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La sera, al circolo Kappa, anche l’infelicità si fa un po’ più dolce, invece di logorare l’anima pare accarezzare la pelle e soffiare sui mozziconi, quasi volesse tenerli accesi per tutta la notte. Nella sala biliardi c’è chi rimane fino a tardi, fino a quando in strada non c’è più nemmeno il vento, e l’unico suono che si sente, dentro, è quello dei colpi della stecca, o il fruscio dei birilli colpiti, o lo scontrarsi della palla bianca con quella gialla, e la rossa ferma ad aspettare. I rumori sono soli più dei giocatori, che non fiatano, si guardano e con poche smorfie commentano i tiri dell’avversario. Continua a leggere

– Non riesco a disegnare, questi giorni.
– Io non ne sono mai stato capace.
– È come se non ci sia più niente in scala. Le prospettive si sono sganciate, gli assi incrociati, le proporzioni mischiate.
– Discorsi seri.
– Serissimi.
– Stammi a sentire, è una donna, mica te la sei sposata, mica è incinta di tuo figlio.
– Non ti sto dicendo che sono innamorato.
– E cosa mi stai dicendo?
– Che non riesco più a disegnare niente. Continua a leggere

Michele guardava la luce affievolirsi, la fissava mentre cambiava colore e filtrava con sempre meno tenacia dalla porta d’ingresso del Circolo Kappa. Sembrava avere una sorta di conto in sospeso con le ombre delle tazzine sul bancone. Non le perdeva di vista un secondo, studiando l’allungarsi delle ombre e quel loro impazzire come fiamme di teatrale oscurità ogni volta che qualcuno passava davanti all’ingresso e faceva da scudo ai raggi di sole. Ombre come fiamme impazzite. Sempre più lunghe, e fredde, fievoli. Se ne stava buono lì anche parecchi minuti nella stessa posizione con lo sguardo fisso su qualcosa che solo lui conosceva. Fermo lì e vai a capire cosa gli passava per la mente. Di tanto in tanto perdeva la concentrazione, e sbadigliava, controllava che il delfino appeso al collo di Lara Loire fosse sempre al suo posto e lo replicava a memoria nella mente. E pensava alla forma della sua ombra se si fosse trovato sul bancone accanto alle tazzine. All’ombra di un delfino, che s’allunga fino a gettarsi via dalla superficie del banco e scivolare via da qualche altra parte. Come tuffarsi nel pavimento, mare di ogni ombra.

Non è vero che il caffè nel vetro è più buono. Non è vero un accidente. Ci sono clienti che me lo chiedono nel bicchiere di plastica, quello da asporto, perché lo ritengono più igienico. Come se io non lavassi bene le altre tazzine. Altri clienti non lo vogliono nel vetro, dicono che le tazzine di vetro si usano meno e quindi si lavano di rado, e c’hanno la polvere dentro, quindi preferiscono la ceramica. È un modo carino per dirmi che non pulisco mai le mie tazzine. Per fortuna alcuni non badano a questa faccenda. Purché il caffè sia buono, dicono. E il mio caffè lo è di sicuro. Poi però lo allungano con il latte. Che porcheria. Caldo o freddo, talvolta tiepido. Roba da matti. Alto, basso, corto, ristretto, un solo goccino, non troppo caldo, bollente, mi raccomando non freddo, con la tazzina bollente, corretto con rum, amaro, whiskey, crema di whiskey, anice, apice, pedice, doppio, tazza piccola, tazza grande, doppio in tazza piccola, doppio in tazza grande, normale in tazza grande, macchiato freddo, macchiato caldo, macchiato con cremina, macchiato perché nessuno è mai contento per davvero.

Quindi io lo servo solo nel vetro e della quantità che ritengo giusta. Per principio. Perché nella sua trasparenza riesco a vedere il colore del caffè, lo spessore della schiuma in superficie, fattori a cui tengo particolarmente. Non è vero un cazzo che è più buono. Lo vedo. Capisci? Lo vedo per quello che è.  

Questo dilemma del caffè è un’ironica similitudine della vita. C’è gente che la corregge con tutto ciò che gli appare sensato, che la riempie con altre cose che non hanno un cazzo a che fare con il vivere. Gente a cui non basta una vita soltanto e se la corregge con stili e atteggiamenti altrui. Come correggere il caffè. Non so se mi spiego. Persone che ce l’hanno servita nella plastica, quella bella vita da asporto, chissà dove se la devono portare. Servita nella ceramica, una vita di cui non ne si capisce un cazzo fino al momento in cui la si sorbisce per davvero, e ne si capisce il sapore solo un attimo prima che sia tutto finito, pochi istanti prima che si spengano le luci dei bar. Servita nel vetro è un’altra cosa. Ne si vede ogni attimo, la densità, lo scorrere del tempo, gli errori e le ipocrisie, le cose belle e quelle né belle né brutte che accadono e basta per il semplice fatto che devono accadere. E nel vetro la vita si manifesta effettivamente per quello che è. Nient’altro per quello che effettivamente è.

