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È importante distinguere gli apostrofi dagli accenti, perché non sono la stessa cosa. È banale dirlo, eppure…
Capita spesso di trovare su riviste, confezioni di prodotti – qualsiasi prodotto – e talvolta anche nei titoli del telegiornale, E’ al posto di È. Questo problema appartiene solo al mondo dello stampatello ed è causato dalla mancanza di alcuni caratteri speciali in un determinato font (o, purtroppo, ad una debolezza grammaticale).
Quando appunto ci si trova a scrivere in maiuscolo e il font non mette a disposizione l’accento, si può ricorrere a qualche scappatoia di fortuna:

  • Cambiare la frase: prendendo come esempio il primo verso di questo post, lo si potrebbe riscrivere così: Bisogna distinguere gli apostrofi dagli accenti. A volte basta davvero poco.
  • Se si tratta di un manifesto, può bastare un ritocco grafico per aggiungere l’apostrofo mancante – significa che chi scriverà il testo dovrà momentaneamente scriverlo con un errore grammaticale.

Una terza ipotesi, la più drastica, che non amo particolarmente, è quella di cambiare font. È però difficile rinunciare ad un font solo perché manca di un carattere speciale. Anche se quelli più usati hanno quasi sempre tutti i caratteri necessari per scrivere, stampare e pubblicare con serenità e, soprattutto, precisione.

Come dice Massimo Birattari nel manuale È più facile scrivere bene che scrivere male, “La semplicità è un importante strumento per comunicare con efficacia”. A pagina 17 affronta subito un argomento che merita particolare attenzione: Il burocratese. A guadagnarsi un nome tanto terribile è la lingua scritta – ma anche parlata – di politici, medici, avvocati, assicuratori e banchieri, usata anche in contratti e comunicazioni di ogni tipo. È una lingua che deve essere giuridicamente inattaccabile, e proprio per questo usa parole come espletare, encomio e apporre, quando sarebbe molto più comprensibile usare termini come compiere, lode e mettere. Il linguaggio tecnico non è dunque facile da comprendere per il pubblico a cui è rivolto. Io ho enormi difficoltà a capire gli intrighi e gli intrugli dei documenti relativi al mio conto in banca, e non solo. M’è capitato pochi giorni fa di leggere questo testo su di un contratto di lavoro di un amico:

Oggetto: Comunicazione di proroga del contratto di lavoro In riferimento al contratto di lavoro a tempo determinato con decorrenza dal 29/03/2013 e scadente il 02/04/2013 con la presente Le comunichiamo che lo stesso contratto è prorogato fino al 15/05/2013 per la seguente motivazione: incremento di lavoro.

Da notare l’uso mal curato della punteggiatura: manca il punto alla fine della prima frase e almeno una virgola nella seconda. Ci sono inoltre parole poco usate nel gergo di tutti i giorni, come prorogato e decorrenza. Anche il gerundio scadente non è così facile da digerire, si potrebbe evitare. E si potrebbe riscrivere il tutto in modo più chiaro:

Oggetto: rinvio della scadenza del contratto di lavoro a tempo determinato.
Gentile sig. Mario Rossi, la informiamo che la scadenza del suo contratto di lavoro ha subìto una modifica: l’incremento di lavoro ha posticipato la data di scadenza dal 02/04/2013 al 15/05/2013.

La comprensione di quest’ultimo richiede certamente uno sforzo mentale minore rispetto al primo. Sarebbe molto più chiaro se ogni comunicazione venisse scritta con le parole di tutti i giorni e senza l’uso del burocratese, che ha il sapore di fregatura e di inganno. Purtroppo spesso si scrive anche per fregare e ingannare. E la gente ci casca.

Il dizionario dei sinonimi e contrari è un’arma pericolosa, ricco di munizioni, idee e parole in grado si salvarci da noiose ripetizioni, ma pieno zeppo, pure, di trappole e mine nascoste tra le parole. Servono esperienza e attenzione per scovarle e per disinnescarle. È che a pensarci con un pizzico di pignoleria e di amore per significati e significanti, i sinonimi non sono mai abbastanza sinonimi. Sono finti amici. Non dobbiamo cercarli a tutti i costi, sarebbe come cercare una persona identica a noi stessi, non c’è e non ci sarà mai. Simile, magari, con certe qualità e somiglianze, può darsi, ma mai identica. Allo stesso modo, i veri sinonimi non esistono. C’è sempre una minima differenza, talvolta sottile e apparente come tra assicurare e rassicurare (che si costruiscono e si usano in modi differenti), o anche tra polpo e polipo (si pensi al significato in medicina di quest’ultimo). Non è dunque sufficiente sceglierli con cura, ma è necessario cercarne il significato e l’origine, approfittando di tutte le informazioni incastonate nel dizionario di italiano e in quello etimologico.

