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La regola del gratta e vinci - copywriter

Gratta e vinci. È semplice, breve, immediato. Perfetto. Prova a pensarlo diversamente: gratta per vincere; gratta e scopri se hai vinto; gratta e vincerai qualcosa. Nessuna di queste formule funziona. “Gratta e vinci” invece si. È una questione di precisione o, meglio ancora, di soppesare le parole giuste e scegliere il tempo verbale adatto.

Per assurdo, la frase “Ti darò un pugno”, non fa poi così paura perché il futuro esprime un certo senso di incertezza, mentre “Ti do un pugno” è tutt’altra cosa.

Il presente e l’imperativo sono forti, decisi, convincenti. Non è un caso che siano i più utilizzati nel linguaggio pubblicitario: “La lavatrice lava di più con Calfort”, “La scarpa che respira”, “Just do it”, “Ascolta la tua sete”, “Un diamante è per sempre” e così via. Questi due tempi verbali trasformano una frase in una promessa o in un messaggio pubblicitario, che a pensarci bene sono la stessa identica cosa.

Rassicurare

pubblicità PayPal

 

Questa pubblicità online di PayPal acclama:

Basta esitare. Se non ti vanno bene, rimandale indietro. Ti possiamo rimborsare i costi di reso.* Attiva il servizio gratuito con PayPal.

L’imperativo “attiva il servizio gratuito” è deciso e diretto ma quel “Ti possiamo” distrugge l’intero messaggio. Nel senso: come sarebbe a dire “ti possiamo”? Esiste dunque una possibilità che io non venga rimborsato? Eccome se esiste! Dunque PayPal comunica che attivando il servizio gratuito si accende una vaga possibilità che tu possa ottenere un rimborso. Nessuna garanzia, nessuna promessa, ma solo una vaga speranza che, forse, nella migliore delle ipotesi, qualcuno potrebbe venire rimborsato di qualche centesimo.

Dal momento che in fondo alla frase appare un asterisco che rimanda alle condizioni (obbligatorie), sarebbe meglio scrivere

Rimborsiamo le spese di reso.

Questo è deciso, diretto, non lascia scampo alle incertezze (a quelle ci pensa l’asterisco che rimanderà a tutte le condizioni necessarie per ottenere il rimborso, un po’ come fanno le banche).

Meglio un uovo oggi che una gallina domani

Il futuro è la morte della pubblicità, l’esatto contrario di una promessa. Copio e incollo questa frase dalla brochure di una nota compagnia telefonica:

Con il pacchetto ADSL Plus potrai navigare più velocemente e in totale sicurezza.

Come sarebbe a dire “potrò”? Con quello che mi costa esigo che il servizio acquistato faccia esattamente le cose che mi sono state raccontate. Il futuro “potrai” esprime una condizione, che potrebbe accadere ma non è detto che lo faccia, anzi, in un periodo di estrema diffidenza io stento a credere alle promesse della pubblicità. Peggio del futuro c’è solo il condizionale, ma credo che a nessuno venga in mente di scrivere “Con il pacchetto ADSL Plus potresti navigare più velocemente e in totale sicurezza”.

Se fossi il copywriter di quella compagnia telefonica, andrei dall’art director a puntualizzare che, a mio avviso, sarebbe (ecco qui uso il condizionale) meglio scrivere:

Con il pacchetto ADSL Plus navighi veloce e sicuro.

Ma ovviamente con i se e con i ma non si vincono le guerre e non si scrivono headline migliori di altri.

Ad ogni modo, la regola del gratta e vinci è un primo appunto dal quale iniziare una comunicazione chiara e concisa. Poi bisogna lavorarci su: scrivere, cancellare, riscrivere, ascoltare, disegnare, litigare con l’account per poi trovare, dopo lividi e fatiche, la soluzione migliore (che solitamente non è mai la prima).

Riassumendo, la regola del gratta e vinci dice che:

  • un messaggio chiaro e memorabile è composto da pochissime parole che inducono all’azione;
  • l’azione è una promessa, e viene rassicurata dai tempi verbali presente e imperativo;
  • il futuro fa a pezzi la promessa.

