ricordato un curioso aneddoto del mio ultimo viaggio nella capitale inglese.

A Londra ci sono andato tre volte e penso che ci tornerò presto. È una città in cui riesco sempre a fare il pieno di idee e quando mi trovo lì le mie Moleskine si riempiono di appunti, disegni e indirizzi.

Cerco sempre di visitare luoghi che non ho visto nei soggiorni precedenti, tra questi c’è anche il Museum of Brands, Packaging & Advertising di cui parla appunto l’articolo dei ninja. Ecco, avevo un’aspettativa altissima, sapevo cosa mi aspettava, avevo studiato le immagini presenti in rete e gli appunti di viaggio di tanti colleghi che mi hanno detto, tutti, “devi assolutamente andarci”. Questo per rendere l’idea di quanto fossi emozionato alla sola idea di mettere piede in un museo di cimeli riguardanti il mio mestiere.

Quella mattina mi sono alzato di buon ora, avevo già pronto il complesso piano per raggiungere il luogo (complesso perché in quei giorni alcune linee della metropolitana ero chiuse per lavori). Avevo anche cercato gli orari di apertura nella pagina Facebook e contavo di presentarmi all’ingresso poco prima dell’apertura, pronto ad evitare un’eventuale fila (che poi, mi hanno detto che la fila non c’è mai ma io sono un tipo paranoico e prudente).

Con qualche buffa combinazione di autobus sono riuscito a scendere a poche centinaia di metri dal luogo e con passo spedito l’ho raggiunto in pochi minuti. Da lontano ho intravisto l’insegna e ho subito notato una certa desolazione all’ingresso, cosa che negava una qualunque forma di fila per entrare. Non ho pensato nemmeno per un minuto che potesse essere chiuso. Nemmeno per un minuto. Solo quando sono arrivato all’entrata ho notato le luci spente e il cartello, piccolissimo, con scritto

closed on monday.

Ho così ricontrollato la pagina Facebook, dove non appariva da nessuna parte un ipotetico giorno di chiusura. Così ho provato a navigare il sito web e solo lì ho letto che il museo è chiuso proprio il lunedì.

Coglione io a non aver controllato prima il sito web o negligenti loro a non aver aggiornato la pagina Facebook?

Il sito web non è l’unico canale di comunicazione

Il giorno di chiusura è un’informazione fondamentale da fornire al pubblico, e questo vale per qualunque tipologia di attività: dal piccolo bar di paese al celebre museo londinese.

Sui social, belle immagini e belle parole servono a poco se le informazioni basilari dell’attività non vengono compilate.

Quindi, prima di pianificare un piano editoriale, prima di iniziare un percorso pubblicitario o di comunicazione, beh, ecco, sulla vostra bellissima paginina social, segnalate quando siete chiusi, così non distruggerete le aspettative del vostro pubblico. Ma soprattutto, fatelo su ogni canale web, non solo sul sito, perché il sito non è più il canale più ricercato dagli utenti.

Come si è conclusa questa storia?

Tornato in Italia, ho subito pensato di inviare un messaggio alla pagina del museo per segnalare di aggiungere l’informazione. Mi ero preparato un messaggio gentile e amichevole, ma quando sono andato sulla loro pagina ho trovato le informazioni aggiornate con la scritta “chiuso il lunedì”. Qui mi è sorto un nuovo dubbio: coglione io a non essermene accorto pochi giorni prima o bravi loro ad avere aggiunto l’informazione?

Non vorrei lodarmi eccessivamente, ma sono abbastanza sicuro che prima non ci fosse, perché nel mio diario di viaggio mi ero segnato i luoghi da visitare in base ai loro giorni di chiusura e alla loro posizione geografica.

Il messaggio carino e amichevole si è trasformato in un “perché cazzo non lo avete fatto prima?”. In tutto questo c’è però un lato positivo: ho un nuovo pretesto per tornare a Londra.

leader

L’espressione “azienda leader di mercato” è molto diffusa nei testi di presentazione di molte PMI. Talmente diffusa che noi comuni consumatori siamo circondati da leader di mercato. Dall’eCommerce specializzato in prodotti per il bagno al mobilificio fuori città, sono tutti leader a loro dire.

Di sicuro questa definizione risulta piuttosto attempata e non specifica più un vero valore aggiunto che possa far leva nel processo decisionale di acquisto.

Le aziende leader, sono davvero leader?

Se affermate di essere leader di mercato è innanzitutto importante precisare “di quale mercato” ed è inoltre fondamentale essere sicuri di essere davvero leader.