Franco il caffè lo serve solo nel vetro, in tazzine senza manico. A forma cilindrica, con il cerchio della base più stretto della bocca su cui si appoggiano le labbra, somigliano ad un tamponamento tra un cono ed un cilindro, trasparenti. L’istinto porta a sollevarle sempre con due o tre dita, il pollice, l’indice e talvolta il medio, come per ogni altra tazzina con il manico. Il caffè di Franco, bollente, scalda la superficie di vetro, e non tutti i clienti apprezzano particolarmente trattenere con due dita un oggetto rovente. Perché il vetro reagisce in un modo più accogliente al calore, rispetto alla fredda stitichezza della ceramica. Il caffè, al Circolo Kappa, si beve solo in questo modo.

Lara Loire rimase qualche istante a fissare la tazzina di vetro senza manico. Tutti fissavano Lara Loire senza sapere nulla di lei. Nessuno parlava, solo il rumore del mondo fuori che entrava attutito dal varco della porta, spalancata, verso l’interno. Nessuno parlava e nessuno parlò. Tutti gli uomini presenti al Circolo Kappa guardarono il modo, il gesto, di posare la borsetta viola sullo sgabello a lei più vicino, e le sue mani, piene di dettagli invisibili, che modellavano l’aria innalzandosi verso la tazzina. Lara Loire sollevò la tazzina con otto dita. Otto. Lasciò liberi i mignoli, un po’ per dolcezza, un po’ per inutilità, con otto dita accompagnò la tazzina di vetro sino alla bocca. Chiuse gli occhi mentre le prime lacrime di caffè le scivolavano sulla lingua, scaldando prima la gola poi l’anima. Quando riaprì gli occhi la tazzina era ancora imprigionata tra le sue dita senza smalto e le sue labbra senza rossetto. Silenzio. Lara Loire appoggiò la tazzina con le sue otto dita sul vetro e i due mignoli che scodinzolavano nell’aria come le gambe dei bambini seduti sugli sgabelli, troppo alti, di un bar. Richiuse gli occhi, come per concentrarsi, fece un lungo respiro e li riaprì pieni di luce e bagliori. Sorrise, con un sorriso che non si può raccontare, gli occhi quasi lucidi, come se una lacrima, una sola, li avesse inumiditi quel tanto che basta per rafforzare luci e riflessi, e la bocca, stretta e carnosa, chiusa con gli spigoli d’incontro tra il labbro inferiore e quello superiore alzati verso l’arco, che disegnano un piccolo arco, uno spicchio di luna, sul viso. Il sorriso di Lara Loire.

Piena di una felicità nuova, lei non smise di tenere sotto tiro lo sguardo del barista mentre gli diceva non so se è per via del vetro, ma non credo, ma questo caffè risveglia una cosa, ogni cosa, del corpo, come dire.
Grazie, lo so.
Ah beh, modesto.
No, nel senso, io il caffè lo faccio buono, e basta, non c’è molto da aggiungere,  diversamente non lo so fare.
Ah d’accordo.
D’accordo.
Non le è mai venuto un caffè cattivo?
No.
Mai?
Forse il primo, il primo in assoluto, e magari il secondo.
E basta?
E basta.
E basta.

– Bisogna farle una foto.
– Meglio di no.
– No dico, così vedremo sempre il suo sorriso.
– Appunto.
– Dai.
– Tu pensi che ti faccia bene?
– Beh almeno non la dimentico.
– Non la dimentichi comunque.
– Dai cazzo, tanto le fotografie servono a quello.
– Ma una fotografia di Lara Loire non ti darà pace.
– Le cose che non danno pace sono altre.
– Anche questa.
– Ma è solo una foto, cazzo.
– Fai come vuoi. Ma io non sono sicuro che il tuo cuore riesca a reggere a quegli occhi ogni mattina. Dai retta a uno più scemo di te, prima te la dimentichi meglio è.
Non la dimentichi e basta.
– Se non la vedi più, nemmeno in fotografia, col tempo le idee si confondono, e dopo molti anni, fidati che è vero, ti sembrerà quasi che lei non sia mai esistita. Col tempo confondi quello che è accaduto davvero e quello che invece avresti voluto accadesse, ma poi non s’è avverato. Non so se capisci cosa intendo.
– Capisco. Ma ho bisogno di una macchina fotografica.
– Non ce l’hai?
– Se l’è presa la mia ex moglie.
– Ma…da quant’è che se n’è andata?
– Sei anni.
– E da sei anni non hai più scattato fotografie?
– Nemmeno una.
– Sei anni senza foto.
– Proprio così. È come se non ci fosse stato più nulla di bello da vedere.
– Non dire cazzate.
– Fino ad oggi non c’è stato più niente di bello da vedere e immortalare se non gli occhi di Lara Loire, e quel suo modo magnetico di sorridere.