Un copywriter davvero bravo (che non sono io) può anche fare a meno dei verbi per fare una promessa davvero rassicurante. Come? Lo slogan storico di Martini è forse il più alto esempio:

No Martini, no party!

Quattro parole, di cui due ripetute, zero verbi e una semplicità disarmante nel descrivere la promessa del brand. Chapeau.

Iron Man - logo - lettering design

Le parole non sono solo parole, sono anche immagini. E anche le immagini sono parole. A farla breve, immagini e parole sono la stessa identica cosa. Davvero.

Le parole si muovono, dentro la nostra testa compiono gesti che corrispondono al loro esatto significato. Mentre leggiamo la parola “salto”, ad esempio, immaginiamo effettivamente una sorta di balzo da parte di qualcuno o qualcosa. Ora proviamo a collegare la nostra immaginazione alla parola scritta, facendo compiere un un balzo ad una delle lettere che la compongono.

jump - lettering design

 

L’esercizio che mi piace svolgere con non ordinaria frequenza consiste proprio nello spingere il significato a modificare il significante, e far sì che il senso di una parola ne vada a modificare il segno grafico, i contorni e perché no, anche la fonetica.

Si tratta solo di concentrarsi sulla forma e sul significato di una parola. Certe volte l’immagine che viene evocata può realmente concretizzarsi e modificare la grafia o l’intero visual della parola: è necessario pensare al termine non come un insieme di lettere ma come un incubatore di tratti e segni, modificiabili e sostituibili a nostro piacimento. La parola deve quindi essere “letta” come se fosse un disegno. Perché anche i disegni si leggono.

 

autumn - lettering design
Dal momento che le parole sono immagini nessuno ci vieta di utilizzare i colori nel processo di fusione tra significante e significato. Personalmente preferisco utilizzarli in quantità minime per non appesantire il disegno e non perdere le sembianze originali del testo. L’idea creativa alla base del disegno “Autumn”, come è ovvio, sta nel far cadere le lettere dalla parola come le foglie degli alberi, richiamando così un comune immaginario autunnale.

Lettering design: come si trasforma una parola in un’immagine?

Dicevo prima di non pensare alla parola come un insieme di lettere ma come un incubatore di tratti che possono essere spostati, capovolti e modificati. Prendo in esempio il nome “Titanic”. Quando leggiamo questa parola il nostro cervello esegue una lunga serie di collegamenti mentali, tra questi:

  • una nave che affonda;
  • Leonardo Di Caprio;
  • un iceberg;
  • Kate Winslet;
  • un prezioso gioiello blu;
  • una nave che si spezza in due.

La domanda è: uno di questi collegamenti può essere facilmente rappresentato modificando graficamente le lettere della parola Titanic? Dobbiamo impegnarci a rispondere sempre di si, trovando una soluzione creativa che non alteri il messaggio e che faccia possibilmente sorridere. La mia interpretazione personale è questa, dove l’idea creativa si concentra sulla lettera A che “affonda”.

 

Titanic - lettering design

 

Ok, con un nome così noto è troppo facile? Proviamo allora con quello di una serie TV: X-Files.
Quali collegamenti mi vengono in mente?

  • Due agenti dell’FBI.
  • Gli alieni.
  • UFO e navicelle spaziali.
  • Fenomeni paranormali.
  • I capelli rossi (ora biondi) dell’agente Scully.
  • L’uomo che fuma.

Mi concentro ora sullo stesso ragionamento elaborato per Titanic aggiungendo però qualche colore:

 

X- Files - lettering design

 

Troppo facile anche questa? Proviamo con The Walking Dead?
Dunque, si tratta di un telefilm concentrato sugli zombie che, per definizione, sono morti che camminano. Posso trasformare questo titolo in un titolo-zombie? Ci provo modifico l’ordine di tutte le lettere che compongono il nome:

The Walking Dead - lettering design

 

Ovviamente non è sempre così semplice trovare una composizione creativa. soprattutto con nomi più “anonimi” come nel caso di Quantico. Non sapendo come conciliare i significati della serie TV sugli aspiranti agenti dell’FBI ho pensato alla situazione attuale della serie: al momento è in pausa, i nuovi episodi usciranno in primavera. Quindi in un certo senso si “riaccenderà” il programma, da qui:

 

Quantico

 

Prendiamo ora il nome di un brand che ha fatto discutere non poco negli ultimi mesi, Yamaha. Con lo scontro tra Valentino Rossi e Jorge Lorenzo i tifosi si sono letteralmente divisi in due fazioni e allo stesso tempo gli equilibri interni dell’azienda hanno accusato una bella scossa.

