Tag Archivio per: comunicazione

fake news

La carota arancione è un’invenzione dell’uomo. I colori originari di questo tubero sono il viola e il bianco, ma in Olanda, nel diciassettesimo secolo, la famiglia Orange chiese ai propri agronomi di creare in laboratorio una carota arancione per omaggiare i colori della casata. Per un motivo pazzesco, questo artificio è diventato nel tempo una cosa talmente diffusa che oggi, se provassi a servire ai miei commensali una carota viola, di certo mi guarderebbero con sospetto.

Secondo te, questa storia è vera?

Le informazioni sono ancora insufficienti per poter dare una risposta.

Se però aggiungessi che questa storia l’ho letta su Cromorama, un saggio scritto da Riccardo Falcinelli, ecco che diventerebbe più facile trarre una prima e superficiale conclusione.

Tutto questo per dire che oggi leggiamo e ascoltiamo così tante cose verosimili, potenzialmente false, o spesso completamente errate, che è diventato obbligatorio verificare la veridicità delle informazioni. Approfondire è sempre necessario, e per chi si occupa di comunicazione è addirittura un dovere.

È tutta colpa delle fake news, di questo fenomeno che ha travolto tutti i media di comunicazione, da quelli digitali a quelli tradizionali, rovesciandone l’autenticità e scoperchiando una montagna di notizie imprecise, false e grossolane.

Siamo cresciuti con la convinzione che i libri cartacei contenessero certezze e ci siamo posti dei dubbi solo con l’arrivo della rete. Da Wikipedia a Yahoo! Answers ne abbiamo lette di cavolate, per non parlare di ciò che troviamo ogni giorno nel feed di Facebook.

In realtà, le fake news non sono un fenomeno da social, o meglio, grazie ai social sono uscite allo scoperto.

Se ci impegnassimo ad approfondire molti argomenti che abbiamo studiato o che crediamo di conoscere, se analizzassimo con attenzione il sapere del secolo scorso, incontreremmo migliaia di sorprese, storie vero-false ed incredibili semplificazioni della realtà. Ad esempio…

Quant’è grande il sistema solare?

Banalmente, per rispondere a questa domanda basterebbe fare una breve ricerca su Google, dove troveremmo inoltre molte immagini che raffigurano l’ordine del sole e dei pianeti. Ecco, tutte quelle illustrazioni, o render, sono solo raffigurazioni verosimili del sistema solare, disegni indicativi talmente imprecisi da risultare più falsi che veri.

Mi spiego: non esiste al mondo un modello in scala del sistema solare. Questo perché la distanza tra i pianeti è talmente ampia, incredibilmente ampia, che se disegnassimo la Terra grande quanto una piccola moneta, servirebbero chilometri di carta (o di monitor) per completare una rappresentazione in scala del sistema solare.

Nella monumentale opera “Breve storia di (quasi) tutto”, Bill Bryson scrive:

Non avete mai visto una mappa del sistema solare disegnata neppure lontanamente in scala. Nella maggior parte delle carte scolastiche i pianeti si susseguono uno dietro all’altro a intervalli ravvicinati, ma questo non è che uno stratagemma necessario a farli entrare tutti nello stesso pezzo di carta. […] Le distanze sono talmente enormi che disegnare il sistema solare in scala è impossibile. Anche inserendo nei libri scolastici moltissime pagine ripiegate […] non ci si avvicinerebbe all’obiettivo. In un diagramma in scala, con la terra ridotta al diametro di un pisello, Giove dovrebbe essere posto a oltre 300 metri dal nostro pianeta, e Plutone sarebbe a 2 chilometri e mezzo (per giunta sarebbe all’incirca delle dimensioni di un batterio, quindi impossibile da vedere).

Dunque la cosa è abbastanza complicata, e i libri si affidano ad immagini incredibilmente indicative, sia nelle proporzioni che nelle distanze. Si tratta dunque di immagini verosimili, imprecise quanto una comune notizia che cestiniamo come falsa.

sistema solare fake

La difficoltà di rappresentare con precisione le cose immensamente grandi la riscontriamo anche con le cose immensamente piccole. Prendiamo l’atomo. Chi sa disegnare un atomo? È luogo comune immaginarlo simile ad un uovo, con un nucleo all’interno. Nei libri lo troviamo sferico e trasparente, ma siamo sicuri che sia davvero così? O forse la sua rappresentazione è solo una riproduzione indicativa per farci capire la sua composizione?

Turismo, marketing e fake news

Di cose imprecise e verosimili il mondo ne è pieno. La vita ne è piena, e i professionisti del marketing ne producono in continuazione e le usano come esche per vendere e sedurre (d’altronde, quando andiamo a pesca costruiamo dei fake per fare abboccare i pesci).

Faccio l’esempio di un eclatante caso turistico presente nella zona in cui abito: il famoso castello di Gradara, un’affascinante e imponente rocca medievale che divide i confini dell’Emilia Romagna da quelli delle Marche. Si narra che tra le sue mura sia avvenuta la tragica storia di Paolo e Francesca (chi ha letto la Divina Commedia si ricorderà forse dei due innamorati).

