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definizione di marketing

Esistono un sacco di regole per tirare a canestro. Per tirare bene. Che poi ognuno le personalizza a modo suo, si, ma grossomodo tutto si riduce ad una serie di gesti, movimenti e tanta concentrazione. Precisione.

A qualcuno viene naturale, così, prendere la palla in mano e fare canestro senza sapere nulla di tecnica e postura. Nessuna sbavatura, senza neppure toccare il cerchio. Quei tiri che senti unicamente il “flap” della palla in rete. Flap.

Quello è il talento. Potrebbe anche essere una grandissima botta di culo, ma nel 99% dei casi è talento, eccome.

Se ci spostiamo dal campo di pallacanestro a quello della pubblicità, quel centro perfetto, flap, quel tipo di talento, diventa una grande idea.

Una grande idea può venire a chiunque, magari anche per culo. Ma se sono due, tre, dieci o ancora di più, allora chiamale come ti pare ma non è questione di fortuna, non è culo, è talento.

Poi ad un certo punto le idee da sole non bastano più. Sul campo da gioco si incontrano avversari bravi a difendere il canestro e ad oscurarti la visuale, il cerchio non lo vedi più, e anche se non ci capisci niente di postura e tiro hai bisogno di guardare il cerchio, altrimenti dove cavolo tiri. Non è una domanda, dove cavolo tiri.

Questa situazione è parte del gioco della pallacanestro, magari il cerchio non lo vedi sempre, o non lo metti a fuoco come vorresti, ma c’è il tabellone.

Il tabellone è la pubblicità.

Oh si, grande e rettangolare, lo vedi di sicuro appena ne hai bisogno. Ed è molto probabile che da qualunque punto del campo, soprattutto sottorete, quando la prospettiva si fa verticale e i difensori avanti a te coprono spiragli e speranze, è molto probabile che tu veda almeno un angolo del quadrato disegnato dentro al tabellone.

Per una legge affascinante e geometrica, quando ti trovi particolarmente vicino al canestro e lanci la palla all’interno del quadrato, è molto, molto probabile che la palla finisca in rete. Non sarà più un centro perfetto, ma un canestro di sponda, furbo. Niente flap, ma rumori di rimbalzo contro diversi materiali tra cui il ferro del cerchio.

Quindi, se il tabellone è la pubblicità, allora il quadrato del tabellone è il marketing. Non è una cosa che puoi insegnare all’università, no, ma se dovessi spiegare nel modo più semplice cos’è il marketing ad una persona che non ne vuole sapere di inglesismi e paroloni complicati, ecco, a questa persona direi che

il marketing è il quadrato del tabellone da basket.

In una partita di pallacanestro non puoi permetterti di puntare esclusivamente sull’abilità di compiere decine e decine di centri perfetti, è come pensare di cavartela nel mondo della comunicazione solo con delle buone idee.

Per vincere serve sinergia tra il talento e la strategia. Canestri perfetti e altri di rimbalzo contro il tabellone. Questo serve. E anche il gioco di squadra, ovviamente.

Instafram non fa di noi dei fotografi

Per me che sto sempre dalla parte delle parole, la fotografia è una cosa stupenda.
È stupendo soprattutto stare a guardare chi è davvero capace, a fotografare, chi ci mette più della passione, chi ne ha studiato ogni segreto e anche dopo 30 anni riesce a dirti che non c’ha capito poi granché.

Mi piace parlare con quelli che prendono sul serio il proprio mestiere, quelli che se gli chiedi di fotografare una rosa nel deserto ti rispondono “la preferisci con i petali rossi oppure bianchi?”.

Quella gente li, quel tipo di fotografi, ha imparato a guardare ogni cosa del mondo come se fosse una singola immagine. E tutto il mondo non è nient’altro che un’infinità di immagini, di colori, tonalità, che si muovono, non so, tipo con il vento, e con il tempo.

