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Equilibrio apparente

Come un urlo che si vede e non si sente, si vede mentre esplode in un silenzio cupo, grave, in perfetta sincronia col far finta di niente, col fingere che ci sia un equilibrio, in questi giorni qui, mentre il cielo si sgretola e precipita in polvere. Polvere grassa, quasi sabbia oliata, senza vento che la possa portar chissà dove. Resta qui e s’accumula. E camminarci sopra è un pesante sprofondare. Affondare. Immergersi nel terreno e piantarci i piedi come radici velenose. Perché l’aria è veleno, questi giorni sono malati, e le urla, che si vedono e non si sentono, sono spasmi in nome di Dio. Come urlare contro un foglio bianco davanti alla bocca e lasciarne un alone giallo fumo.

E lascia stare Dio. Mi viene da pensare. Che i casini in cui mi caccio sono dei capolavori personali di esagerata bellezza, e straordinaria follia. Tutte quelle macchie sulle tele di questi giorni, e quell’ansimare, i graffi, e i morsi, schizzi maniacali, gesti di una bellezza infinita, capolavori di mostruosa precisione, danni inspiegabili al cuore. Frantumazioni del mio equilibrio perfetto. Un grande casino in testa. Un dolce pastrocchio. Un urlo che non posso gridare, un grande urlo, che la mia pelle non sa nascondere, e l’anima abbandonare.

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