Castello di Gradara - Fake

Questa cosa del “si narra” è già un indizio: non ci sono prove effettive che i due si siano amati proprio lì. Anzi, alcuni documenti affermano che il luogo preciso sia da tutt’altra parte. Ma durante le visite guidate, ovviamente, le guide dicono sempre “in queste stanze si sono amati Paolo e Francesca”, facendoti immergere in un’atmosfera romantica. E tu, felicemente, ci credi. Anche se non è poi così vero, ci credi, perché l’emozione è reale. Un po’ come accade con il mostro di Loch Ness che continua ad essere avvistato.

Dietro tutto questo ci sono delle forze che ci spingono a credere ad una determinata storia e ci tengono saldamenti ancorati nel mondo del vero-finto.

Nel piccolo saggio “Io credo alle sirene” di Andrea Fontana, c’è un capitolo che parla del “blending cognitivo“, un’esperienza che nel libro è descritta così:

Il blending ci porta a mescolare insieme fattualità e contro-fattualità quando leggiamo una fake news e ci diciamo: “non è vera ma ci credo”. O ancora meglio: ignoriamo completamente che sia fake e la cataloghiamo immediatamente come oggettiva, anche se non lo è. Senza il blending non ci sarebbe riconoscimento della nostra esistenza.

Tornando a Gradara, per fare i pignoli, pare che nemmeno il castello sia poi così autentico. O meglio, si tratta di una ristrutturazione: durante i bombardamenti della prima guerra mondiale è stato distrutto in buona parte, e tutto ciò che vediamo oggi è una ricostruzione, identica al passato, ma pur sempre una ricostruzione. In architettura si dice “dov’era, com’era”. Quindi le sale interne, i mobili, i baldacchini e le mura, non sono affatto medievali. Ma in fondo, dopo una meravigliosa visita guidata dove ti sei innamorato degli ambienti e delle torri, beh, che te ne frega se sia tutto autentico oppure no. Quello che hai visto è abbastanza credibile, abbastanza reale.

Ora pensa a quello che hai letto in questo articolo: la carota viola, il sistema solare e il castello di Gradara. Pensi che sia tutto vero quello che ho scritto? È possibile che ti abbia raccontato qualche balla o che abbia romanzato qualcosina?

Consiglio: non credere a tutto ma chiediti se quanto di ciò che hai letto ti sembra realmente possibile. Forse andrai a verificare qualcosa ma ti prego, non farlo solo su Google, scava più a fondo e fatti una tua idea. Tieni a mente questo approccio e questo tipo di ricerca, ti aiuteranno a non cadere nelle trappole del marketing, nelle promesse pubblicitarie e nelle affermazioni dei politici. Scava a fondo e tieni bene a mente che

vero e falso non sono i due estremi di un interruttore, ma sono, piuttosto, gli estremi di un potenziometro, grazie al quale è possibile calibrare il rapporto tra vero e falso.

Dobbiamo cercare e informarci di più, verificare le fonti e dubitare persino di quello che sappiamo. Come Fox Mulder e Dana Scully, dobbiamo convincerci che la verità è ancora là fuori.

Le parole sono ovunque

Le parole sono ovunque, sui manifesti pubblicitari, nelle voci di sottofondo e nella nostra testa. E non sono mai parole e basta. Sono musica, significati e collocazioni, ricordi e suoni increspati nelle pieghe della vita.

Ad esempio, ci sono parole bellissime, come pastello e frangiflutti, e altre evocative, come grano o tramonto. Frangiflutti è una musica, la pronuncia scorre con una pausa intensa dopo le prime due sillabe, e la ripresa con il suono “fl” provocato dalla lingua che scorre dal palato verso i denti, ci piace sia nel gesto che nel suono. Ci piace sempre. La “L” è una lettera affascinante, amiamo pronunciarla e per questo molte parole che la contengono ci piacciono più di altre.
Pastello, dicevo. Ma anche ciò che evocano è altrettanto importante, perché martello, ad esempio, non è bella quanto pastello.

La “L” inoltre è anche leggera, sia nel suono che nella grafia. Molte parole che contengono con frequenza questa lettera diventano anch’esse leggere, come libellula.
Fatte eccezione per la “L”, troppe consonanti rendono le parole complicate e zoppe, soprattutto quando ci sono di mezzo le lettere “Z”, e “T”, che interrompono il suono – la musica – delle parole. Ottimizzare, assicurazione, trattore, torrefazione, zattera e zanzara sono ricche di spigoli e inciampi. Orizzonte no, il significato e i pensieri che evoca sono più forti del taglio provocato dalla doppia zeta.

Anche troppe vocali tutte vicine tra loro possono peggiorare il suono: ad esempio, ghiaia è terribile. Ma nella lingua italiana ci sono parole che contengono anche tutte le vocali e molte di esse sono bellissime, come estuario, sequoia e aquilone.