Tornando invece alla ricerca di un sinonimo di noi stessi, una sorta di gemello fisico e spirituale, esiste uno strumento che ci viene in soccorso, Facebook, sul quale vale sempre la stessa regola: per quanto evidenti e apparenti siano le analogie e le affinità, andando a scavare in profondità si scoprono sempre, con una precisione matematica, acute e disarmanti differenze. Viene da pensare che bisogna fidarsi molto di più dei sentimenti e delle intuizioni (della propria cultura e della propria anima) che di quelle guide che dovrebbero facilitarci il vivere e lo scrivere.

Scrivere è una piacevole abitudine e trascurarne il gesto è come strappare via un tasto da un pianoforte.

Suonaci ora, sul quel pianoforte, che non è di quelli antichi, in cui il tasto mancante è un elegante segno di antiquariato. Devi suonarci ora, su quel pianoforte moderno e luccicante, privo di un tasto, mettiamo che sia un re diesis, stai tranquillo che presto o tardi ti capita, anche nel più banale degli spartiti.

Da quando sono stati introdotti i software di dettato negli smartphone, come Siri, si tende a scrivere un po’ meno. Basta dettare o anche dare un ordine vocale e il telefono esegue con tiepida precisione. Effettivamente è una grande tecnologia, un superamento del brevetto QWERTY di Christopher Sholes. Io detto, lui scrive. A pensare quante macchine per scrivere deve avere consumato Sholes per trovare il giusto ordine delle lettere sulla tastiera mi viene la febbre.

Ma gli inventori e gli ingegneri hanno il compito di facilitare e velocizzare ogni azione, e l’unico prezzo da pagare, nel tempo, è la perdita del gesto, in questo caso del sedersi con i gomiti sul tavolo e iniziare a scrivere, con carta e penna o monitor e tastiera. Quei gesti li. Io parlo lui scrive, non c’è nemmeno più bisogno di appoggiare i gomiti. Poi però lo voglio vedere nelle ore notturne, quando in casa tutti dormono e io scrivo, no cioè parlo e lui scrive, ma non posso far baccano e detto sottovoce, capirà?
Si perdono i gesti, come il posare la puntina sul disco, o il rumore dei polpastrelli che nella fioca luce della abat-jour martellano sui morbidi rilievi della tastiera. E ci si ritrova a suonare su pianoforti senza un re diesis, che quando serve, non c’è.

Per scrivere un post di 140 caratteri bisogna trovare 140 caratteri perfetti che insieme raccontano una storia breve ridotta all’essenziale.

Ridurre una storia all’essenziale significa sgrassarla da tutte quelle finezze lessicali che creano uno stile e danno un ritmo alla lettura.

Spaziature e punteggiatura sono caratteri. In questa frase ci sono nove spazi e un punto. Quindi vanno dosati sia i caratteri che le parole.

I più bravi, possono provare ad aggiungere virgole, punti e punti e virgola; basta fare attenzione a non farcire eccessivamente un concetto.

Poi c’è la delicata questione dei link, delle immagini e degli hashtag, che riducono parecchio il numero di caratteri a nostra disposizione.

Per ogni hashtag bisogna inserire un cancelletto, con il segno #, e quest’azione ruba un carattere. Troppi hashtag sono graficamente brutti.

La differenza tra Twitter e Facebook è la stessa che c’è tra Led Zeppelin e Deep Purple: tutta questione di stile, eleganza ed egocentrismo.

Si scrive tè, tea o thé?

Ho voglia di tè. Che in italiano si scrive tè. Solo tè. Ma sono accettate anche le forme tea, all’inglese, e thé, alla francese. È sempre tè. Assolutamente vietate le forme creative thea e té, che si scoprono su molti menù e manifesti pubblicitari. Io scrivo sempre e solo tè.
Non mi importa dei francesi e degli inglesi, che poi questi ci aggiungono persino il latte. Latte e tè, nel tè inglese, o english tea. Vietato scrivere english thé, che sennò s’incazza la gente di Parigi e s’offende quella di Londra. Bere un thé inglese è come bere da una tazzina vuota.

In questa faccenda del tè ci imbattiamo tutti, prima o poi.

O meglio, ci imbrattiamo di combinazioni pazzesche che spesso finiscono persino sulle lattine o sulle bottigliette. C’è anche una scritta sul muro, nascosta tra le pareti di un quartiere. Un cuore nero e accanto in stampatello HO VOGLIA DI TÈ, MARTA. E non capisco se Marta abbia voglia di una tazza di tè, o se qualcuno abbia voglia di questa Marta e per colpa di un accento di troppo abbia confuso la sua amata con la bevanda orientale, o se ancora, sia proprio questa Marta, poverina, ad avere voglia di qualcuno.

Non ne si capisce niente. In ogni caso è la voglia di qualcosa o qualcuno che conta. E che fa nascere storie assurde. Colpa degli accenti e dei significa(n)ti. Colpa del vedere storie pazzesche anche solo leggendo una frase scritta sul muro, o mescolando lo zucchero in una tazzina di tè. Una tazzina vuota di english thea.