Per loro tutto ciò che gli si presenta davanti, un paesaggio, una strada, il bancone di un bar, una donna senza veli, una bottiglia vuota, un posacenere, cose qualsiasi, viene visto come da dietro un obiettivo.

È quello che noi comuni amatori, gente che scatta con l’iPhone, facciamo più o meno con Instagram: riconosciamo quelle immagini che possono essere degne, secondo un criterio tutto nostro, di essere fotografate.

Un profilo Instagram seguito da migliaia di utenti non fa di noi dei fotografi,

ma è bene provarlo, Instagram, per capire una milionesima parte del genio, del pensiero e della follia di un fotografo vero.

A pensarla in questo modo, lo stesso vale per Twitter. Altro non si fa che aspettare un momento, una citazione o una situazione da raccontare in 140 caratteri. È proprio come pensare al mondo non più come una serie di immagini ma come un flusso di post, brevi, velocissimi, ma memorabili. Anche qui, vale la stessa regola di Instagram:

Twitter non fa di noi degli scrittori.

Se c’è un motivo per cui consiglio di provare ad utilizzare i social media è proprio questo: cercare di capire la milionesima parte del pensiero di un vero professionista. Di qualsiasi arte o mestiere.

Per me che sto dalla parte delle parole, il mondo è una grande storia da raccontare. E per raccontarla con il rispetto che merita e la meraviglia che percepisco con tutti i sensi, e anche quella che sento, dentro, ma non saprei spiegare esattamente come e quanto, ho deciso di provare a capire la follia dei mestieri, dei gesti, delle passioni artistiche e sportive, per conoscere nuovi segni e modi differenti, profondi, estremi, di scrivere e raccontare.

 

La grammatica ai tempi di Facebook

I social network hanno evidenziato una delle più grandi debolezze di noi abitanti dello stivale: la scarsa padronanza della lettera “h”, degli accenti e degli apostrofi.

Basta leggere una comunicazione a caso – a caso, per davvero – su Facebook, per trovare errori devastanti come “oggi o comprato un paio di scarpe”, “la Juventus a pareggiato”, “l’hanno scorso sono stato in vacanza”, “oggi e stata una bella giornata”, “ò vinto” e, combo suprema: “un’hanno fa”.

Il vero pasticcio, tuttavia, è che molti, me compreso, hanno iniziato a farci il callo.

A furia di leggere una quantità enorme di errori tremendi, abbiamo iniziato a commetterne molti di più e, quasi, a tollerarli, con la scusa che “tanto sbagliano tutti”.

Capita che, nella fretta di scrivere un post o un commento (perché si è sempre di fretta, giusto?), si ometta qualche apostrofo qua e là, o non si faccia distinzione tra gli accenti gravi e quelli acuti – effettivamente, anche quando non si scrive di fretta la differenza è poco chiara ai più -, e allora nascono combinazioni come: é vero che, una tazza di té e, la più diffusa, E’.

Giusto per mettere i puntini sulle “i” e gli accenti al posto giusto, il tè, la bevanda, si scrive tè, tutte le altre versioni, tea – all’inglese – e thé – al francese -, non appartengono all’italiano. Per tornare invece sulla “e” maiuscola accentata, bisogna precisare che è sempre sbagliato scrivere E’, poiché questa formula utilizza un apostrofo al posto di un accento. Bisognerebbe scrivere È, ma molti quotidiani e telegiornali, spesso anche alcuni prodotti del supermercato, non lo sanno o non ci badano.

Scrivere alla tastiera di un computer richiede un impegno differente rispetto allo scrivere da uno smartphone.

Quando si scrive da un computer, gli errori di accenti e apostrofi nascono solitamente per due motivi: il più frequente riguarda una pura carenza grammaticale, mentre l’altro dipende dalla difficoltà tecnica di comporre le lettere accentate maiuscole, come la “e” accentata, “È”, che richiede la padronanza degli shortcut o l’utilizzo della tabella dei caratteri speciali.

