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piccoli paesi

Quei piccoli paesi, di solito mai sulla costa, ma appena poco all’interno, magari tra le colline e ai campi di grano, dove c’è un campanile, una drogheria, un bar, un falegname e talvolta un pittore e un collezionista di bottoni. Quei piccoli paesi, frazioni del mondo. Una manciata di anime, forse un centinaio, pochi bambini, molti anziani, perché i giovani sono partiti, quasi nessuno tornato se non dopo lungo tempo e la schiena stanca e curva. Talmente piccoli che c’è un solo barista, un solo artigiano che sa costruire tutto, un solo fioraio, un solo elettricista che ne sa anche di idraulica e metalmeccanica.

Una sola piazza dove in estate l’aria ristagna e il caldo uccide. I gatti sotto le panchine a soffrire l’afa. E i cani non hanno guinzaglio, casa e padrone, ma sono amati da tutti e mangiano facendo il giro dei portoni. Quei piccoli paesi in cui si insegna come scappare ma non come restare e rendere giustizia ad un fascino mite e qualunque, fatto di mattoni e semplicità, tenerezza e anziani che ti fissano con i loro occhi lucidi – come se stessero per scoppiare a piangere ma poi non lo fanno.

C’è un campetto da calcio, senza erba, solo terra e polvere, le porte senza rete, le linee bianche svanite. Un piccolo cimitero, poco altro. Il sindaco è più contadino che politico, perché le decisioni vengono prese dal vento e dal tempo, dalla terra, dai fiori.

Quei piccoli paesi, dove non ci sono alberi ma tigli, pioppi e olmi, e le persone conoscono i nomi di ogni pianta, persino dei fiori, dei funghi e delle erbacce. Gente che ha l’aspetto di chi viene da lontano e sa produrre l’olio in casa e ha la pazienza di attendere il raccolto, gente che conosce i venti e bagna il pane nel vino.

Antichi vasi di terracotta incorniciano i lati dei portoni, e nelle strade la polvere viene spazzata via solo dalla pioggia. Quando piove c’è un silenzio che ti rimette al mondo, solo la violenza del cielo e basta. E i gatti dietro le finestre, i vetri sottili che tremano e lasciano entrare il fresco.

Ora dimmi se immagini un mondo senza questi paesi. Dimmi se riesci a respirare, scrivere, pensare senza averli mai visitati. Senza aver mai parlato con quel barista, che è scorbutico, si, quando entri non dice buongiorno ma solo “cosa vuoi”.
E non è mai una domanda, è un’affermazione. Cosa vuoi.

Dimmi se immagini un mondo senza questi paesi. Che quando ti si rompe la tapparella arriva l’elettricista tutto fare che ripara anche il lavandino, il campanello e dà una potata alla siepe.

Una vita senza clacson, in equilibrio tra la quiete e la paura che assale ogni uomo e ogni donna. Perché la paura arriva dappertutto e non si dimentica dei piccoli paesi.

Circa un anno fa ho comprato un taccuino Moleskine in versione limitata: riportava Batman in copertina, una tentazione alla quale non ho saputo resistere. Tra i tanti supereroi, Batman è uno dei miei preferiti, secondo solo a Clark Kent. Se un anno fa, nell’eCommerce Moleskine Shop ci fosse stato il taccuino di Superman avrei certamente preferito quello, ma all’epoca il negozio offriva solamente l’edizione con l’uomo pipistrello. Non ho esitato a farla mia.

La pagina web dedicata al prodotto è ancora online e il taccuino è tutt’ora in vendita (cosa che mi fa pensare che non sia poi una limited edition, ma vabbè), in essa si trova un testo scritto da un copywriter a me sconosciuto ma che ha il massimo della mia stima:

“La leggenda continua: Batman, l’eroe urbano, è approdato sulla copertina del taccuino Moleskine. L’illustrazione del paesaggio urbano di Gotham stampata sul risguardo, gli adesivi a tema e i quattro diversi design tra cui scegliere, sono la tua chiave di accesso per Gotham City”.

