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Detto fatto, dettato fatto.

Scrivere è una piacevole abitudine e trascurarne il gesto è come strappare via un tasto da un pianoforte.

Suonaci ora, sul quel pianoforte, che non è di quelli antichi, in cui il tasto mancante è un elegante segno di antiquariato. Devi suonarci ora, su quel pianoforte moderno e luccicante, privo di un tasto, mettiamo che sia un re diesis, stai tranquillo che presto o tardi ti capita, anche nel più banale degli spartiti.

Da quando sono stati introdotti i software di dettato negli smartphone, come Siri, si tende a scrivere un po’ meno. Basta dettare o anche dare un ordine vocale e il telefono esegue con tiepida precisione. Effettivamente è una grande tecnologia, un superamento del brevetto QWERTY di Christopher Sholes. Io detto, lui scrive. A pensare quante macchine per scrivere deve avere consumato Sholes per trovare il giusto ordine delle lettere sulla tastiera mi viene la febbre.

Ma gli inventori e gli ingegneri hanno il compito di facilitare e velocizzare ogni azione, e l’unico prezzo da pagare, nel tempo, è la perdita del gesto, in questo caso del sedersi con i gomiti sul tavolo e iniziare a scrivere, con carta e penna o monitor e tastiera. Quei gesti li. Io parlo lui scrive, non c’è nemmeno più bisogno di appoggiare i gomiti. Poi però lo voglio vedere nelle ore notturne, quando in casa tutti dormono e io scrivo, no cioè parlo e lui scrive, ma non posso far baccano e detto sottovoce, capirà?
Si perdono i gesti, come il posare la puntina sul disco, o il rumore dei polpastrelli che nella fioca luce della abat-jour martellano sui morbidi rilievi della tastiera. E ci si ritrova a suonare su pianoforti senza un re diesis, che quando serve, non c’è.

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