Da smartphone è tutto più semplice, soprattutto grazie al correttore automatico, vera manna dal cielo.

Come rimediare?

Leggere di più. Soprattutto i classici.

Ma anche gli articoli scritti da chi sa scrivere davvero, chi ha il talento di prenderti, rapirti e portarti via con le parole. Come Luisa Carrada, sempre attenta al peso e all’eleganza delle parole, o anche Annamaria Testa, una delle menti più elevate del copywriting italiano, o ancora Massimo Birattari, che padroneggia il linguaggio italiano come Cristiano Ronaldo un pallone da calcio.

Siamo pur sempre il popolo di Dante Alighieri, facciamoci valere, altrimenti finirà che scriveremo cose sbagliate è tutti ci prender’anno in giro.

Naming 40 years Golf

C’è chi da i numeri e chi i nomi. Di solito, questa seconda eventualità, spetta ai copywriter. Nomi di aziende, di prodotti, di servizi, tutte cose che hanno a che fare con il mondo del commercio e della comunicazione, non della vita privata (nella quale ogni persona decide nomi di cose, oggetti e animali).

Restiamo al copywriter e al naming, la difficoltà è assegnare un nome alle cose, un nome che deve piacere, essere riconosciuto, divertire, convincere, stupire, stuzzicare, rappresentare, descrivere e raccontare, fare cioè quello che è previsto nel briefing.

Non ci sono nomi belli o brutti, ci sono nomi che funzionano o non funzionano.

In pubblicità, i nomi non sono un’opinione. Quello del tuo gatto lo è, quello della tua barca o del tuo peluche lo sono, ma quelle sono cose tue, devono renderti felice, non farti vendere. Questo porta molte persone, solitamente copywriter e altre figure del mondo pubblicitario, a consultare manuali sul naming e post-tutorial sui vari blog online. Il mio personalissimo parere è di saltare tutta questa roba (o almeno un bel 99%), e prendere per le mani un catalogo di un brand di automobili.

Tra i miei preferiti ci sono quelli di Volkswagen, un marchio che quanto a comunicazione ha sempre fatto scelte e pubblicazioni importanti. In una qualsiasi concessionaria o anche online nel sito ufficiale, trovate disponibile 40 years Golf. Ecco, questo è un fantastico raccoglitore di nomi che funzionano: nomi di vernici, di cerchi in lega, di optional, di comandi e tanti altri. Nessuno di questi è dato a caso.

Naming: i nomi di una Golf

Se sei interessato ad una Golf il primo quesito è scegliere il modello:

  1. Trendline;
  2. Comfortline;
  3. Highline.

Trendline è il modello base, ma è chiaro che chiamandolo “modello base” indebolirebbe il prodotto, per cui la parola trend, che richiama la tendenza, la moda e l’attualità, è qualcosa che ci fa sentire al passo con i tempi. Chiaro che Comfortline racconta qualcosa in più, qualcosa che ha a che fare con la comodità, e questo nome giustifica l’aumento di prezzo rispetto al modello Trendline. È abbastanza intuitivo capire che Highline è il top di gamma, qualcosa che evoca l’idea di grandezza, di plus.

Nomi delle vernici

Scelto il modello si passa alla vernice della carrozzeria, e qui Volkswagen è davvero creativa. Il colore più economico è un grigio scuro non metalizzato, l’unico a costo zero (compreso nel prezzo dell’autovettura). Se si fosse chiamato Grigio Scuro, o Grigio Basico, o appunto Grigio Scuro non Metallizato, l’acquirente non avrebbe percepito alcun valore ma, al contrario, avrebbe percepito una mancanza, una debolezza. Per questo, il nero economico di Volkswagen si chiama Grigio Urano. Quindi uno si può scegliere il modello base di Golf con il colore base senza vergognarsi di aver speso poco, perché ha comprato un’auto che fa tendenza dal colore grigio urano. Volkswagen è bravissima a coprire il senso di vergogna e a stimolare la percezione del valore, fattori che incidono non poco nel mercato dell’automobile.