Per definizione,

“un’azienda è leader quando detiene la maggior quota di mercato per un dato prodotto o servizio.”

Quando lo dite dovete essere davvero sicuri di esserlo, e possibilmente dovreste avere le prove. Nel caso non le abbiate e non possedete nemmeno un metro obiettivo per poter misurare la vostra grandezza, è meglio tacere, o magari dire altro.

I mezzi-leader

Molte aziende timorose di definirsi superiori ai propri competitor ma allo stesso tempo volenterose di sentirsi grandi, affermano di essere co-leader di mercato. Si tratta di un escamotage per non gridare troppo forte ma allo stesso tempo non crea una vera differenziazione e, inoltre, attiva nella mente del pubblico il pensiero che ci possano essere altre aziende alle quali rivolgersi.

Lo stesso vale nel caso di chi acclama di essere “tra le prime aziende nazionali” o “tra le più influenti aziende al mondo” o ancora “tra le migliori aziende europee”, perché sta sempre dicendo che esistono altri brand allo stesso livello.

Se tu, copywriter, vieni obbligato dal tuo cliente o dal tuo capo a scrivere che l’azienda in questione è leader di mercato, arricchisci il testo, la comunicazione e il posizionamento specificando almeno qualche numero: “siamo tra le prime tre aziende italiane nel mercato dell’arredo”. Ecco, è già meglio, ma non ancora perfetto.

Ma non è finita qui: spesso si incontra anche l’espressione “la nostra mission è diventare leader del mercato”. Questa frase significa tante cose, come:

  • non siete dei leader;
  • non avete un posizionamento preciso;
  • siete piccolissimi;
  • non avete idea della competitività del mercato;
  • siete (troppo) ambiziosi.

Quindi, questa cosa dei leader di mercato, lasciatela da parte. Piuttosto, fate come Tesla Motors, che è realmente un leader di mercato ma non lo dice. La sua headline acclama “L’auto elettrica con la migliore autonomia”.

sito web Tesla Motors

Ecco, questo va bene, perché è un’affermazione veritiera. Ricordatevi sempre di essere onesti con il vostro pubblico.

Un approfondimento sociologico: Leadershit

Ad avere poco senso, oggi, è anche la stessa definizione di leader. Il termine evoca qualcosa di gerarchico, titanico e di anti-etico. Le vignette che girano in rete dove vengono messi a confronto un boss e un leader sono fasulle e inutili.

boss vs leader

In realtà non esiste una differenza tra un termine e l’altro. Ovvero, non è importante distinguere tra un capo che “sfrutta” e uno che “coltiva”, è molto più rilevante, oggi, abbandonare i vecchi approcci fondati sulla pressione quotidiana del profitto ad ogni costo, ed elevarsi al dialogo e alla condivisione di una filosofia comune. Una vera filosofia del lavoro.

Trovo illuminante, su questo tema, il saggio Leadershit (titolo bellissimo) di Andrea Vitullo, che racconta un approccio in cui la figura del leader scompare lasciando il posto ad una dimensione etica e filosofica, determinante per il business di un’azienda.

Si tratta di un breve saggio, un piccolo manuale di rara intensità che dovrebbe trovarsi sulla scrivania di ogni ufficio e ogni posto di lavoro in genere.

la-storia-del-mondo-in-cento-oggetti

Il libro ha 700 pagine. Ci tengo a precisarlo subito. Ma ci sono molte immagini, anche questo è importante. Ed è un libro di storia, seppur scorrevole quanto un romanzo. È un’acrobazia di scrittura, un virtuosismo di stile e buon gusto, un libro che il solo pensare di scriverlo sembra una follia.

Neil MacGregor sceglie 100 oggetti esposti al British Museum (di cui è direttore) e li utilizza come leve per imboccarti l’intera storia dell’umanità che, al contrario dei libri scolastici, delle enciclopedie o delle pesantissime pagine di Wikipedia, divori con avarizia e curiosità, stupore e talvolta eccitazione.

100 oggetti, 100 capitoli lunghi una manciata di pagine, si leggono sia in ordine cronologico che sparso, uno alla volta, anche uno al giorno. Piccoli pezzetti da trangugiare in qualunque momento della giornata: prima di andare a dormire, in pausa pranzo, a colazione.

