Ombre e delfini
Michele guardava la luce affievolirsi, la fissava mentre cambiava colore e filtrava con sempre meno tenacia dalla porta d’ingresso del Circolo Kappa. Sembrava avere una sorta di conto in sospeso con le ombre delle tazzine sul bancone. Non le perdeva di vista un secondo, studiando l’allungarsi delle ombre e quel loro impazzire come fiamme di teatrale oscurità ogni volta che qualcuno passava davanti all’ingresso e faceva da scudo ai raggi di sole. Ombre come fiamme impazzite. Sempre più lunghe, e fredde, fievoli. Se ne stava buono lì anche parecchi minuti nella stessa posizione con lo sguardo fisso su qualcosa che solo lui conosceva. Fermo lì e vai a capire cosa gli passava per la mente. Di tanto in tanto perdeva la concentrazione, e sbadigliava, controllava che il delfino appeso al collo di Lara Loire fosse sempre al suo posto e lo replicava a memoria nella mente. E pensava alla forma della sua ombra se si fosse trovato sul bancone accanto alle tazzine. All’ombra di un delfino, che s’allunga fino a gettarsi via dalla superficie del banco e scivolare via da qualche altra parte. Come tuffarsi nel pavimento, mare di ogni ombra.
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