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inventori

Ti dico una cosa, lo faccio con un dispiacere nell’anima, davvero: gli inventori sono gente di altri tempi. Gente sempre fuori luogo, insoddisfatta per natura, ambiziosa, gente di altra pasta e altri posti.

Devi metterti in testa che gli inventori non esistono più. Oggi ci sono gli ingegneri, i designer, i progettisti. Si, c’erano anche una volta, ma oggi la loro figura professionale ha guadagnato terreno ed importanza, togliendone, come ti dicevo, agli inventori. Apparentemente la differenza è sottile, anche i dizionari faticano a scandire bene il ruolo di uno e dell’altro. Beh, te la spiego io questa faccenda che, ti assicuro, è molto più romantica e lungimirante di quanto si possa immaginare.

La differenza tra inventori e ingegneri

Gli inventori sono ossessionati dall’esigenza di creare cose che non esistono e che migliorano la vita, anche in modo assurdo. Hanno inventato oggetti geniali come la cannuccia e il cavatappi, tu ora dirai che sono cavolate ma prova a pensare ad un mondo senza cannucce e cavatappi. Capisci di cosa parlo? Hanno trascorso l’intera esistenza a semplificare la vita di noi coglioni. La radio, per esempio, quasi abbiamo smesso di ascoltarla, se non quando siamo al volante o in un centro commerciale. Ma hai idea di quanto genio serva per concepire un apparecchio del genere? Non costruire ma concepire. Non solo la radio, pensa alla tastiera dalla quale stai scrivendo, ti sei mai chiesto perché i tasti sono disposti in quel modo? Lo sai perché iniziano con la Q e non con la A? C’è stato un tizio, un certo Christopher Sholes, inventore, che ha brevettato un nuovo modo di disporre le lettere: lo ha chiamato QWERTY, come le prime sei consonanti che trovi sulla tastiera, e ha permesso a chiunque di battere a mano più velocemente evitando che s’inceppassero i merletti della macchina per scrivere. Sholes ha fatto tutto questo nel 1864, ascolta bene, milleottocentosessantaquattro. Non c’erano ancora le penne a sfera.

Per inventare queste cose serve un certo genio. Una sorta di follia che non ha niente a che fare con la visione progettistica, di certo affascinante, degli ingegneri che hanno costruito veicoli per andare sulla Luna. Vedi, anche le astronavi spaziali sono invenzioni, ci mancherebbe, ma appartengono ad una categoria differente, dove la scienza si evolve di pari passo con la creatività. Tali invenzioni sono proprie, come ti dicevo, degli ingegneri, dei progettisti, talvolta dei designer. Un inventore non costruirebbe mai una navicella spaziale. Si impegnerebbe, piuttosto, nell’invenzione di una macchina volante, capisci dove sta la differenza?

Gli inventori si riuniscono nei club degli inventori, o almeno così facevamo fino a quando esistevano (entrambi). Oggi quanti ne conosci? Quanti ne hai visti? Nessuno, perché loro non ci sono più, si sono portati nella tomba anche la parola stessa: inventore. Non la trovi bellissima?

Se dovessi darti una definizione più precisa di quella che trovi sul dizionario, ti direi questo:

l’inventore inventa per il gusto, il gesto e la passione di creare cose che ancora non esistono fisicamente. Queste cose lui le vede prima che qualcuno ne senta l’esigenza. Le inventa prima che chiunque si possa chiedere come migliorare la vita quotidiana. L’inventore inventa oggetti e marchingegni incredibili per dimostrare che tutto è possibile. Inventa per consentire alle persone di fare cose grandiose, come volare, telefonare, scrivere meglio, respirare. Lo fa perché ha una sorta di dono che interpreta come un dovere, quasi avesse fatto uno sgarbo al mondo e si sentisse in dovere di farsi perdonare.

Sai che a guardarle, certe sere, non mi sembrano poi così lontante? Prima che faccia buio dico, quando il cielo è ancora abbastanza chiaro, che le vedi, lì. Non sembrano mica lontane come dicono.

Pensa se tutte quelle cose che ci hanno sempre raccontato sulla grandezza dell’universo, sulle distanze di anni luce, sui pianeti e tutto il resto, fossero solo una bugia.

Pensa se l’universo fosse invece questo posto in cui ogni giorno camminiamo. Saremmo soli per davvero, qui in questo mondo, e basta. E le stelle, boh, tipo lanterne, o lucciole, appiccicate la, in alto in alto.