 

Yamaha - lettering design

 

Questo esempio è utile per spiegare che talvolta anche la situazione culturale può incidere sul rapporto tra immagini e parole, significanti e significati.

Provateci voi ora: scegliete il nome di un film, un animale, una stagione dell’anno, un verbo o il nome di un oggetto che portate sempre con voi, e se vi divertite continuate a farlo, così facendo terrete in allenamento la vostra creatività.

Io lo sto svolgendo proprio in questi giorni con “Superheroes: a lettering design project”, dove mi diverto a gicoare con i nomi, i poteri e le caratteristiche dei super eroi di Marvel e DC Comics.

 

Superman - lettering design

 

Seguite l’evoluzione del progetto sulla mia pagina Facebook o nell’apposita board di Pinterest.

C-Come - LEGO - Kronkiwongi

La distanza tra Rimini e Roma è di circa 360 chilometri. In auto si percorre in quattro ore scarse salvo traffico o altri imprevisti, anche se a Roma il traffico non è mai un imprevisto.
Ad ogni modo è per colpa di questi ultimi se non sono riuscito a partecipare alle prime due edizioni di C-Come, ma quest’anno è andato tutto liscio.

Per la prima volta nella mia vita mi sono presentato ad un convegno senza penna e Moleskine, con l’intenzione di memorizzare e vivere il momento invece di prendere appunti. Solitamente mi incavolo perché mentre scrivo qualche frase importante mi perdo frammenti del discorso, o peggio ancora finisce che scrivo cose senza capirne correttamente il senso, e quando torno a casa gli appunti non servono più a granché. Quindi niente penna e niente Moleskine. Solo orecchie. E occhi. E mani, olfatto e gusto.

Un convegno si segue con tutti i sensi

Ognuno dei presenti avrà notato l’odore antico delle sedute, la stampa a rilievo sulla copertina della copia omaggio di Digitalic, la Coca-Cola a temperatura ambiente gentilmente offerta dagli organizzatori e anche il caffè servito in bicchieri di plastica, anch’esso offerto con altrettanta gentilezza. Queste cose si percepiscono e ricordano più di molte altre. Un po’ come i movimenti, gli atteggiamenti e i sorrisi dei relatori. La loro personalità, infatti, non viene messa in mostra unicamente nei venti minuti sul palco, ma soprattutto nei gesti che compiono durante il resto della giornata, nelle parole scambiate con i partecipanti, nelle strette di mano – che comunicano tantissimo -, nel modo in cui prestano attenzione alle domande e addirittura nello stile – si, lo stile – che dimostrano nel sapersi muovere tra la folla che sottovoce pronuncia il loro nome.

Tra i relatori del C-Come 2016 ce ne sono alcuni che mi hanno davvero impressionato, come Giuseppe Brugnone, Alessandro Zaltron, Luisa Carrada, Vera Gheno e Francesca Parviero. Con questo elenco non intendo di certo screditare gli altri protagonisti dell’evento, ma ognuno dei partecipanti avrà i suoi preferiti, beh, questi sono i miei.

Giuseppe Brugnone

Prima del C-Come non avevo idea di chi fosse il social media manager di LEGO, in realtà non me lo ero nemmeno mai chiesto, nonostante io sia un fan piuttosto scatenato dei mattoncini danesi. Di Giuseppe Brugnone ho ammirato l’entusiasmo e la freschezza che ha saputo trasmettere con disarmante semplicità. Non come i big di Apple che hanno sempre quel sorriso stampato che pare ti stiano prendendo per il culo. L’espressione sul suo viso è autentica tanto quanto l’entusiasmo. Inoltre mi ha fatto scoprire il Kronkiwongi, un progetto dalla creatività smisurata che ha incantato tutti gli ascoltatori e “obbligato” loro a twittare in proposito di questo oggetto misterioso. Ah, il mio Kronkiwongi si è prepotentemente guadagnato l’immagine di copertina di questo post.