100 oggetti non particolarmente famosi. Anzi, spogliato dell’Onda di Hokusai e del Rinoceronte di Dürer, nel volume non restano altre opere “pop”, ma l’autore crede fortemente nella rilevanza storica di ogni oggetto, persino di utensili che, al mio occhio ignorante, appaiono come vecchi utensili e basta. E invece hanno un enorme potenziale narrativo. Raccontarlo è il suo modo di dar loro una seconda possibilità per essere apprezzati, ed è anche un metodo incredibilmente romantico di far aumentare le visite al museo (perché il libro è anche, e in fin dei conti, uno acuto strumento di marketing).

È come se ogni oggetto avesse una storia invisibile, ecco, MacGregor racconta quella storia. Parlare dell’Onda di Hokusai è relativamente facile, con studio e pazienza chiunque riuscirebbe a scrivere almeno una paginetta zuppa di frasi interessanti. Ma intrattenere ed entusiasmare descrivendo monete d’oro indiane, coppe neppure affascinanti rinvenute nei pressi di Gerusalemme o maschere messicane di pietra, beh, la questione si complica, e l’abilità nella scrittura non è più sufficiente. Servono nuovi occhi, capaci di vedere l’invisibile e trasformarlo in argento. Questa abilità, di cui l’autore è padrone, sarebbe un’arma invincibile nelle mani di copywriter, storyteller e pubblicitari. E questo libro, La Storia del Mondo in 100 Oggetti, è uno strumento didattico molto più efficace di guide e volumi che promettono di svelare i segreti del marketing.

Un grandioso lavoro di scrittura e ricerca

Le storie raccontate attraverso gli oggetti, ovviamente, non sono storie inventate. Sono piuttosto il risultato di una paziente ricerca che, esposta con ordine e precisione, diventa un tassello della storia del mondo. La descrizione di un oggetto, in realtà, è un pretesto usato per spiegare i cambiamenti sociali, politici ed economici delle più importanti tappe della storia umana.

Il cronometro della Beagle - La storia del mondo in 100 oggetti

L’oggetto che più mi ha colpito è il “Cronometro della Beagle”, un cronometro inglese in ottone risalente tra il 1.800 e il 1.850. È famoso perché fu consegnato alla Beagle, la nave sulla quale salpò Charles Darwin nel suo viaggio intorno al mondo, dal quale sarebbe nata la celebre teoria dell’evoluzione. Ma l’autore non si concentra su questo, preferisce invece mostrare quanto sia cambiato il mondo grazie a tecnologie come il cronometro per la navi:

Per portare a compimento la sua missione, tracciare una carta geografica della linea costiera del Sudamerica, la Beagle aveva bisogno di misurare con accuratezza latitudine e longitudine. Il cronometro permetteva per la prima volta un rilevamento cartografico degli oceani estremamente preciso, con tutto quello che ciò comportava per la creazione di rotte commerciali sicure e rapide […]. Per far fronte a possibili discrepanze, o errori, la Beagle aveva a bordo 22 cronometri: 18, compreso il nostro, erano forniti dall’ammiraglio, e 4 dal capitano, Robert Fitzroy, secondo il quale 18 non sarebbero bastati per un lavoro così lungo e importante. Dopo cinque anni di mare, gli 11 cronometri ancora funzionanti mostravano una discrepanza di appena 33 secondi rispetto all’ora di Greenwich. Per la prima volta una cintura cronometrica dettagliata avvolgeva la terra.

Il cronometro marino permetteva dunque ai marinai di trovare la longitudine con enorme precisione, e da un oggetto così piccolo è nata una vera e propria rivoluzione dei viaggi e della geografia. La cartografia moderna incomincia proprio da questa piccola scatoletta di legno con all’interno un orologio, anzi, un cronometro in ottone. Come dicevo, gli oggetti sono pretesti per raccontare una storia, un cambiamento, un tassello del passato.

È questa la magia del libro. La magia degli oggetti. È questa, come scrivevo precedentemente, la storia invisibile trasformata in argento.

naming - copywriter

Non si tratta di trovare un nome, ma di trovare il nome. Trovare, o inventare, purché sia perfetto, musicale, memorabile, originale e corretto. Persino figo, che non guasta. Annamaria Testa, una delle più grandi copywriter italiane in attività, direbbe che

un nome deve distinguere, esprimere l’essenza, raccontare, far desiderare. Deve anche essere facile da pronunciare e avere un buon suono, dev’essere semplice da memorizzare, sufficientemente diverso dai nomi dei concorrenti e abbastanza affine ai codici propri della merceologia.

