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Dalla spiaggia al porto, dopo la tempesta.

La pioggia della sera prima aveva abbassato le temperature di qualche grado e il Maestrale che aveva attraversato i cieli e le pianure per tutta la notte, pareva essersi stancato di quei paesaggi, giacché s’era inabissato nei fondali marini per abbandonarsi alle altre correnti che giungevano dalle Grecia. Il cambio di vento lo si percepiva nelle ossa e sulla pelle, e lo si vedeva nell’incresparsi delle onde. Le lance ancorate poco distanti dalla riva avevano ruotato l’asse longitudinale puntando la prua verso sud-est e la poppa verso nord-ovest. Obbedienti e miti, a galla su quel fare marino che non ha regole e leggi se non quelle dei venti e della gravità lunare, a fissarle da lontano parevano bare galleggianti gettate in acqua da qualche antico veliero celato oltre le distanze e l’orizzonte.

Le navi del porto, poco più in là lungo la costa, le vedevano a occhio nudo, ormeggiate alle banchine e protette dal calcestruzzo e da un’ordine meccanico, di corde, parabordi e vele ammainate. Se ne stavano immobili e legate, quasi paralizzate, ma il rumore metallico delle sartie che sbattevano contro gli alberi e i pennoni pareva un segno di protesta, un metronomo sinistro prigioniero dei venti.

Con premura e regolarità Franco si assicurava che Michele non smettesse mai di stringersi i baveri della giacca attorno al collo. Passeggiavano sulla sabbia bagnata e di tanto in tanto si fermavano a raccogliere conchiglie, studiandole e mirandone il logorio prima di riposarle sulla sabbia. Michele si voltava spesso indietro, come per controllare se qualcuno li stesse seguendo, ma non c’era nessuno, se non ciò che restava del Maestrale.

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