Alessandro Zaltron

Definirlo scrittore è più che riduttivo. Alessandro è un professionista dalla penna colta e affilata. Conoscevo il personaggio, avevo intercettato il suo potenziale in qualche articolo sparso in rete e alcuni colleghi mi avevano messo in guardia su quanto fosse mostruosamente abile nel suo mestiere. Ero dunque preparato ad incontrare un professionista con la “p”, la “r”, la “o” e tutte le altre lettere maiuscole, ma non potevo assolutamente immaginare la sua incredibile padronanza del palco – e delle parole. Il suo intervento è stato uno dei più elevati della giornata perché è riuscito a coinvolgere il pubblico e portarlo esattamente dove voleva: dritto davanti alle mille frasi e parole inutili che tutti noi scriviamo ogni giorno – questo testo probabilmente ne è pieno.

Luisa Carrada

Il Mestiere di Scrivere è uno dei pochi blog che leggo quando decido di prendermi il tempo di leggere sul serio. I post che contiene sono dei veri esercizi, momenti di analisi e riflessione. Non si possono scorrere con disinvoltura perché richiedono una certa attenzione, a prescindere dalla loro lunghezza. Proprio di lunghezza ha parlato Luisa:

  • si possono scrivere articoli lunghi in rete?
  • C’è davvero un pubblico che li legge?
  • C’è ancora chi si prende così tanto tempo per leggere post di oltre diecimila parole?

La risposta è si per ognuna di queste domande. Luisa Carrada ne ha mostrato le ragioni con la semplicità che da sempre la contraddistingue. Nel suo blog trovate anche un post dedicato: “I miei testi lunghi a C-Come“.

Vera Gheno

Finalmente ho conosciuto la persona che si nasconde dietro il profilo Twitter di Accademia della Crusca, quella figura che sa rispondere in modo così preciso, elegante, colto e talvolta sarcastico a messaggi di ogni genere: da quelli presuntuosi a quelli curiosi, da quelli volgari a quelli farciti con refusi grammaticali. Di lei mi hanno colpito la simpatia, l’utilizzo di termini italiani al posto di altri inglesismi che solitamente invadono il nostro lessico – ha parlato di ingaggio invece di engagement, ad esempio – e persino l’utilizzo di qualche parolaccia che, conti fatti, ha rafforzato il senso di quello che intendeva dire.

Francesca Parviero

Nel pomeriggio romano Francesca Parviero ha parlato di LinkedIn Pulse e della sua rilevanza nelle strategie di content marketing e personal branding. Cosa sono i Pulse, a cosa servono, perché non puoi farne a meno eccetera eccetera. Con un linguaggio chiaro e spigliato ha parlato del social network più “serio” per eccellenza, evidenziando i giusti comportamenti da adottare per risultare non solo credibili ma soprattutto trasparenti e professionali. Si è inoltre soffermata sull’importanza delle regole all’interno di un qualsiasi social network:

“le regole determinano l’efficacia di una piattaforma”.

Cosa ho imparato al C-Come

Partito senza penna e Moleskine ho preferito raccogliere sensazioni, non parole. Scelta mia poco condivisa dai presenti visto che tantissimi hanno versato litri di inchiostro dalla loro Bic nera – offerta dagli organizzatori – e riempito le pagine dei loro quaderni – anche questi offerti – con bozze, citazioni, appunti, scarabocchi.

Sensazioni, dicevo. Ma anche momenti, storie, sorrisi, confronti, bisticci, chiacchiere e stupidaggini. Coca-Cola e caffè gratuiti hanno alimentato tutto questo, creando situazioni importanti quanto gli interventi dei relatori.