Il nome di un’azienda ha dunque una grande responsabilità. Certo, può venire in mente anche per caso, o per culo, ma la fortuna non aiuta mai con la frequenza che vorremmo. Che vorrei. Servono quindi metodo, pazienza e competenza. Passione e voglia di scrivere, cancellare, riscrivere e pronunciare mille volte a voce alta i nomi creati.

Naming: come nasce il nome di un’azienda

Prima di chiamarsi Growup, l’azienda non era niente. Nemmeno esisteva. Era in realtà sparsa negli appunti e nelle idee del suo creatore. Era poco più di un’idea, seppur precisa: una grande cooperativa di imprese che operano nel settore edile e che sono disposte a noleggiare le proprie macchine professionali come gru, camion e macchine di movimento terra. Un gruppo di attività che hanno in comune l’obiettivo di crescere ed aumentare il fatturato, i servizi offerti e la quantità di aziende associate.

Analizzando l’idea e gli obiettivi del progetto ho subito pensato che il nome doveva esattamente evidenziare l’immaginario di “insieme di imprese” e l’intenzione di espandersi. Il fatto che operasse prevalentemente nel settore edile non era fondamentale, non inizialmente, perché il nome di un’azienda non deve per forza esprimere ciò che l’azienda fa. Pensiamo ad esempio a Apple: mica vende frutta.

Da qui ho iniziato un lungo brainstorming nel quale ho appuntato qualsiasi parola mi venisse in mente, iniziando da quelle in lingua italiana, come gruppo, insieme, crescita, edilizia, edile, gru, sollevare, noleggiare, cantiere; successivamente ne ho aggiunte altre in inglese, come edil, garage, feral, building, rent, service, reef, level e tantissime altre.

naming brainstorming

Poi le ho mischiate, fuse, cancellate, riscritte in modi differenti (al contrario, senza una lettera, cambiando una consonante) e, dopo un centinaio di tentativi, mi sono trovato, tra le tante bozze, il verbo to grow up (crescere). Mi piaceva. In una prima modifica l’ho trasformato in Gru-Up, prendendo così “in prestito” una delle macchine più conosciute nel settore edile.
Ero vicino all’idea ma non era ancora quella giusta, perché nella cooperativa sarebbero state presenti aziende che non operano esclusivamente nell’edilizia o che non hanno nulla a che fare con le gru. Serviva dunque un nome migliore, più identificativo e, in un certo senso, elegante.

Sono tornato al verbo to grow up. L’ho scritto in diversi modi, sempre a mano, trovando nella versione con tutte le lettere attaccate, qualcosa di stranamente utile: togrowup.

Ho tolto to, per leggere growup, semplice, breve, scorrevole. C’era qualcosa che funzionava ma non l’avevo ancora capita. Così l’ho scritto in stampatello: GROWUP.

Ancora niente. Ho aumentato l’interlinea tra le lettere:
G   R   O   W   U   P.
Quest’ultima versione l’ho lasciata riposare una notte, per darle il tempo di maturare e respirare, proprio come quando si apre in anticipo una bottiglia di vino.

Il giorno dopo l’ho riletta a mente fresca e ne ho cavato una lettera. Tolta, così, per il gusto di rubarla. Ho sequestrato la W. Restava GROUP. Cavolo, gruppo. Ho così capito che omettendo e ripristinando quella lettera si poteva cambiare il senso della parola, che variava da growup a group, da crescere a gruppo, che sono, come dicevo, due delle parole chiave che riassumono l’intento della cooperativa: far crescere il gruppo.

naming lettering design

Ho così capito che Growup era il mio nome: breve, facile da ricordare e da pronunciare. Ho subito intravisto la quasi totale impossibilità di leggerlo o pronunciarlo in modo errato.

Logo design: l’importanza del lettering

Scelto il nome, ho deciso che sarebbe spettato al logo il compito di far vedere il gioco delle due parole, di far leggere sia Growup che Group. Anche in questo caso torno al concetto che

un logo non deve per forza mostrare quello che un’azienda fa – David Airey.

Ho ragionato sulla creazione di una icona, ma ho preferito concentrarmi sul solo lettering, sul far vedere attraverso le parole. È iniziato dunque un lungo processo di ricerca del font, conclusosi con la scelta di Josefin Sans per la sua geometria e la particolarità della lettera W, che ha un vezzo grafico che la “differenzia” dalle altre lettere, aiutando così la doppia lettura.

logo design - font

Per enfatizzare la doppia lettura ho usato i colori: nero e arancione (quest’ultimo molto in uso nel settore edile). Leggendo la parola completa si legge Growup, leggendo solo lettere in nero si legge, invece, Group.