La sera, al circolo Kappa, anche l’infelicità si fa un po’ più dolce, invece di logorare l’anima pare accarezzare la pelle e soffiare sui mozziconi, quasi volesse tenerli accesi per tutta la notte. Nella sala biliardi c’è chi rimane fino a tardi, fino a quando in strada non c’è più nemmeno il vento, e l’unico suono che si sente, dentro, è quello dei colpi della stecca, o il fruscio dei birilli colpiti, o lo scontrarsi della palla bianca con quella gialla, e la rossa ferma ad aspettare. I rumori sono soli più dei giocatori, che non fiatano, si guardano e con poche smorfie commentano i tiri dell’avversario. Continua a leggere

– Non riesco a disegnare, questi giorni.
– Io non ne sono mai stato capace.
– È come se non ci sia più niente in scala. Le prospettive si sono sganciate, gli assi incrociati, le proporzioni mischiate.
– Discorsi seri.
– Serissimi.
– Stammi a sentire, è una donna, mica te la sei sposata, mica è incinta di tuo figlio.
– Non ti sto dicendo che sono innamorato.
– E cosa mi stai dicendo?
– Che non riesco più a disegnare niente. Continua a leggere

La pioggia della sera prima aveva abbassato le temperature di qualche grado e il Maestrale che aveva attraversato i cieli e le pianure per tutta la notte, pareva essersi stancato di quei paesaggi, giacché s’era inabissato nei fondali marini per abbandonarsi alle altre correnti che giungevano dalle Grecia. Il cambio di vento lo si percepiva nelle ossa e sulla pelle, e lo si vedeva nell’incresparsi delle onde. Le lance ancorate poco distanti dalla riva avevano ruotato l’asse longitudinale puntando la prua verso sud-est e la poppa verso nord-ovest. Obbedienti e miti, a galla su quel fare marino che non ha regole e leggi se non quelle dei venti e della gravità lunare, a fissarle da lontano parevano bare galleggianti gettate in acqua da qualche antico veliero celato oltre le distanze e l’orizzonte.

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Ogni parola pronunciata da Lara Loire pareva essere in perfetta sintonia con l’universo. Era il modo in cui parlava, e anche il suono, il timbro della voce. Erano le sue labbra che imponevano un ordine armonico, millimetrico e innamorato, alle cose e ai significati, alle parole e ai respiri, ai minuti e agli istanti di silenzio in cui il suo mondo si concentrava in un senso di attesa. Alla fine di ogni frase indossava un sorriso sempre nuovo e meraviglioso. Pareva quasi lo indossasse sul cuore, o sull’anima, che nel suo caso erano la stessa identica cosa.

heaven

Perché nessuno chiese a Lazzaro notizie sull’aldilà? Tutti fecero dei gran compimenti a Gesù, meritati, d’accordo. Ma è possibile che a nessuno passò per la mente la curiosità di chiedere una qualche spiegazione? Non so, boh, sarebbe stata una bella storia da raccontare.

Antonio percepì che involontariamente era scappata una parola di troppo, e subito pensò a Melissa e Mattia, poi a Michele, poi al figlio che non aveva mai avuto, al bambino inteso come figura, come immagine in sospensione nel mondo, di cui è figlio e futuro, di cui è meraviglia e trasposizione di quell’amore, quel grande amore che supera ogni tentazione e s’impadronisce di un’immensa forma di benevolenza. La stessa con cui dovevano essere stati concepiti poi forgiati il mondo e l’universo. Un bene intenso e grave, di smisurata lunghezza e cieca profondità, talmente grande da non poter essere visto o toccato, ma solo percepito, percepito, come solo si percepisce la fede, si percepisce Dio.

Che non si vede ma chi ci crede lo sente, dentro, lo percepisce con un senso che non ha nulla a che fare con qualcosa di sensoriale, ma pulsa in profondità, in profondità, giù, giù nella gola e poi nell’anima, dentro alle ossa, nei polmoni e in ogni respiro, ogni respiro, magari un soffio, un fiato, uno spasmo, un istante, un segreto, un movimento impercettibile di un nervo, uno scatto improvviso di un dito, la punta di un dito che si muove senza volere e indica qualcosa, indica un punto, una direzione, e lì in quel sentiero non c’è niente che si vede con gli occhi ma si percepisce, si sente che c’è, capisci? Capisci questa cosa?

È tutto qui, non si può spiegare se non con le parole, con qualche esempio, ma solo con le parole perché sono l’unica formula in grado di descrivere questa cosa. Se parlassi di un castello, se mi riferissi ad una cosa che è possibile costruire, con i mattoni, la carta o la sabbia, la costruirei identica per farti capire questa cosa, e invece quel percepire non lo puoi lasciar percepire a tua volta, agli altri, non puoi, e allora sei costretto a descriverlo, con un esempio una storia una religione una filosofia un pensiero magari una poesia o anche un solo sguardo ma lo puoi solo descrivere con una certa forma di comunicazione si quella comunicazione fatta di tasselli che sono poi lettere e parole e frasi e versi tutti insieme uniti magari senza punteggiatura si senza punteggiatura perché nel descrivere queste cose non si sa mai se e quando andare a capo. Se e quando si può andare a capo. Se capisci quello che intendo. Antonio la pensa così, su tutta quella questione dei bambini.