Il grigio di qualità superiore si chiama Argento Riflesso, non male l’idea di chiamare argento una trama del grigio (non è forse più prezioso?). Un’altra variante più moderna della trama grigia è il nuovissimo Tungsten Silver, in cui gli inglesismi danno più forza al nome: Silver è più aggressivo di argento, mentre tungsten evoca qualcosa di futuristico (gli italiani ci cascano subito, anche il sottoscritto).

La vernice bianca si divide invece in Pure White e Oryx White Perla, non serve un genio per capire che il Pure White è un bel bianco, ma l’Oryx White Perla ha decisamente qualcosa in più (è infatti la verniciatura più costosa disponibile per una Golf).

Nomi dei cerchi

Il naming dei cerchi in lega, che prevede la scelta di nomi di città, evoca invece un’idea di stile e ricerca: Dover, Toronto, Perth, Geneva, Dijon, Madrid e il più costoso Durban.

Si potrebbe andare avanti per ore, citando ad esempio i rivestimenti in tessuto dei sedili, tra i quali troviamo nomi accattivanti come Pepper, Zoom/Merlin e Alcantara per indicare il tipo di tessuto, mentre per il colore sono stati scelti nomi come Nero Titanio per la trama nera, Shetland per quella beige, Quarzite per quella grigio-nero. Il nome Vienna, invece, indica la linea di rivestimenti in pelle che, a seconda dei colori, nero, marrone e beige, si dirama in tre possibili scelte cromatiche Nero Titanio, Marrakech e Shetland.

Come dicevo, si potrebbe andare avanti per ore.
La lettura in chiave pubblicitaria di un catalogo automobilistico vale molto più dello studio di molti manuali-fuffa. Questa cosa me la disse anche un brillante docente di Costruzione del Messaggio Pubblicitario ai tempi dell’università:

i libri che promettono di insegnare a diventare creativi, a scrivere bene e a persuadere le persone, sono tutti un lungo bla bla bla.

Ho ancora l’appunto scritto a mano sulla mia Moleskine del 2009.

VeryBello cultural events

In una cosa noi italiani siamo davvero imbattibili: fare pasticci. Abbiamo l’ambizione di progettare grandi cose, la voglia di comunicare all’americana e tutto il potenziale per poterlo fare. Poi però una volta scesi in campo (proprio come la nazionale degli ultimi anni), combiniamo solo pasticci.

Proprio ieri il ministro Franceschini ha presentato con fierezza e soddisfazione il progetto VeryBello, che ha il compito di valorizzare tutto il Paese e allungare il periodo di pernottamento dei turisti durante il periodo dell’Expo 2015. Il target è, in senso generico, l’intero pubblico mondiale e quello dello stivale. Un po’ ampio per un progetto di comunicazione, ma forse gli ideatori del progetto sono molto ottimisti.

Che cos’è VeryBello?

In poche parole, VeryBello è un sito web. Poco più, davvero. Al di là del nome stravagante e discutibile, che strizza l’occhiolino al celebre brano “That’s Amore”, il sito è un semplice aggregatore di eventi presentati in un’unica pagina. A farla breve: un calendario online. Chi lavora nel mondo SEO e nel web marketing si sarà strappato i capelli nel vedere il proprio Paese presentato senza alcun criterio tecnico (niente SiteMap, Robot.txt, pagine dedicate ad ogni singolo evento e tanti altri ben elencati nel post di Matteo Flora). Chi non lavora in questo settore, invece, probabilmente non troverà mai alcuna voce di questo sito tra i risultati dei motori di ricerca, di certo non si perderà nulla di straordinario.