Et voilà, naming e logo.

naming and logo design

scrittura creativa

La creatività non è una lampadina che s’accende e si spegne. È piuttosto un percorso, un lungo esercizio. Non posso di certo metterci la mano sul fuoco ma l’esperienza in ambito artistico e professionale mi dice che è così. A mio avviso l’immagine della lampadina è un luogo comune che tenta di semplificare qualcosa di troppo complesso.

Per un copywriter, in particolare, credo sia impossibile distinguere tra scrittura creativa e scrittura non creativa. Nel senso: esiste forse una regola che segna il confine tra l’una e l’altra? Io non la conosco. Mi riesce persino difficile trovare una definizione convincente di scrittura creativa. Eppure spesso mi confronto con colleghi e altri professionisti del mestiere che marcano con orgoglio e sicurezza numerose sfaccettature della scrittura: creativa, tecnica, funzionale, SEO, tradizionale, professionale.

Sfogliando il mio portfolio trovo headline e bodycopy per campagne pubblicitarie on e offline, nomi di prodotto, nomi di aziende, nomi di eventi, concept di comunicazione, storyboard, copioni per video, testi per spot radiofonici, contenuti per siti web e landing page, testi tradotti dal burocratese all’italiano, payoff, call to action, articoli per riviste specializzate e per la stampa locale, manuali di istruzioni, locandine, discorsi per convegni e manifestazioni, progetti di lettering design, layout per preventivi e tonnellate di manuali per la comunicazione interna di imprese ed enti pubblici. Ecco, tra tutte queste cose, esattamente, cosa rientra sotto l’etichetta “scrittura creativa”? Cosa invece no?

Scrivere è sempre un gesto creativo

Quando scriviamo, in realtà, svogliamo un gesto molto più ampio. Scrivere è anche disegnare, creare mappe e percorsi di lettura, rassicurare. Questo perché, parafrasando Luisa Carrada, le parole prima si guardano poi si leggono:

“Anche una lunga e monotona relazione di lavoro può apparire invitante se scritta con il font più adatto, un titolo e un sottotitolo informativi, un abstract che riassume in 50 righe il contenuto di 60 pagine, spazi bianchi per far respirare e riflettere, box che evidenziano i punti più importanti, didascalie laterali che permettono di navigare tra i contenuti e trovare rapidamente quello che serve – Il mestiere di scrivere, 2007 © Apogeo”.

Lavorare al fianco di persone competenti di grafica e visual design aiuta a scrivere meglio, a disporre correttamente i paragrafi, ordinare gli spazi vuoti, crearne di nuovi ed eliminare il superfluo (sostituendolo talvolta con icone studiate ad hoc, come hanno recentemente fatto Widiba e CheBanca!). Lavorare accanto queste figure professionali aiuta a considerare la scrittura come qualcosa di visivo, e a capire che lo sforzo mentale richiesto per la creazione di una buona headline è lo stesso di quello necessario per scrivere i testi di un libretto di istruzioni.

Quando scriviamo, dicevo, facciamo moltissime cose: uniamo l’esperienza con il gusto personale, costruiamo un ordine gerarchico di significati che disponiamo secondo una precisa architettura visiva (layout). Disegniamo. Illustriamo. Facciamo chiarezza. Mettiamo in moto un processo che coinvolge il nostro sapere e il desiderio di raggiungere risultati eccellenti.

Ma allora cos’è la scrittura creativa?

Mi riesce difficile dare una definizione, penso però che lo scrivere in modo creativo, che non ritengo diverso dallo scrivere bene, abbia fortemente a che fare con l’esperienza. Le buone idee possono venire a chiunque, ma per concretizzarle (e venderle) è necessario lavorarle con le conoscenze acquisite nel tempo.

Non c’è una lampadina che si accende o si spegne, ma piuttosto una luce fioca che ci fa sempre compagnia, perché anche nei momenti di mancanza di ispirazione la macchina delle parole non si ferma mai, brucia carburante e produce milioni di frasi, talvolta bruttissime. L’esperienza ci aiuta a migliorarle, pulirle e trasformarle in periodi perfetti per il canale cui sono destinati.