Come frangiflutti e pastello sono bellissime anche nuvola, lucciola, pagina e coccinella.
Ma ci sono anche parole orribili, come ruga, cranio e grattugia. Parole nostalgiche come lontano e tramonto – forse perché tutti i tramonti sono nostalgici -, o parole pesanti, come gravità e capitalismo. Altre sono rigide, come vetro, o eleganti, come perla, ma ce ne sono anche di fastidiose come spigolo, spina e microbo. Ne esistono anche di silenziose, come intimità, o altre sempre fuori luogo, come droga. Alcune hanno un suono curioso, come buco. Ci sono parole che pronunciamo con parsimonia, come rugiada e tepore, e altre di cui abusiamo, come cuore, amore e tumore. Potrei andare avanti all’infinito, dimenticando che le parole possono essere descritte con aggettivi anche improvvisati eppure precisi.

Le parole si impadroniscono del loro significato, o forse viceversa, ecco perché vanno scelte con cura. Pensa ad una parola come buio, che per me è quasi inquietante. Pensa alla sua capacità di inghiottire tutto il resto della frase. Rende il buio ancora più pauroso. Buio. Parola brevissima, quasi un tuono o un colpo di fucile, e in entrambi i casi c’è una luce, un abbaglio, in cielo o davanti ai tuoi occhi, e in un solo caso vieni attraversato da un proiettile, e poi tutto diventa buio per davvero.

Infine ci sono le parole non dette, e siamo tutti bravissimi nel sceglierle e soppesarle. Quelle non si trovano nei manifesti pubblicitari, nelle voci di sottofondo o nelle strade. Mi piace pensare che siano dentro la nostra testa, se così fosse sono davvero abili nel non farsi mai trovare al momento giusto. Eppure tornano, come echi lontani. Ne ho incontrate alcune in sorrisi mancati, in fotografie ingiallite e nelle linee sul viso che ci ricordano la vita è un soffio.

London, Museum of Brands

Ho appena letto l’interessante articolo “Londra da scoprire: Museum of Brands, Packaging & Advertising su Ninja Marketing”. Questo breve articolo mi ha ricordato un curioso aneddoto del mio ultimo viaggio nella capitale inglese.

A Londra ci sono andato tre volte e penso che ci tornerò presto. È una città in cui riesco sempre a fare il pieno di idee e quando mi trovo lì le mie Moleskine si riempiono di appunti, disegni e indirizzi.

Cerco sempre di visitare luoghi che non ho visto nei soggiorni precedenti, tra questi c’è anche il Museum of Brands, Packaging & Advertising di cui parla appunto l’articolo dei ninja. Ecco, avevo un’aspettativa altissima, sapevo cosa mi aspettava, avevo studiato le immagini presenti in rete e gli appunti di viaggio di tanti colleghi che mi hanno detto, tutti, “devi assolutamente andarci”. Questo per rendere l’idea di quanto fossi emozionato alla sola idea di mettere piede in un museo di cimeli riguardanti il mio mestiere.

Quella mattina mi sono alzato di buon ora, avevo già pronto il complesso piano per raggiungere il luogo (complesso perché in quei giorni alcune linee della metropolitana ero chiuse per lavori). Avevo anche cercato gli orari di apertura nella pagina Facebook e contavo di presentarmi all’ingresso poco prima dell’apertura, pronto ad evitare un’eventuale fila (che poi, mi hanno detto che la fila non c’è mai ma io sono un tipo paranoico e prudente).

Con qualche buffa combinazione di autobus sono riuscito a scendere a poche centinaia di metri dal luogo e con passo spedito l’ho raggiunto in pochi minuti. Da lontano ho intravisto l’insegna e ho subito notato una certa desolazione all’ingresso, cosa che negava una qualunque forma di fila per entrare. Non ho pensato nemmeno per un minuto che potesse essere chiuso. Nemmeno per un minuto. Solo quando sono arrivato all’entrata ho notato le luci spente e il cartello, piccolissimo, con scritto

closed on monday.

Ho così ricontrollato la pagina Facebook, dove non appariva da nessuna parte un ipotetico giorno di chiusura. Così ho provato a navigare il sito web e solo lì ho letto che il museo è chiuso proprio il lunedì.

Coglione io a non aver controllato prima il sito web o negligenti loro a non aver aggiornato la pagina Facebook?

Il sito web non è l’unico canale di comunicazione

Il giorno di chiusura è un’informazione fondamentale da fornire al pubblico, e questo vale per qualunque tipologia di attività: dal piccolo bar di paese al celebre museo londinese.

Sui social, belle immagini e belle parole servono a poco se le informazioni basilari dell’attività non vengono compilate.

Quindi, prima di pianificare un piano editoriale, prima di iniziare un percorso pubblicitario o di comunicazione, beh, ecco, sulla vostra bellissima paginina social, segnalate quando siete chiusi, così non distruggerete le aspettative del vostro pubblico. Ma soprattutto, fatelo su ogni canale web, non solo sul sito, perché il sito non è più il canale più ricercato dagli utenti.

Come si è conclusa questa storia?

Tornato in Italia, ho subito pensato di inviare un messaggio alla pagina del museo per segnalare di aggiungere l’informazione. Mi ero preparato un messaggio gentile e amichevole, ma quando sono andato sulla loro pagina ho trovato le informazioni aggiornate con la scritta “chiuso il lunedì”. Qui mi è sorto un nuovo dubbio: coglione io a non essermene accorto pochi giorni prima o bravi loro ad avere aggiunto l’informazione?