Complimenti al copywriter, davvero. Non so che darei per poter scrivere di supereroi e battaglie del bene contro il male, di ambientazioni e simbologie del mondo DC Comics e altre cose che riguardano persone con i superpoteri.

Ma comunque, non è questo il punto. Il fatto è che il taccuino che ho acquistato contiene otto adesivi raffiguranti le più celebri versioni del logo dell’uomo pipistrello. Ora, in gergo volgare, più che volgare, li chiamo “adesivi di Batman”, come ho scritto nel titolo, rendendomi perfettamente conto della grossolanità e dell’imprecisione della mia scrittura, la quale afferma che, letteralmente, tali adesivi sono di proprietà di Batman. So che non è particolarmente corretto, tuttavia preferisco chiamarli così, “adesivi di Batman”, come d’altronde fa anche Peter Griffin nella celebre frase

“Lois, questo non è il mio bicchiere di Batman”.

Ma il punto non è nemmeno questo. Sto continuando a dilungarmi e la colpa è l’infinito piacere che trovo nello scrivere. Scusate, è più forte di me. Arrivo al punto, ora. Questi adesivi sono davvero stupendi, li amo tantissimo. E quando li ho avuti tra le mani per la prima volta ho pensato che avrei potuto utilizzarli in tantissimi modi, appiccicarli in posti non convenzionali, su oggetti meravigliosi, appropriati o, a mio avviso, perfettamente idonei per accogliere il logo di Batman.

Dopo un anno esatto sono ancora tutti qui sulla mia scrivania in attesa di essere usati. Il problema, purtroppo per loro, riguarda me: non sono mai riuscito a decidere dove incollarli.

Pazzesco, otto adesivi, e niente, ogni volta che trovavo un posto in cui attaccarne almeno uno, boh, qualcosa mi fermava, una sorta di imperativo severo. Ricordo di essere stato vicinissimo dall’appiccicarne uno sopra un biglietto di carta, da inserire successivamente nello spazio dedicato al foglietto dell’assicurazione dell’auto, quello incollato nella parte interna del parabrezza. Così dall’esterno si sarebbe visto il logo di Batman.

L’idea mi sembrava fantastica, o almeno lo era per me che amo rendere “super” ogni cosa di mia proprietà. Tuttavia c’era qualcosa di non corretto. La mia Golf grigia, anzi, tungsten silver, non ha nulla di simile alla celebre Batmobile, che è nera e decisamente “aggressiva”. Avessi avuto un’auto a due posti, nera e con l’assetto ribassato, la cosa si sarebbe potuta fare. Ma no, l’adesivo di Batman sulla mia auto non era adatto.

Così, tanto per togliermi lo sfizio di personalizzare quello spazio sul parabrezza, ci ho inserito il marchio di Superman. Lui non guida auto ma vola, e la mia Golf di certo non levita, però capitemi, dovevo pure inserire qualcosa in quello squarcio così “vuoto”. Capite quanto sia importante per me la questione?

Superman

Ma non sono un supereroe

A distanza di un anno ho ancora otto adesivi raffiguranti otto versioni del logo di Batman. E questo dimostra quanto le mie indecisioni tengano a freno la creatività e la voglia di fare, personalizzare, raccontare e, soprattutto, comunicare.

Cose banali, come questi dannati adesivi, talmente belli da non volerli mai appiccicare per la paura di pentirmene e di non poterli più recuperare, svelano un lato troppo timoroso della mia personalità. Una terribile insicurezza di sbagliare.

Se penso a quante situazioni simili ho bruciato e quante occasioni ho perso per la paura di compiere un gesto che, con le dovute distanze, non è poi così differente dall’attaccare (e quindi allontanare da me) un adesivo, se penso alla follia di cercare un luogo perfetto senza trovarlo mai, e all’assurdità che tutto ciò è una metafora della vita, capisco quanto le piccole scelte siano in realtà una copia in scala della mia anima. Di come sono. E chi sono.