La regola del gratta e vinci - copywriter

Gratta e vinci. È semplice, breve, immediato. Perfetto. Prova a pensarlo diversamente: gratta per vincere; gratta e scopri se hai vinto; gratta e vincerai qualcosa. Nessuna di queste formule funziona. “Gratta e vinci” invece si. È una questione di precisione o, meglio ancora, di soppesare le parole giuste e scegliere il tempo verbale adatto.

Per assurdo, la frase “Ti darò un pugno”, non fa poi così paura perché il futuro esprime un certo senso di incertezza, mentre “Ti do un pugno” è tutt’altra cosa.

Il presente e l’imperativo sono forti, decisi, convincenti. Non è un caso che siano i più utilizzati nel linguaggio pubblicitario: “La lavatrice lava di più con Calfort”, “La scarpa che respira”, “Just do it”, “Ascolta la tua sete”, “Un diamante è per sempre” e così via. Questi due tempi verbali trasformano una frase in una promessa o in un messaggio pubblicitario, che a pensarci bene sono la stessa identica cosa.

Rassicurare

pubblicità PayPal

 

Questa pubblicità online di PayPal acclama:

Basta esitare. Se non ti vanno bene, rimandale indietro. Ti possiamo rimborsare i costi di reso.* Attiva il servizio gratuito con PayPal.

L’imperativo “attiva il servizio gratuito” è deciso e diretto ma quel “Ti possiamo” distrugge l’intero messaggio. Nel senso: come sarebbe a dire “ti possiamo”? Esiste dunque una possibilità che io non venga rimborsato? Eccome se esiste! Dunque PayPal comunica che attivando il servizio gratuito si accende una vaga possibilità che tu possa ottenere un rimborso. Nessuna garanzia, nessuna promessa, ma solo una vaga speranza che, forse, nella migliore delle ipotesi, qualcuno potrebbe venire rimborsato di qualche centesimo.

Dal momento che in fondo alla frase appare un asterisco che rimanda alle condizioni (obbligatorie), sarebbe meglio scrivere

Rimborsiamo le spese di reso.

Questo è deciso, diretto, non lascia scampo alle incertezze (a quelle ci pensa l’asterisco che rimanderà a tutte le condizioni necessarie per ottenere il rimborso, un po’ come fanno le banche).

Meglio un uovo oggi che una gallina domani

Il futuro è la morte della pubblicità, l’esatto contrario di una promessa. Copio e incollo questa frase dalla brochure di una nota compagnia telefonica:

Con il pacchetto ADSL Plus potrai navigare più velocemente e in totale sicurezza.

Come sarebbe a dire “potrò”? Con quello che mi costa esigo che il servizio acquistato faccia esattamente le cose che mi sono state raccontate. Il futuro “potrai” esprime una condizione, che potrebbe accadere ma non è detto che lo faccia, anzi, in un periodo di estrema diffidenza io stento a credere alle promesse della pubblicità. Peggio del futuro c’è solo il condizionale, ma credo che a nessuno venga in mente di scrivere “Con il pacchetto ADSL Plus potresti navigare più velocemente e in totale sicurezza”.

Se fossi il copywriter di quella compagnia telefonica, andrei dall’art director a puntualizzare che, a mio avviso, sarebbe (ecco qui uso il condizionale) meglio scrivere:

Con il pacchetto ADSL Plus navighi veloce e sicuro.

Ma ovviamente con i se e con i ma non si vincono le guerre e non si scrivono headline migliori di altri.

Ad ogni modo, la regola del gratta e vinci è un primo appunto dal quale iniziare una comunicazione chiara e concisa. Poi bisogna lavorarci su: scrivere, cancellare, riscrivere, ascoltare, disegnare, litigare con l’account per poi trovare, dopo lividi e fatiche, la soluzione migliore (che solitamente non è mai la prima).

Riassumendo, la regola del gratta e vinci dice che:

  • un messaggio chiaro e memorabile è composto da pochissime parole che inducono all’azione;
  • l’azione è una promessa, e viene rassicurata dai tempi verbali presente e imperativo;
  • il futuro fa a pezzi la promessa.

Un copywriter davvero bravo (che non sono io) può anche fare a meno dei verbi per fare una promessa davvero rassicurante. Come? Lo slogan storico di Martini è forse il più alto esempio:

No Martini, no party!