Non vorrei lodarmi eccessivamente, ma sono abbastanza sicuro che prima non ci fosse, perché nel mio diario di viaggio mi ero segnato i luoghi da visitare in base ai loro giorni di chiusura e alla loro posizione geografica.

Il messaggio carino e amichevole si è trasformato in un “perché cazzo non lo avete fatto prima?”. In tutto questo c’è però un lato positivo: ho un nuovo pretesto per tornare a Londra.

Arrival

Più che un film di fantascienza, Arrival è un saggio sulla comunicazione e sul linguaggio. Da un punto di vista sociologico gli alieni sono un elegante pretesto per rendere il racconto più accattivante, quasi una trovata per portarci al cinema. Poi sì, certo, la regia è grandiosa, la fotografia splendida, e la protagonista Amy Adams incanta con la sua emotività, i suoi colori e il suo essere così fisicamente perfetta per il personaggio che interpreta. Tuttavia, il vero senso della pellicola non ha a che fare con UFO ed extra-terresti, ma riguarda il nostro modo di comunicare e di rapportarci con ciò che non conosciamo.

Nei 116 minuti di durata si respira una sorta di intimità che non cade mai nella ricerca del ritmo incalzante e dell’azione. È una sorta di silenzio formale (perché anche il silenzio comunica) disturbato solo da lunghi e intensi accordi, che arrivano da lontano e lontano scompaiono, creando un contrasto sonoro che ha il compito di far concentrare il pubblico su quel singolo momento di musica.

Lo stesso fa la fotografia: la predominanza di trame fredde crea un’atmosfera di insicurezza e mistero, ma l’arancione delle tute che indossano i personaggi e il colore dei capelli dell’attrice giocano un contrasto fondamentale: danno movimento, riscaldano e rassicurano, accompagnando lo spettatore all’interno delle navicelle aliene e nel mistero più assoluto.

Arrival - UFO

I piani sequenza partono spesso dalle spalle di Amy Adams, indicando al pubblico il momento in cui immergersi nel punto di vista dell’attrice e ragionare con la sua mente. Le telecamere le ruotano attorno, riprendendo ogni sua espressione con lo scopo di farci entrare in sintonia con lei, di capire il suo linguaggio non verbale e la distanza invisibile che separa forma da contenuto.

Una distanza che non ha tempo e non ha spazio, non ha inizio e non ha fine, non si sposta in senso orizzontale ma circolare, proprio come la calligrafia degli alieni, la cui comprensione è la chiave per risolvere il mistero del loro avvento. Una distanza che ci separa da ogni cosa che non conosciamo e non comprendiamo, trasformando l’ignoto in un una minaccia. E questa è una chiara metafora del mondo di oggi.

Paradossalmente, la storia ci porta con i piedi per terra: ci suggerisce di non guardare solo verso le stelle ma di abbassare lo sguardo e di guardarci negli occhi, conoscerci e capirci per davvero, oltre le parole, oltre i gesti.

Arrival è un film di fantascienza che invece di raccontare l’universo ci offre una visione più chiara di ciò che siamo veramente.

E la fantascienza è soltanto un elemento superficiale che ricopre, con volontaria trasparenza, un paradosso più grande di quanto riusciamo ad ammettere: non siamo bravi a comunicare, non leggiamo i segnali della vita né siamo in grado di riconoscerli e decifrarli.

Arrival parla di questo. Come dicevo, più che un film è un saggio sulla comunicazione, e gli alieni sono solo un accattivante pretesto per portarci in sala, o una raffinata strategia di marketing o, ancora, un’attraente confezione della storia. Mai visto un packaging del genere.

la-storia-del-mondo-in-cento-oggetti

Il libro ha 700 pagine. Ci tengo a precisarlo subito. Ma ci sono molte immagini, anche questo è importante. Ed è un libro di storia, seppur scorrevole quanto un romanzo. È un’acrobazia di scrittura, un virtuosismo di stile e buon gusto, un libro che il solo pensare di scriverlo sembra una follia.

Neil MacGregor sceglie 100 oggetti esposti al British Museum (di cui è direttore) e li utilizza come leve per imboccarti l’intera storia dell’umanità che, al contrario dei libri scolastici, delle enciclopedie o delle pesantissime pagine di Wikipedia, divori con avarizia e curiosità, stupore e talvolta eccitazione.

100 oggetti, 100 capitoli lunghi una manciata di pagine, si leggono sia in ordine cronologico che sparso, uno alla volta, anche uno al giorno. Piccoli pezzetti da trangugiare in qualunque momento della giornata: prima di andare a dormire, in pausa pranzo, a colazione.

100 oggetti non particolarmente famosi. Anzi, spogliato dell’Onda di Hokusai e del Rinoceronte di Dürer, nel volume non restano altre opere “pop”, ma l’autore crede fortemente nella rilevanza storica di ogni oggetto, persino di utensili che, al mio occhio ignorante, appaiono come vecchi utensili e basta. E invece hanno un enorme potenziale narrativo. Raccontarlo è il suo modo di dar loro una seconda possibilità per essere apprezzati, ed è anche un metodo incredibilmente romantico di far aumentare le visite al museo (perché il libro è anche, e in fin dei conti, uno acuto strumento di marketing).