Tra le tante cose che mi sono portato a casa, le due più rilevanti sono:

  • l’esigenza di costruire un Kronkiwongi;
  • la voglia di scrivere un post più lungo del solito, come questo.

Ed eccomi qui alle prese con un post di quasi 1.100 parole, tra i più lunghi presenti in questo blog. Se Luisa Carrada non avesse dato così tanto valore ai testi lunghissimi, dandomi una dose smisurata di coraggio, lo avrei certamente accorciato di parecchio. Non me ne voglia se non ho rispettato il suo decalogo, ma almeno il titoletto tra un paragrafo e l’altro l’ho inserito, cosa che non accade così spesso da queste parti.

 

Logo Design Love

Come lettura natalizia ho scelto Logo Design Love di David Airey, perché:

  1. la copertina è figa;
  2. il logo è figo;
  3. il sottotitolo è una promessa.

Queste tre motivazioni mi bastano. E si, scelgo anche i libri in base alla loro copertina. Sono un pubblicitario, il primo che ci casca (anche volontariamente) al packaging o alle strategie di marketing.

Logo Design Love è disponibile sia in versione digitale che cartacea, tra le due ho scelto la seconda, perché un libro che parla di design lo devo “sentire” tra le dita, ne devo osservare le forme e il modo in cui la carta assorbe l’inchiostro. Cose così, un po’ maniacali, ma la comunicazione è fatta anche di questo.

La guida, o almeno così si autodefinisce, parla del processo creativo necessario per la realizzazione di un logo. Analizza le caratteristiche che lo rendono unico, distintivo e facilmente riconoscibile. Al contrario di molti altri libri del suo genere, questo arriva davvero al cuore della questione:

Anyone can design a logo, but not everyone can design the right logo. A succesful design may meet the goals set in your design brief, but a truly enviable iconic design will also be simple, relevant, enduring, distinctive, memorable and adaptable.

Ma come si crea il giusto logo per un’azienda?

David Airey non si sofferma sui soliti consigli da quattro soldi come “sii creativo”, “pensa in modo trasversale” ecc., ma affronta ogni fase di progettazione con meticolosa attenzione. Parla di tempistiche, tradizione, mode, obiettivi, significati e significanti, mostrando casi di successo calzanti e originali (non i soliti Nike, Apple e IBM).

In questa guida per la realizzazione di un logo, si trovano anche le bozze di numerosi progetti di identità iconica, grazie alle quali è possibile scoprire l’intero processo creativo in cui i graphic designer si sono cimentati. In più non mancano le tante applicazioni su media cartacei e digitali, o addirittura su prodotti e superfici di differenti materiali, che mostrano quanto sia importante adottare un pensiero che unisca sia il mondo dei colori che quello del bianco e nero – due mondi che, secondo l’autore e anche il sottoscritto, sono imprescindibili e collaterali.

Il libro non è disponibile in italiano, ma solo in inglese (originale), tedesco, giapponese e altre traduzioni che trovate nel sito web Logo Design Love Book. La versione inglese in mio possesso è di facile comprensione e strutturata esclusivamente da periodi brevi, talvolta brevissimi, “quasi” a prova di italiano medio. Infine, non mancano le frasi memorabili che rendono grandioso il mestiere dei pubblicitari, tra queste:

At some point in the future, you might find yourself giving your client a lesson about design – perhaps about typography or print quality, for example. But first it’s important that you learn all you can about your client.

O anche:

To be a good designer you need to be curious about life; the strongest ideas are born from our experiences and the knowledge we gain from them. The more we see and the more we know, the greater the amount of fuel we have for generating ideas.

Gli ultimi due capitoli sono delle vere chicche: “31 pratical logo design tips” racchiude consigli e trucchetti del mestiere, mentre “Beyond the logo” conclude la guida con una galleria di progetti che ispirano e motivano il lettore.


 

Approfondimenti:

Sito web di David Airey

Blog di Logo Design Love

Sito web dedicato al Logo Design Love Book

come scrivere bene - david ogilvy

Nel diario di un copywriter ci sono appunti di ogni genere, anche insensati. Spesso si tratta di bozze, citazioni, consigli (di altri), disegni (solitamente pessimi), versi di canzoni, scritte indecifrabili che non hanno avuto il dono di incontrare una grafia elegante, idee per ipotetiche startup che non diventeranno mai startup e un mucchio di altre cose più o meno ordinate.