In tutto questo, la cosa davvero bellissima è il trovarmi qui a scrivere, con la Moleskine piena di appunti e gli adesivi ancora immacolati sulla scrivania. Non so ancora se ne appiccicherò mai uno, ma so per certo che continuerò a scrivere sempre, per il semplice gusto di rapire storie e riflessioni anche da oggetti qualunque, come un taccuino, oggetto bellissimo e dal nome nostalgico e musicale, che serve a nient’altro che questo: appuntare, scrivere e disegnare storie invisibili.

Taccuino. Leggilo a voce alta, assapora il fascino della sua pronuncia. Non è una parola bellissima?

inventori

Ti dico una cosa, lo faccio con un dispiacere nell’anima, davvero: gli inventori sono gente di altri tempi. Gente sempre fuori luogo, insoddisfatta per natura, ambiziosa, gente di altra pasta e altri posti.

Devi metterti in testa che gli inventori non esistono più. Oggi ci sono gli ingegneri, i designer, i progettisti. Si, c’erano anche una volta, ma oggi la loro figura professionale ha guadagnato terreno ed importanza, togliendone, come ti dicevo, agli inventori. Apparentemente la differenza è sottile, anche i dizionari faticano a scandire bene il ruolo di uno e dell’altro. Beh, te la spiego io questa faccenda che, ti assicuro, è molto più romantica e lungimirante di quanto si possa immaginare.

La differenza tra inventori e ingegneri

Gli inventori sono ossessionati dall’esigenza di creare cose che non esistono e che migliorano la vita, anche in modo assurdo. Hanno inventato oggetti geniali come la cannuccia e il cavatappi, tu ora dirai che sono cavolate ma prova a pensare ad un mondo senza cannucce e cavatappi. Capisci di cosa parlo? Hanno trascorso l’intera esistenza a semplificare la vita di noi coglioni. La radio, per esempio, quasi abbiamo smesso di ascoltarla, se non quando siamo al volante o in un centro commerciale. Ma hai idea di quanto genio serva per concepire un apparecchio del genere? Non costruire ma concepire. Non solo la radio, pensa alla tastiera dalla quale stai scrivendo, ti sei mai chiesto perché i tasti sono disposti in quel modo? Lo sai perché iniziano con la Q e non con la A? C’è stato un tizio, un certo Christopher Sholes, inventore, che ha brevettato un nuovo modo di disporre le lettere: lo ha chiamato QWERTY, come le prime sei consonanti che trovi sulla tastiera, e ha permesso a chiunque di battere a mano più velocemente evitando che s’inceppassero i merletti della macchina per scrivere. Sholes ha fatto tutto questo nel 1864, ascolta bene, milleottocentosessantaquattro. Non c’erano ancora le penne a sfera.

Per inventare queste cose serve un certo genio. Una sorta di follia che non ha niente a che fare con la visione progettistica, di certo affascinante, degli ingegneri che hanno costruito veicoli per andare sulla Luna. Vedi, anche le astronavi spaziali sono invenzioni, ci mancherebbe, ma appartengono ad una categoria differente, dove la scienza si evolve di pari passo con la creatività. Tali invenzioni sono proprie, come ti dicevo, degli ingegneri, dei progettisti, talvolta dei designer. Un inventore non costruirebbe mai una navicella spaziale. Si impegnerebbe, piuttosto, nell’invenzione di una macchina volante, capisci dove sta la differenza?

Gli inventori si riuniscono nei club degli inventori, o almeno così facevamo fino a quando esistevano (entrambi). Oggi quanti ne conosci? Quanti ne hai visti? Nessuno, perché loro non ci sono più, si sono portati nella tomba anche la parola stessa: inventore. Non la trovi bellissima?