È come se ogni oggetto avesse una storia invisibile, ecco, MacGregor racconta quella storia. Parlare dell’Onda di Hokusai è relativamente facile, con studio e pazienza chiunque riuscirebbe a scrivere almeno una paginetta zuppa di frasi interessanti. Ma intrattenere ed entusiasmare descrivendo monete d’oro indiane, coppe neppure affascinanti rinvenute nei pressi di Gerusalemme o maschere messicane di pietra, beh, la questione si complica, e l’abilità nella scrittura non è più sufficiente. Servono nuovi occhi, capaci di vedere l’invisibile e trasformarlo in argento. Questa abilità, di cui l’autore è padrone, sarebbe un’arma invincibile nelle mani di copywriter, storyteller e pubblicitari. E questo libro, La Storia del Mondo in 100 Oggetti, è uno strumento didattico molto più efficace di guide e volumi che promettono di svelare i segreti del marketing.

Un grandioso lavoro di scrittura e ricerca

Le storie raccontate attraverso gli oggetti, ovviamente, non sono storie inventate. Sono piuttosto il risultato di una paziente ricerca che, esposta con ordine e precisione, diventa un tassello della storia del mondo. La descrizione di un oggetto, in realtà, è un pretesto usato per spiegare i cambiamenti sociali, politici ed economici delle più importanti tappe della storia umana.

Il cronometro della Beagle - La storia del mondo in 100 oggetti

L’oggetto che più mi ha colpito è il “Cronometro della Beagle”, un cronometro inglese in ottone risalente tra il 1.800 e il 1.850. È famoso perché fu consegnato alla Beagle, la nave sulla quale salpò Charles Darwin nel suo viaggio intorno al mondo, dal quale sarebbe nata la celebre teoria dell’evoluzione. Ma l’autore non si concentra su questo, preferisce invece mostrare quanto sia cambiato il mondo grazie a tecnologie come il cronometro per la navi:

Per portare a compimento la sua missione, tracciare una carta geografica della linea costiera del Sudamerica, la Beagle aveva bisogno di misurare con accuratezza latitudine e longitudine. Il cronometro permetteva per la prima volta un rilevamento cartografico degli oceani estremamente preciso, con tutto quello che ciò comportava per la creazione di rotte commerciali sicure e rapide […]. Per far fronte a possibili discrepanze, o errori, la Beagle aveva a bordo 22 cronometri: 18, compreso il nostro, erano forniti dall’ammiraglio, e 4 dal capitano, Robert Fitzroy, secondo il quale 18 non sarebbero bastati per un lavoro così lungo e importante. Dopo cinque anni di mare, gli 11 cronometri ancora funzionanti mostravano una discrepanza di appena 33 secondi rispetto all’ora di Greenwich. Per la prima volta una cintura cronometrica dettagliata avvolgeva la terra.

Il cronometro marino permetteva dunque ai marinai di trovare la longitudine con enorme precisione, e da un oggetto così piccolo è nata una vera e propria rivoluzione dei viaggi e della geografia. La cartografia moderna incomincia proprio da questa piccola scatoletta di legno con all’interno un orologio, anzi, un cronometro in ottone. Come dicevo, gli oggetti sono pretesti per raccontare una storia, un cambiamento, un tassello del passato.

È questa la magia del libro. La magia degli oggetti. È questa, come scrivevo precedentemente, la storia invisibile trasformata in argento.

naming - copywriter

Non si tratta di trovare un nome, ma di trovare il nome. Trovare, o inventare, purché sia perfetto, musicale, memorabile, originale e corretto. Persino figo, che non guasta. Annamaria Testa, una delle più grandi copywriter italiane in attività, direbbe che

un nome deve distinguere, esprimere l’essenza, raccontare, far desiderare. Deve anche essere facile da pronunciare e avere un buon suono, dev’essere semplice da memorizzare, sufficientemente diverso dai nomi dei concorrenti e abbastanza affine ai codici propri della merceologia.

Il nome di un’azienda ha dunque una grande responsabilità. Certo, può venire in mente anche per caso, o per culo, ma la fortuna non aiuta mai con la frequenza che vorremmo. Che vorrei. Servono quindi metodo, pazienza e competenza. Passione e voglia di scrivere, cancellare, riscrivere e pronunciare mille volte a voce alta i nomi creati.

Naming: come nasce il nome di un’azienda

Prima di chiamarsi Growup, l’azienda non era niente. Nemmeno esisteva. Era in realtà sparsa negli appunti e nelle idee del suo creatore. Era poco più di un’idea, seppur precisa: una grande cooperativa di imprese che operano nel settore edile e che sono disposte a noleggiare le proprie macchine professionali come gru, camion e macchine di movimento terra. Un gruppo di attività che hanno in comune l’obiettivo di crescere ed aumentare il fatturato, i servizi offerti e la quantità di aziende associate.