Le mie Moleskine sono piene di tutte queste cose, molte delle quali non attraversano mai l’evoluzione da cartaceo a digitale, ma ce ne sono alcune, come in questo caso, che trascrivo dalla carta a questo blog che è, a tutti gli effetti, un vero diario, proprio come le Moleskine, con la differenza che qui sul web le pagine non ingialliscono.

Da mesi e mesi trascrivo e ritrascrivo i consigli che David Ogilvy consegnò ai dipendenti di Ogilvy & Matther nel 1982. Semplicemente dieci velocissimi consigli. Come se per lui fosse davvero tutto li il segreto per scrivere bene, che di conseguenza significa lavorare meglio.

La traduzione che ho ricavato, tuttavia, non rende giustizia al suono ricercato dall’autore, per cui suggerisco di leggere anche la versione in lingua originale.

Come scrivere bene

Meglio scrivi e più carriera farai in Ogilvy & Mather. Le persone che pensano bene, scrivono bene. Scrivere bene non è una dote innata, bisogna imparare a farlo.
Ecco dieci regole:

  1. Leggi il libro sulla scrittura di Roman e Raphaelson. Leggilo tre volte;
  2. Scrivi come parli, in modo naturale;
  3. Usa parole brevi, frasi brevi, periodi brevi;
  4. Non usare parole come riconcetualizzare, demistificazione, attitudinalmente, giudicante. Sono il marchio di somari presuntuosi;
  5. Non scrivere mai più di due pagine riguardo un argomento;
  6. Controlla le citazioni;
  7. Non inviare mai una lettera o un appunto il giorno stesso in cui li hai scritti. Rileggili ad alta voce il mattino dopo e correggili;
  8. Se è una cosa importante, chiedi aiuto ad un collega per migliorarla;
  9. Priva di inviare la tua lettera o appunto, assicurati che sia assolutamente chiaro quello che vuoi che venga fatto;
  10. Se vuoi che qualcuno faccia qualcosa, non scriverglielo. Alzati e vai a dirglielo.

Non serve un genio per capire che i consigli di David Ogilvy vanno ben oltre lo scrivere ma si concentrano anche sul buon senso e l’educazione di ogni professionista, due concetti fondamentali per la salute di ogni ambiente lavorativo.

appunti di un copywriter

Le pagine delle mie Moleskine sono inzuppate di inchiostro e grafite. Frasi, pensieri, giochi di parole, appunti, nomi, disegni, briefing, esercizi per stimolare la creatività, cose che di solito hanno a che fare con il mio lavoro. Ci sono un sacco di annotazioni che si ripetono, scritte più volte da un taccuino all’altro, cose appuntate una volta, riaffiorate in altri fogli e diventate motivo di una nuova annotazione.

Se mi tornano a balenare nella mente, e le riappunto sul taccuino, dev’essere per un qualche motivo che, di preciso, non saprei descrivere, ma sono convinto, abbastanza convinto, che mi serviranno sempre.

Volevo scriverne un testo in prosa, ma mi rendo conto che è più semplice utilizzare un elenco puntato: riportandole in rispettoso ordine cronologico, ne trovo un senso che spiega il mio modo di operare nel mondo pubblicitario.

Effettivamente non ho mai redatto un manifesto personale, da rispettare e da consigliare a colleghi, clienti, amici o persone che capitano per mille motivi su questo sito o nella mia vita.

Chiamarlo manifesto è fuorviante. Ma di certo non si tratta né di regole né di consigli. Sono, piuttosto, appunti.