Se dovessi darti una definizione più precisa di quella che trovi sul dizionario, ti direi questo:

l’inventore inventa per il gusto, il gesto e la passione di creare cose che ancora non esistono fisicamente. Queste cose lui le vede prima che qualcuno ne senta l’esigenza. Le inventa prima che chiunque si possa chiedere come migliorare la vita quotidiana. L’inventore inventa oggetti e marchingegni incredibili per dimostrare che tutto è possibile. Inventa per consentire alle persone di fare cose grandiose, come volare, telefonare, scrivere meglio, respirare. Lo fa perché ha una sorta di dono che interpreta come un dovere, quasi avesse fatto uno sgarbo al mondo e si sentisse in dovere di farsi perdonare.

Creare un personaggio come Lisbeth Salander è un po’ come scrivere un disco di quelli che escono uno ogni dieci anni. Che ne so, roba da Pink Floyd. E anche Lisbeth la ascolti. Il suono dei suoi passi, pagina dopo pagina, leggero, perché lei è un soffio, un petalo scuro, e forse pesano più i piercing che si porta addosso delle sue ossa. Senti lo strusciare della sua giacca di pelle contro quella delle persone che schiva, e schifa. Senti anche la sua voce. Un po’ maschile, eppur sottile. Continua a leggere

– Non riesco a disegnare, questi giorni.
– Io non ne sono mai stato capace.
– È come se non ci sia più niente in scala. Le prospettive si sono sganciate, gli assi incrociati, le proporzioni mischiate.
– Discorsi seri.
– Serissimi.
– Stammi a sentire, è una donna, mica te la sei sposata, mica è incinta di tuo figlio.
– Non ti sto dicendo che sono innamorato.
– E cosa mi stai dicendo?
– Che non riesco più a disegnare niente. Continua a leggere

La pioggia della sera prima aveva abbassato le temperature di qualche grado e il Maestrale che aveva attraversato i cieli e le pianure per tutta la notte, pareva essersi stancato di quei paesaggi, giacché s’era inabissato nei fondali marini per abbandonarsi alle altre correnti che giungevano dalle Grecia. Il cambio di vento lo si percepiva nelle ossa e sulla pelle, e lo si vedeva nell’incresparsi delle onde. Le lance ancorate poco distanti dalla riva avevano ruotato l’asse longitudinale puntando la prua verso sud-est e la poppa verso nord-ovest. Obbedienti e miti, a galla su quel fare marino che non ha regole e leggi se non quelle dei venti e della gravità lunare, a fissarle da lontano parevano bare galleggianti gettate in acqua da qualche antico veliero celato oltre le distanze e l’orizzonte.

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sua maestà il caffè

“Sua maestà il caffè” è un racconto elegante e raffinato sulla storia della bevanda nera. Un racconto, dico, non tanto perché c’è una trama, ma perché l’autore scrive con una tale mania e una tale precisione sul metodo, che chi ha il cuore di leggere il libro capisce che quello che conta non è la bevanda, ma sono le minuscole storie che si incontrano scorrendo tra le pagine del suo passato. Più che scrittura, quella di Pietro Semino è un’esibizione artistica. Gli dev’essere accaduta una cosa che per uno scrittore è una sorta di ipnosi: fissarsi su di un’immagine e impazzire per la sua perfezione. Studiarla, smontarla, scolpirla e riordinarla in un libro.

Dov’è nato il caffè? In quanti modi si può degustare? Quante tipologie esistono? Quali pittori ne hanno dipinto? Quali cantanti ne hanno cantato? E quali scrittori, o registi, o personaggi famosi, ne hanno scritto e raccontato? Quando uno si ficca in testa queste domande qui, o ne esce pazzo o ne scrive un libro, appunto. L’autore si concentra sulle immagini e sui gesti, e scrive un bellissimo approfondimento su di un prodotto di cui ci deliziamo tutti i giorni senza saperne nulla in proposito. L’unica cosa che manca a questo libro è un accenno su di un dibattito tutto italiano: è meglio nella porcellana o nel vetro?

Non bisogna credere ai giornali perché sono di parte.
Non bisogna credere alla TV perché non è veritiera.
Non bisogna credere a internet perché ci scrivono cani e porci.
E a chi bisogna credere?
Ai nonni.
E cosa dicono?
Che sono tutti dei bastardi.
Tutti chi?
Le persone, in generale.