Analizzando l’idea e gli obiettivi del progetto ho subito pensato che il nome doveva esattamente evidenziare l’immaginario di “insieme di imprese” e l’intenzione di espandersi. Il fatto che operasse prevalentemente nel settore edile non era fondamentale, non inizialmente, perché il nome di un’azienda non deve per forza esprimere ciò che l’azienda fa. Pensiamo ad esempio a Apple: mica vende frutta.

Da qui ho iniziato un lungo brainstorming nel quale ho appuntato qualsiasi parola mi venisse in mente, iniziando da quelle in lingua italiana, come gruppo, insieme, crescita, edilizia, edile, gru, sollevare, noleggiare, cantiere; successivamente ne ho aggiunte altre in inglese, come edil, garage, feral, building, rent, service, reef, level e tantissime altre.

naming brainstorming

Poi le ho mischiate, fuse, cancellate, riscritte in modi differenti (al contrario, senza una lettera, cambiando una consonante) e, dopo un centinaio di tentativi, mi sono trovato, tra le tante bozze, il verbo to grow up (crescere). Mi piaceva. In una prima modifica l’ho trasformato in Gru-Up, prendendo così “in prestito” una delle macchine più conosciute nel settore edile.
Ero vicino all’idea ma non era ancora quella giusta, perché nella cooperativa sarebbero state presenti aziende che non operano esclusivamente nell’edilizia o che non hanno nulla a che fare con le gru. Serviva dunque un nome migliore, più identificativo e, in un certo senso, elegante.

Sono tornato al verbo to grow up. L’ho scritto in diversi modi, sempre a mano, trovando nella versione con tutte le lettere attaccate, qualcosa di stranamente utile: togrowup.

Ho tolto to, per leggere growup, semplice, breve, scorrevole. C’era qualcosa che funzionava ma non l’avevo ancora capita. Così l’ho scritto in stampatello: GROWUP.

Ancora niente. Ho aumentato l’interlinea tra le lettere:
G   R   O   W   U   P.
Quest’ultima versione l’ho lasciata riposare una notte, per darle il tempo di maturare e respirare, proprio come quando si apre in anticipo una bottiglia di vino.

Il giorno dopo l’ho riletta a mente fresca e ne ho cavato una lettera. Tolta, così, per il gusto di rubarla. Ho sequestrato la W. Restava GROUP. Cavolo, gruppo. Ho così capito che omettendo e ripristinando quella lettera si poteva cambiare il senso della parola, che variava da growup a group, da crescere a gruppo, che sono, come dicevo, due delle parole chiave che riassumono l’intento della cooperativa: far crescere il gruppo.

naming lettering design

Ho così capito che Growup era il mio nome: breve, facile da ricordare e da pronunciare. Ho subito intravisto la quasi totale impossibilità di leggerlo o pronunciarlo in modo errato.

Logo design: l’importanza del lettering

Scelto il nome, ho deciso che sarebbe spettato al logo il compito di far vedere il gioco delle due parole, di far leggere sia Growup che Group. Anche in questo caso torno al concetto che

un logo non deve per forza mostrare quello che un’azienda fa – David Airey.

Ho ragionato sulla creazione di una icona, ma ho preferito concentrarmi sul solo lettering, sul far vedere attraverso le parole. È iniziato dunque un lungo processo di ricerca del font, conclusosi con la scelta di Josefin Sans per la sua geometria e la particolarità della lettera W, che ha un vezzo grafico che la “differenzia” dalle altre lettere, aiutando così la doppia lettura.

logo design - font

Per enfatizzare la doppia lettura ho usato i colori: nero e arancione (quest’ultimo molto in uso nel settore edile). Leggendo la parola completa si legge Growup, leggendo solo lettere in nero si legge, invece, Group.

Et voilà, naming e logo.

naming and logo design

Storytelling d'impresa - La guida definitiva

“Siamo tutti storyteller, con le storie degli altri”. Inizia così la prefazione che Paolo Iabichino ha curato per il manuale di Andrea Fontana, di cui ho mostruosamente storpiato il nome nel titolo di questo articolo: Storytelling d’impresa, la guida definitiva. Una prefazione che ho letto alla fine del libro, addirittura dopo i ringraziamenti (è un vizio di cui non riesco a privarmi). So bene che se si chiama pre-fazione un motivo c’è, tuttavia questa sadica decisione mi permette di scoprire dettagli non colti durante la lettura.

Leggere la prefazione all’inizio condiziona eccessivamente il punto di osservazione e crea un’aspettativa con la quale non voglio avere nulla a che fare.

Tutta questa solfa sulla prefazione per dire che, nelle prime 20 righe, Paolo Iabichino racconta uno dei motivi che hanno spinto Andrea Fontana a pubblicare questo manuale: trattare il mestiere dello storyteller con il dovuto rispetto.

Ora, non sto a raccontare chi sono queste due persone per evitare di prolungarmi, ma anticipo solo che il primo è Chief Creative Officer di Ogilvy & Mather Italia (odio le iniziali maiuscole nei nomi dei mestieri, ma lui si firma così, tutto maiuscolo), mentre Andrea Fontana è “il più rilevante esperto di Corporate Storytelling (ancora maiuscole) del nostro Paese e Amministratore (!) delegato del gruppo Storyfactory”.