Quattro parole, di cui due ripetute, zero verbi e una semplicità disarmante nel descrivere la promessa del brand. Chapeau.

eccetera

Poveretta la parola eccetera. La accorciamo in continuazione, non la scriviamo mai completa di tutte le sue lettere. Che ci ha fatto di male? Nove caratteri e solo cinque lettere uniche. Niente di particolarmente complicato da scrivere, sia con la penna che con la tastiere o magari il pollice, o l’indice. Non avrei particolari obiezioni sull’accorciare parole lunghissime come precipitevolissimevolmente (26 lettere), spettroeliocinematografia (25), elettroencefalograficamente (27) o il più assurdo esofagodermatodigiunoplastica (29). Ma eccetera, poveretta, cosa diavolo ha fatto per meritarsi l’abbreviazione? E poi perché alcuni la accorciano utilizzando due “c” mentre altri utilizzano anche la “t”?

Si scrive ecc. o etc.?

Il termine viene dal latino (et cetera) come un milione di altre parole della nostra lingua. Quindi non lo abbreviamo per una questione di razzismo, altrimenti dovremmo amputare gran parte delle voci presenti nel dizionario. Ma almeno capiamo perché alcuni, soprattutto inglesi e americani, usano la formula etc. In realtà anche noi italiani la utilizziamo, spesso senza conoscerne il motivo o con la convinzione che un inglesismo possa arricchire il nostro testo. Tecnicamente non è sbagliato scrivere etc., ma in questo periodo in cui la terminologia straniera ha invaso ogni nostro scritto (pensiamo a parole come brioche, cloud, marketing, meeting) preferisco attenermi alla formula italiana ecc. D’altra parte, se le abbreviaziani fossero vietate scriveremmo mai la parola completa et cetera?

Una dieta vegana evita tutti gli alimenti di origine animale come latte, uova, formaggi et cetera.

Chiaramente no, sarebbe molto più carino scrivere eccetera. Quindi, in italiano, preferisco scrivere ecc.

Il punto dopo l’abbreviazione

La grammatica impone l’utilizzo del punto in seguito ad una parola abbreviata, per cui scriviamo ecc., egr. e dott., affiancando un punto ad una virgola, come mi è appena accaduto. Inoltre, nel caso di una frase scritta all’interno di due parentesi, possiamo trovare anche la combinazione .).

Nella mia cassetta per gli attrezzi trovi tutto ciò che può servirti per riparare il guasto (cacciaviti, martelli, brugole, fascette ecc.).

Il primo punto completa l’abbreviazione, il secondo termina la frase mentre la parentesi, semplicemente, li separa. Se quest’ultima non ci fosse, però, sarebbe sbagliato (e brutto) chiudere un periodo con due punti, per cui bisogna utilizzarne uno soltanto, come evidenzia anche l’Accademia della Crusca:

… in una frase che si concluda con una parola abbreviata non si ripete il punto (presero carte, giornali, lettere ecc. Non presero i libri).

C’è poi chi aggiunge i puntini di sospensione dopo ecc., creando così “ecc…”. Questa formula è sbagliata perché i puntini (tre, solo tre, mai di meno e mai di più), hanno diverse funzioni ma non quella di concludere una abbreviazione.

Abbreviazioni assurde

La lingua italiana si comporta spesso in modo bizzarro. Permette di accorciare parole semplici come eccettera e allo stesso tempo permette soluzioni di dubbio gusto come dott.ssa, gent.mo o anche f.lli. Ogni riduzione grafica viene utilizzata per risparmiare tempo e spazio, come ricorda anche l’Enciclopedia Treccani, e trovo abbia un senso in certi contesti: scrivere una email, un SMS, un preventivo, un articolo di giornale (soprattutto cartaceo), un tweet, ecc.

Tuttavia, preferisco evitare l’utilizzo delle abbreviazioni, soprattutto quando la mia scrittura non viene dirottata da confini di spazio. Il tempo non è un problema, è piuttosto una scusa, un pretesto, una giustificazione. Provate a misurare quanti secondi impiegate a scrivere ecc. e quanti ve ne servono per scrivere eccetera. A quanto ammonta il divario? Un secondo? Due? Bene, questo lasso di tempo lo regalo alle parole, come forma di rispetto, e amore.

Iron Man - logo - lettering design

Le parole non sono solo parole, sono anche immagini. E anche le immagini sono parole. A farla breve, immagini e parole sono la stessa identica cosa. Davvero.

Le parole si muovono, dentro la nostra testa compiono gesti che corrispondono al loro esatto significato. Mentre leggiamo la parola “salto”, ad esempio, immaginiamo effettivamente una sorta di balzo da parte di qualcuno o qualcosa. Ora proviamo a collegare la nostra immaginazione alla parola scritta, facendo compiere un un balzo ad una delle lettere che la compongono.

jump - lettering design

 

L’esercizio che mi piace svolgere con non ordinaria frequenza consiste proprio nello spingere il significato a modificare il significante, e far sì che il senso di una parola ne vada a modificare il segno grafico, i contorni e perché no, anche la fonetica.