Al sito si può dare solo una prima occhiata, che è anche l’ultima, c’è davvero poco da leggere e approfondire, ma vale la pena soffermarsi su quello che non c’è, come la seconda lingua, la privacy policy, il nome dell’azienda che ha realizzato il portale (siamo pur sempre in un sito ministeriale, ci dovrà pur essere stato qualche appalto, giusto?) e, magari, un testo di presentazione. Restando in tema “quello che non c’è”, qualcuno noterà che sull’immagine di copertina della pagina Facebook sono state tagliate la Sicilia e la Calabria, alla faccia di valorizzare tutto il territorio italiano.

Epic fail

Ma quello che davvero fa ridere – e pure incazzare – è la gente che festeggia vedendo l’hashtag #VeryBello tra i TT di Twitter. La stessa gente non è a conoscenza, però, che la stragrande maggioranza di tweet a riguardo sono satirici, offensivi e drasticamente critici. E se c’è una cosa che i social media insegnano è che l’antico ideale del “purché se ne parli” oggi è un’enorme cavolata. In meno di 24 ore si sono scatenati più di 15.000 tweet contro il progetto italiano e già testate come La Stampa parlano di epic fail del progetto VeryBello. C’è davvero da esultare?

Ma il Ministro Franceschini cerca di liquidare le critiche, anche quelle costruttive, un po’ come fanno molti altri boss della politica italiana. E questa non è un’altra storia, è sempre la stessa, è la nostra reputazione nel mondo, è la firma italian job.

whatsapp

Ok, perfetto, ti wazzappo stasera.
Ti cosa???

Di tutte i termini diventati di uso comune, ti wazzappo è davvero il più terribile. Dal famoso e ormai vecchio chattiamo (pronuncia esatta: ciattiamo), che si coniuga in modo piuttosto morbido, io chatto, tu chatti, egli chatta, ecc…, al più moderno followami, da cui io followo, tu followi, egli followa, noi followiamo (con la i, come per il verbo scavare), voi followate, essi followano. Per non parlare di cliccare, che ormai è davvero attempato: io clicco, tu clicchi e così via.

I ragazzini hanno trasformato in verbo anche il famoso Like di Facebook, con un dissonante ti laiko. Qui la coniugazione diventa davvero fantasiosa: io laiko, tui laiki, egli laika (come il cane), noi laikiamo, voi laikate, essi laikano. Continua a leggere

oche Moncler

Moncler può presentare tutte le giustificazioni che vuole, ma ormai ha perso. Può esporre denuncia e può stravincere ogni causa. Ne uscirà comunque perdente. Ma a vincere la battaglia non è Report, che tuttavia ha messo in luce una realtà nota a molti ma ignorata da molti di più.

I veri vincitori sono tutti gli altri brand che si comportano come Moncler, che hanno dalla loro la fortuna di non essere stati beccati, e ora hanno il tempo per coprire i loro imbrogli e passare addirittura per santi, improvvisandosi grandi amici degli animali.

I vincitori sono anche tutti quelli che prendono la palla al balzo promettendo prodotti realizzati in pieno rispetto della natura. E non solo: molte case editrici hanno già messo in sconto libri di ricette vegetariane; i brand di prodotti vegani incrementano gli investimenti pubblicitari; gli animalisti alzano il tono di voce; e quelli come me, invece, scrivono. Questi sono i veri vincitori. Continua a leggere

Le cose comunicano, anche le più banali. Solo che non ce ne accorgiamo. Eppure c’è sempre un motivo se sono progettate in un certo modo. Un manifesto pubblicitario, la carta di identità, la sigla di Dexter, solitamente passano inosservate, e invece sono visual design. Ovvero, sono fatte in un certo modo perché devono comunicare una cosa precisa.

Prendiamo la mappa del mondo, ad esempio. Per convenzione, tutte le cartine hanno il continente americano a sinistra, l’Europa al centro e l’Asia a destra. Questa disposizione non è affatto casuale. La Terra è tonda, e quindi una cartina potrebbe iniziare anche con l’Europa a sinistra, l’Asia al centro e l’America a destra. Ma in giro non se ne trovano. Perché? Continua a leggere