Scrive Iabichino:

Mi è già capitato altrove di stigmatizzare usi e abusi di questa nuova buzz-word che da qualche anno a questa parte ha cominciato a riempire PowerPoint, strategie di marca, idee di comunicazione, convegni, corsi di formazione, job description, siti internet e, neanche a dirlo, saggi, manuali e abbecedari.

Queste righe riassumono, a mio avviso, una buona metà del libro. L’autore si impegna tantissimo nel descrivere cosa è storytelling e cosa non lo è. Paragrafi su paragrafi per dare dignità, spessore e identità ad un mestiere e ad un modo preciso di fare marketing. Non solo: tra le righe noto una magistrale intenzione di punire e mettere al tappeto tutti coloro che usano la parola storytelling senza aver la minima idea di cosa sia davvero lo storytelling.

È una buzz-word d’altronde, impossibile negarlo. E quando un vero professionista vede usare in modo improprio uno strumento (o una parola) che gli appartiene, viene colpito da un senso di disgusto. Ma Fontana non è uno che se la prende con gli storyteller improvvisati. Piuttosto, si eleva. Con fare metodico descrive ogni sfaccettatura del suo lavoro in un modo così preciso che nessun altro “collega” riuscirebbe a fare. Si eleva.

La prima metà del volume serve proprio a questo: far capire che non bastano una fotografia e un hashtag per parlare di storytelling, che tra raccontare e vendere raccontando c’è una differenza decisiva e che c’è un mondo sconfinato nascosto dietro questa buzz-word. Un mondo che va studiato, analizzato, capito e ponderato. Un mondo che si traduce in opportunità di lavoro, ricavi, valore.

Il messaggio che traspare è che

non basta un corso di visual storytelling per potersi definire storyteller, e nemmeno alla fine di questo manuale sarete in grado di fare storytelling. Workshop e libri sono solo tappe di un percorso di studio molto lungo, complesso e ricco di imprevisti.

Ma non è tutto qui, ovviamente.

Nella seconda metà del volume, più o meno dai capitoli 9 e 10, si inizia a “fare sul serio”. Andrea Fontana ci aiuta a capire tutte le competenze indispensabili per realizzare un racconto, descrivendole nel dettaglio una per una (voi che dite di fare storytelling, le possedete?); ci aiuta a capire come quantificare un progetto; si sofferma con passione ed entusiasmo nelle modalità di costruzione di un racconto d’impresa e descrive minuziosamente tutte le variabili e le difficoltà che ha incontrato nel suo percorso professionale. E in questo riconosco un vero valore aggiunto.

Le pagine si impreziosiscono con brevi box riassuntivi, case study di progetti vissuti in prima persona dall’autore (cosa non da poco, perché è fin troppo facile parlare dei successi degli altri) e di grafici e tabelle che aiutano a comprendere le metodologie di lavoro.

Storytelling d’impresa: cosa mi piace del libro

Tra i tanti motivi per cui lo consiglierei a colleghi e professionisti del mondo pubblicitario, spicca la chiarezza con cui l’autore tratta ogni argomento. Se vuoi capire cos’è lo storytelling e cosa ti serve per poter creare o anche solo avere voce in capitolo riguardo un argomento tanto chiacchierato quanto incompreso, beh questo è il manuale che fa per te. Altri punti di forza sono le micro interviste a figure professionali di rielievo che si sono affidate allo storytelling e alla creatività di Storyfactory. Non solo, il percorso di lettura è magistrale: man mano che si scorrono le pagine crescono l’entusiasmo e la voglia di arrivare alla fine per capire come si possano davvero realizzare progetti di così elevata qualità.

Cosa non mi piace

I grafici e le tabelle. O meglio, il modo in cui questi elementi sono rappresentati. Per quanto siano fondamentali per la comprensione degli argomenti trattati, risultano spesso graficamente complessi e, soprattutto, manca un disegno “madre” in grado di coordinarne il loro layout.

Non mi piace nemmeno la copertina, ma questo mi capita con il 99% dei libri editi da Hoepli (ci tengo a sottolineare, però, l’umiltà del responsabile di questa collana, Luca Conti, che nella prima pagina chiede ai lettori consigli su come migliorare il proprio operato). Per un gusto personale, inoltre, non amo particolarmente la moltitudine di inglesismi incastonati nelle pagine, tra le quali si ripetono decine di volte i termini “management”, “skill” e “stakeholder” che, al contrario di “storytelling”, non hanno particolari problemi ad essere scritti in italiano.

Non mi fa impazzire nemmeno il sottotitolo “La guida definitiva”, a causa della parola “definitiva”, di cui ho ampiamente parlato in un post dedicato proprio agli aggettivi superflui. Tuttavia, capisco il motivo per cui Fontana ha utilizzato tale aggettivo. Questi sono ovviamente giudizi personali, criticabili milioni di volte.