Me lo avevano già detto all’università, un professore di Costruzione del Messaggio Pubblicitario una volta mi disse qualcosa tipo

i libri che promettono di insegnare a diventare creativi, a scrivere bene e a persuadere le persone, sono tutti un lungo bla bla bla.

Quel professore mi aveva segnalato un solo testo, uno soltanto, datato 1962: Confessioni di un Pubblicitario di David Ogilvy. In un modo pazzesco, quel professore aveva ragione. Anche dopo la laurea ho continuato a studiare, investire tempo e denaro in libri di ogni genere, e ho scoperto che tra quelli di content marketing  e scrittura creativa non c’è alcuna differenza. Tutti riportano più o meno gli stessi esempi, stesse citazioni (anche di Confessioni di un Pubblicitario), e stesse promesse.

Non ne comprerò più uno che parli del mio lavoro. Almeno per un po’. Studierò invece tutti i contorni di esso. Un workshop di scrittura comica per racconti brevi e copioni teatrali, diretto da Stefano Benni, mi ha insegnato molte più cose sul mondo pubblicitario che le milioni di pagine dei libri didattici. Molti romanzi che ho letto, soprattutto i classici, si sono rivelati i migliori insegnanti, i migliori esempi. Credo che non ci sia nessuno che può insegnarti cose come lo stile, il gusto, la punteggiatura. Queste sono cose che maturano nel tempo, in base alle esperienze della vita, alle persone con cui ci si relaziona, ai libri. Quei libri. Quelli che non nascono a scopo didattico ma raccontano la mente di uno scrittore, un romanziere. Quelli che in una sola frase rinchiudono il senso di un intero discorso:

L’unica cosa importante è scrivere bene.

Facile a dirsi. Ma è tutto li. Credo che nessuno si debba mai permettere di dirti cosa scrivere, e come farlo. Quello che si può imporre, al massimo, è di scrivere in maniera corretta. Lo stile appartiene ad ognuno di noi, ed è unico. Poi tra le mille pieghe della vita lo si infarcisce con le influenze degli scrittori, attori, registi o inventori che ci hanno emozionato. Si, anche gli inventori, e i matematici. La vita di Nikola Tesla mi ha emozionato: lui voleva scoprire un’energia unica, l’etere, capace di comprendere e magari sostituire tutte le altre forme di energia in natura. Proprio come ridurre tutti i concetti, i libri e i metodi sullo scrivere in un’unica frase: scrivere bene. Una frase di due parole e 13 caratteri, tanto per azzittire anche Twitter.

Scrivere bene. Quello che vuoi, quello che devi, dalle email agli sms, dal biglietto d’amore al graffito sul muro. Scrivere bene. Metterci tutti gli aggettivi che si vuole, per poi capire quali servono davvero e quali no. Scrivere bene e leggere ad alta voce. Leggere come se fosse l’ultimo grappolo di parole che ci passa sotto gli occhi. Scrivere come se fossero finite tutte le parole del mondo. Scrivere e leggere ad alta voce, per capire se le frasi scorrono con una certa eleganza e una ricercata precisione.

Scrivere bene. A farla breve. Scrivere.

A volte l’ispirazione non arriva. Di solito accade, cioè non accade, proprio quando ce n’è più bisogno. Non arriva. E allora tocca andarsela a prendere. Ovviamente non c’è qualcuno che ti dice dove andarla a cacciare, devi trovarla e basta. E questa cosa o la capisci o non la capisci, non c’è molto da aggiungere. È come scavare una fossa nel terreno e infilarci il cervello a stagionare. Scavare in profondità, e scendere giù, scendere giù a raccogliere qualcosa che non hai mai visto ma sai che quando la troverai la saprai riconoscere, e sarà come se ti fosse appartenuta da tutto il tempo di una vita.

Come i sogni, che ti appartengono e basta. Anche se sono difficili da ricordare. Ma hanno vita lunga, i sogni, capita che ne fai uno da bambino e dopo vent’anni ancora non te ne sei liberato. Sono cicatrici della memoria, non nella pelle ma nella mente, ma come quelle in superficie, nella carne, te le ricordi finché campi. E da lì non ci scappi. Le cicatrici hanno lo strano potere di ricordarci che il passato è reale*, e i sogni mostrano quei dettagli che ti appartengono solo nel buio, e non li troverai più, mai più. Cercarli è come scavare una fossa nel terreno e infilarci l’anima a stagionare. Scavare in profondità, e scendere giù, scendere giù a raccogliere qualcosa che hai visto in sogno e vorresti riconoscerla nella realtà. Poi se non la riconosci, devi andartela a cercare nella luce e nel buio, e non c’è nessuno che ti dice verso quale orizzonte guardare. E questa cosa o la capisci o non la capisci, non c’è altro da aggiungere.

*cit. Cavalli Selvaggi, Cormac McCarthy