Si tratta solo di concentrarsi sulla forma e sul significato di una parola. Certe volte l’immagine che viene evocata può realmente concretizzarsi e modificare la grafia o l’intero visual della parola: è necessario pensare al termine non come un insieme di lettere ma come un incubatore di tratti e segni, modificiabili e sostituibili a nostro piacimento. La parola deve quindi essere “letta” come se fosse un disegno. Perché anche i disegni si leggono.

 

autumn - lettering design
Dal momento che le parole sono immagini nessuno ci vieta di utilizzare i colori nel processo di fusione tra significante e significato. Personalmente preferisco utilizzarli in quantità minime per non appesantire il disegno e non perdere le sembianze originali del testo. L’idea creativa alla base del disegno “Autumn”, come è ovvio, sta nel far cadere le lettere dalla parola come le foglie degli alberi, richiamando così un comune immaginario autunnale.

Lettering design: come si trasforma una parola in un’immagine?

Dicevo prima di non pensare alla parola come un insieme di lettere ma come un incubatore di tratti che possono essere spostati, capovolti e modificati. Prendo in esempio il nome “Titanic”. Quando leggiamo questa parola il nostro cervello esegue una lunga serie di collegamenti mentali, tra questi:

  • una nave che affonda;
  • Leonardo Di Caprio;
  • un iceberg;
  • Kate Winslet;
  • un prezioso gioiello blu;
  • una nave che si spezza in due.

La domanda è: uno di questi collegamenti può essere facilmente rappresentato modificando graficamente le lettere della parola Titanic? Dobbiamo impegnarci a rispondere sempre di si, trovando una soluzione creativa che non alteri il messaggio e che faccia possibilmente sorridere. La mia interpretazione personale è questa, dove l’idea creativa si concentra sulla lettera A che “affonda”.

 

Titanic - lettering design

 

Ok, con un nome così noto è troppo facile? Proviamo allora con quello di una serie TV: X-Files.
Quali collegamenti mi vengono in mente?

  • Due agenti dell’FBI.
  • Gli alieni.
  • UFO e navicelle spaziali.
  • Fenomeni paranormali.
  • I capelli rossi (ora biondi) dell’agente Scully.
  • L’uomo che fuma.

Mi concentro ora sullo stesso ragionamento elaborato per Titanic aggiungendo però qualche colore:

 

X- Files - lettering design

 

Troppo facile anche questa? Proviamo con The Walking Dead?
Dunque, si tratta di un telefilm concentrato sugli zombie che, per definizione, sono morti che camminano. Posso trasformare questo titolo in un titolo-zombie? Ci provo modifico l’ordine di tutte le lettere che compongono il nome:

The Walking Dead - lettering design

 

Ovviamente non è sempre così semplice trovare una composizione creativa. soprattutto con nomi più “anonimi” come nel caso di Quantico. Non sapendo come conciliare i significati della serie TV sugli aspiranti agenti dell’FBI ho pensato alla situazione attuale della serie: al momento è in pausa, i nuovi episodi usciranno in primavera. Quindi in un certo senso si “riaccenderà” il programma, da qui:

 

Quantico

 

Prendiamo ora il nome di un brand che ha fatto discutere non poco negli ultimi mesi, Yamaha. Con lo scontro tra Valentino Rossi e Jorge Lorenzo i tifosi si sono letteralmente divisi in due fazioni e allo stesso tempo gli equilibri interni dell’azienda hanno accusato una bella scossa.

 

Yamaha - lettering design

 

Questo esempio è utile per spiegare che talvolta anche la situazione culturale può incidere sul rapporto tra immagini e parole, significanti e significati.

Provateci voi ora: scegliete il nome di un film, un animale, una stagione dell’anno, un verbo o il nome di un oggetto che portate sempre con voi, e se vi divertite continuate a farlo, così facendo terrete in allenamento la vostra creatività.

Io lo sto svolgendo proprio in questi giorni con “Superheroes: a lettering design project”, dove mi diverto a gicoare con i nomi, i poteri e le caratteristiche dei super eroi di Marvel e DC Comics.

 

Superman - lettering design

 

Seguite l’evoluzione del progetto sulla mia pagina Facebook o nell’apposita board di Pinterest.