Le storie finiscono

Ho avuto il piacere di conoscere Andrea Fontana, a Pesaro, qualche anno fa. Abbiamo preso un caffè poche ore prima di un suo intervento in pubblico – mi pare si trattasse di un convegno riguardo il futuro del marketing e della comunicazione, o qualcosa del genere. Un caffè, pochi minuti insieme nei quali con tono grave e deciso mi ha parlato di quanto fosse importante scrivere, leggere e riscrivere, di quanto lo storytelling avesse bisogno di competenze e lungimiranza.

Di quanto la mia giovane carriera da copywriter dovesse sfamarsi continuamente di storie di vita e racconti d’impresa per continuare a crescere in modo sano, etico e professionale. Quei pochi minuti trascorsi insieme con i gomiti appoggiata al bancone di un bar hanno un valore enorme ancora oggi. Mi aiutano a distinguere le storie che sono storie e basta da quelle che sono, invece, storytelling.

E questa distinzione è solo il punto di partenza, la prefazione di un lungo cammino, di un intenso racconto che ha i suoi protagonisti, gli antagonisti, le difficoltà e poi, inevitabilmente, un finale. Dolce, amaro, romantico, ambiguo,  drammatico, imprevedibile, inverosimile, divertente, triste, grottesco o addirittura trionfale.

scrittura creativa

La creatività non è una lampadina che s’accende e si spegne. È piuttosto un percorso, un lungo esercizio. Non posso di certo metterci la mano sul fuoco ma l’esperienza in ambito artistico e professionale mi dice che è così. A mio avviso l’immagine della lampadina è un luogo comune che tenta di semplificare qualcosa di troppo complesso.

Per un copywriter, in particolare, credo sia impossibile distinguere tra scrittura creativa e scrittura non creativa. Nel senso: esiste forse una regola che segna il confine tra l’una e l’altra? Io non la conosco. Mi riesce persino difficile trovare una definizione convincente di scrittura creativa. Eppure spesso mi confronto con colleghi e altri professionisti del mestiere che marcano con orgoglio e sicurezza numerose sfaccettature della scrittura: creativa, tecnica, funzionale, SEO, tradizionale, professionale.

Sfogliando il mio portfolio trovo headline e bodycopy per campagne pubblicitarie on e offline, nomi di prodotto, nomi di aziende, nomi di eventi, concept di comunicazione, storyboard, copioni per video, testi per spot radiofonici, contenuti per siti web e landing page, testi tradotti dal burocratese all’italiano, payoff, call to action, articoli per riviste specializzate e per la stampa locale, manuali di istruzioni, locandine, discorsi per convegni e manifestazioni, progetti di lettering design, layout per preventivi e tonnellate di manuali per la comunicazione interna di imprese ed enti pubblici. Ecco, tra tutte queste cose, esattamente, cosa rientra sotto l’etichetta “scrittura creativa”? Cosa invece no?

Scrivere è sempre un gesto creativo

Quando scriviamo, in realtà, svogliamo un gesto molto più ampio. Scrivere è anche disegnare, creare mappe e percorsi di lettura, rassicurare. Questo perché, parafrasando Luisa Carrada, le parole prima si guardano poi si leggono:

“Anche una lunga e monotona relazione di lavoro può apparire invitante se scritta con il font più adatto, un titolo e un sottotitolo informativi, un abstract che riassume in 50 righe il contenuto di 60 pagine, spazi bianchi per far respirare e riflettere, box che evidenziano i punti più importanti, didascalie laterali che permettono di navigare tra i contenuti e trovare rapidamente quello che serve – Il mestiere di scrivere, 2007 © Apogeo”.

Lavorare al fianco di persone competenti di grafica e visual design aiuta a scrivere meglio, a disporre correttamente i paragrafi, ordinare gli spazi vuoti, crearne di nuovi ed eliminare il superfluo (sostituendolo talvolta con icone studiate ad hoc, come hanno recentemente fatto Widiba e CheBanca!). Lavorare accanto queste figure professionali aiuta a considerare la scrittura come qualcosa di visivo, e a capire che lo sforzo mentale richiesto per la creazione di una buona headline è lo stesso di quello necessario per scrivere i testi di un libretto di istruzioni.

Quando scriviamo, dicevo, facciamo moltissime cose: uniamo l’esperienza con il gusto personale, costruiamo un ordine gerarchico di significati che disponiamo secondo una precisa architettura visiva (layout). Disegniamo. Illustriamo. Facciamo chiarezza. Mettiamo in moto un processo che coinvolge il nostro sapere e il desiderio di raggiungere risultati eccellenti.

Ma allora cos’è la scrittura creativa?

Mi riesce difficile dare una definizione, penso però che lo scrivere in modo creativo, che non ritengo diverso dallo scrivere bene, abbia fortemente a che fare con l’esperienza. Le buone idee possono venire a chiunque, ma per concretizzarle (e venderle) è necessario lavorarle con le conoscenze acquisite nel tempo.

Non c’è una lampadina che si accende o si spegne, ma piuttosto una luce fioca che ci fa sempre compagnia, perché anche nei momenti di mancanza di ispirazione la macchina delle parole non si ferma mai, brucia carburante e produce milioni di frasi, talvolta bruttissime. L’esperienza ci aiuta a migliorarle, pulirle e trasformarle in periodi perfetti per il canale cui sono destinati.