Appunti di un copywriter

  1. L’ego va messo da parte, sempre. I clienti non pagano per la tua bravura, pagano per i risultati.
  2. Il copywriter non è un barbaro. Nel senso sociologico del termine (inteso da Baricco nel saggio “I Barbari”).
  3. La creatività non (sempre) paga.
    La creatività non paga (molto).
    La creatività crea valore.
  4. Di umiltà non è mai morto nessuno.
  5. La “regola delle tre carte” non fallisce mai: prezzo basso, qualità, breve tempo. Ogni cliente ne può scegliere solamente due.
  6. La professionalità non passa mai di moda. Come l’etica.
  7. Salvo rarissime eccezioni, i libri che promettono di insegnare a scrivere bene (o in modo creativo, efficace e altri termini simili) non sono utili quanto i romanzi degli autori che sanno scrivere per davvero.
  8. Confessioni di un pubblicitario” è l’unico libro indispensabile. Il resto è tutto bla bla bla.
  9. Le persone che insegnano ad avere successo, hanno successo?
    Altra versione: quelli che insegnano ad avere successo, hanno un portfolio di spessore?
    Altra versione ancora: giacca e cravatta non fanno di te un professionista.
  10. Se non hai mai lavorato con la stampa, smetti di fare quello che stai facendo e lavora con la stampa. Devi toccare la carta, riconoscerne lo spessore, la porosità, l’odore. Devi capire come viene assorbito l’inchiostro e guardare i font deformarsi. Litigare con un art director sulla scelta dei colori e sulla posizione del testo.
  11. Raccontare è meglio di descrivere.
  12. Molte cosa sembrano innocenti, e sono invece visual design.
  13. È sbagliato mettere a confronto la stampa con il web, è giusto, piuttosto, cercarne la relazione.
  14. La storia dell’arte insegna più di un libro didattico.
    Altra versione: Van Gogh era un grande Art Director.
  15. Gli account pensano in modo totalmente differente dal tuo, ma spesso hanno ragione loro.
  16. Ci sono decine di font stupendi, non utilizzare solo Helvetica e Trade Gothic.
  17. Inventa progetti personali di comunicazione, servono a tenere in allenamento il cervello.
  18. Internet ha una memoria migliore della tua.
  19. SEO è una parola che ti farà imbestialire e una disciplina che spesso fa a pugni con la creatività. Eppure c’è, è meglio farsene una ragione e accoglierla, ma senza esagerare. In casi di emergenza rivolgiti ad un esperto SEO (che di solito non è un SEO writer).
  20. Le idee non finiscono mai. A volte sono timide, si mimetizzano, scappano e ti prendono in giro. Stando seduto non le trovi di certo, esci fuori, fai una passeggiata nella natura, di solito si nascondono dietro gli alberi.
  21. Le idee non si riciclano, vanno nell’indifferenziata.
    Altra versione: le idee degli altri sono sempre degli altri.
  22. La pubblicità pulita vince sempre su quella volgare.
    Altra versione: “il bene che c’è nel mondo supera il male, ma non di molto.” (cit. di Zalman Schachter-Shalomi).

Dicevo, sono frasi, bozze, appunti. Niente di più. Si sa mai che tornino utili a qualcuno.

Scrivere il titolo di un articolo non è semplice, soprattutto se ci tieni davvero a quello che scrivi, ancora di più se ne rispetti il gesto e la passione, o il mestiere.

In questo post non mi interessa insegnare la tecnica o i trucchi per farlo, non ne avrei mai il coraggio e la presunzione. Preferisco invece affrontare la tendenza che da un paio di anni a questa parte tempesta le redazioni di blog e magazine online: scrivere titoli (e articoli) sfruttando l’effetto elenco numerato.

Molti dei siti web che leggo quotidianamente lo fanno, spesso anche senza pietà, come Ninja Marketing che poche settimane fa riportava nella home page i seguenti titoli:

  • 6 modi per diventare leader di un team di sucesso
  • 5 storie che ti faranno venire voglia di cambiare vita
  • 10 app dalle quali c’è sempre qualcosa da imparare
  • 10 cose che gli startupper dovrebbero sapere
  • Love wins: 5 brand gay friendly prima che fosse mainstreem
  • I 6 gadget più cool per le vostre vacanze
  • 7 competenze social per lavorare nel mondo della musica

Su 20 articoli presenti nella home, 7 sono scritti con questa formula che non esito a definire acchiappa click.

Anche il seguitissimo Wired non è da meno, due settimane fa, nella home page spiccavano in ordine cronologico:

  • I 10 grandi film con trame impossibili
  • 10 ragioni per (ri)vedersi IT Cloud
  • 3 problemi matematici che ti faranno impazzire
  • I 5 consigli delle donne tech per lavorare (ed avere successo) nel mondo digitale

O ancora, su Agrodolce:

  • 12 trucchi per non piangere tagliando le cipolle
  • barbeque americano: 5 salse imprescindibili
  • 12 modi di cucinare i pomodori
  • 10 tipi di latte vegetale da provare
  • 20 varianti per ravvivare l’insalata caprese

Sul web di questi titoli se ne trovano a centinaia, perché funzionano, perché vanno di moda. O meglio: perché funzionano? Perché vanno di moda?

A mio avviso c’è una sola risposta per entrambe le domande:

Il mondo è un posto troppo grande per essere conosciuto tutto, eppure la voglia di leggere ed informarsi sembra non avere fine. Vogliamo conoscere e imparare nel minor tempo possibile. Preferiamo un elenco puntato ad un testo in prosa, e cerchiamo di spacchettare il sapere per leggerne solo le voci in grassetto, soltanto l’essenziale. Pretendiamo il controllo del tempo e temiamo che la lettura ce lo porti via.

I titoli con i numeri fanno risparmiare tempo, comunicano al lettore che l’articolo è semplice da fruire, che può essere letto in pochi istanti, e la promessa di un punto elenco rende tutto più leggero e ordinato.

Ecco perché funzionano e, di conseguenza, perché vanno così di moda. Perché questi non sono i giorni della prosa e della scrittura elegante, ma piuttosto i giorni dello schematizzare le cose, le storie, il sapere.

Tuttavia, la mia perplessità consiste nel fatto che questo meticoloso semplificare possa perdersi in un senso di superficialità.

E la superficialità è un batterio dello scrivere, diffusissimo, di quelli che fanno dimenticare il vero motivo per cui prendiamo in mano una penna o apriamo un foglio di testo.

Perché scriviamo.

Questo dovremmo sempre chiederci. Perché scriviamo?
E la risposta, che ci crediate o no, è sempre un titolo perfetto. Non ci sarà spazio per punti elenco o schemi numerati, salvo rare e obbligatorie eccezioni.

la traduzione dei nomi plurali inglesi in italiano

In questi giorni non si fa altro che parlare di cookie. Cosa sono, a cosa servono, come adeguarsi alla cookie law, eccettera eccetera.

Purtroppo e per fortuna, lavorando nel campo della comunicazione mi son trovato a leggere di tutto e di più sull’argomento, e la cosa che più mi ha colpito, per deformazione professionale, è stato leggere la parola cookie con la S plurale, cookies.

Siccome sono pignolo, secondo alcuni eccessivamente pignolo, ci tengo a chiarire che cookie è un termine inglese ormai d’uso anche nell’italiano tecnico, e come altri nomi inglesi segue una sola regola:

in italiano, i nomi stranieri sono invariabili.

Questa affermazione è testualmente tratta da “Italiano – corso di sopravvivenza” di Massimo Birattari (la Bibbia per chi scrive, e non solo) e come tutte le regole è ricca di eccezioni, soprattutto per lingue come il francese o lo spagnolo, ben evidenziate nel volume. È anche una questione di orecchio, perché frasi come ho comprato due computers fanno davvero venire i brividi. O anche ho parlato con gli art directors, brrr, o ancora i festivals estivi, aiuto! C’è poi chi scrive Ronaldo ha fatto due goals, quando esiste anche l’italiano gol (guai a chi scrivi gols!).

Probabilmente è capitato a tutti di soffermarsi a riflettere sulla questione e di cercare online diverse definizioni. Il consiglio per non sbagliare è sempre quello di utilizzare di più il dizionario e ricordarsi che i nomi inglesi, al plurale, sono sempre invariabili, niente S finale. Punto.

Quindi, tornato alla parola cookie, anche nel caso fossero dieci, venti o centomila, restano sempre cookie, mai cookies.