Con la solita eleganza nel cogliere ogni segreto aella città, Lara osservava ogni spigolo, ogni vetrina e passante, ne rubava i colori e i rumori. Gli odori dei panifici la facevano impazzire, quelli dei negozi di vestiti le causavano mal di testa, le mamme che spingevano i bambini in carrozzina la facevano arrossire. Lara Loire si emozionava per ogni sfaccettatura del mondo che la circondava, di ogni particella urbana, e s’impossessava delle meraviglie della vita usando tutti i cinque sensi, ma senza ingordigia, solo con una lieve curiosità che le attraversava gli occhi. Quegli occhi che parevano cambiar colore a seconda dell’intensità e della tonalità di luce che si poneva loro davanti. La luce del sole li tingeva di blu di Persia, con piccoli bagliori, quasi lucciole più chiare di un azzurro fiordaliso che sbocciavano ai confini dell’iride. Le giornate grigie parevano spingere le trame celesti verso sfumature ametista, porpora e magenta, concedendo indiscrete impressioni di furiose pennellate sulla tela dell’universo. Di notte e nei locali chiusi tutto dipendeva da quali luci le si riflettevano davanti, da quali espressioni cromatiche dominavano gli interni dei luoghi in cui Lara si soffermava, e i suoi occhi si ricoprivano di turchese e porpora, toccando momenti di pura ardesia che sfumava dalla pupilla all’iride.

Ma quanto di più bello c’era negli occhi di Lara Loire lo si scopriva solo in quelle situazioni temporali memorabili come il crepuscolo e, ancor più distintamente, in quelle giornate indecise tra pioggia e sole, sole e pioggia, quelle giornate in cui piove con il sole, magari all’ora del tramonto, o all’alba. In quelle rare situazioni in cui la luce si proietta nelle tracce di bagnato che il cielo, Dio o qualche forza della natura, hanno disegnato con mirabile abilità sul cemento, i palazzi, i vetri e le finestre, le automobili parcheggiate e tutti i frammenti di città sbriciolati in polvere sulle strade e i marciapiedi. In quelle ore assurde, in cui anche il mondo non si dà pace e ragione, in cui né cielo né terra sanno quale abito indossare, e le persone, impazzite, camminano per strada con ombrelli variopinti e occhiali da sole, in quelle giornate lì, anche gli occhi di Lara Loire si abbandonavano ad una follia cromatica che, tra riflessi, bagliori e sfondi di pittura, naufragava tra il verde marino e quello primavera, tra l’ametista e il magenta, con vari sentieri di porpora e ardesia, azzurro fiordaliso e indaco. Per ultimo, come se fosse il gran finale di una danza di pregiate tonalità, tornava quel suo blu di Persia. Lo stesso che condannava ogni uomo a precipitare in abissi dispersi fatti di desideri e tormenti.

È un periodo spaventosamente affascinante, sono giorni in cui ogni libro che leggo diventa ogni volta lo scritto più bello che mi sia mai capitato per mano, e mi innamoro anche dei gesti e delle cose più grottesche, mi innamoro anche dei nemici, e dei pericoli, dell’avidità e di passioni sfrenate che mi sfiorano le guance in giornate senza vento. Settimane in cui ascolto dischi nuovi e mi piacciono tutti da morire, riascolto quelli vecchi e scopro note e arpeggi che mi sono sempre sfuggiti. Un periodo in cui amo da morire quello che scrivo, anche le frasi più insensate, giorni pazzeschi in cui accadono cose che non so e non voglio spiegare, perché non si spiegano e basta. E mi manca qualcosa. Amo da morire quello che mi manca. Ne custodisco il desiderio con raffinata follia e velenosa gelosia.

Lara Loire, che è un incanto, e un segreto, mi sta più vicina di quanto possa veramente dimostrare, mi ama anche lei, siamo segreti amanti perduti alla follia. Ci parlo, lei mi parla, ci tocchiamo, in nome di un promesso segreto, nel buio ci incontriamo e sognamo di unirci per sempre, sempre, come per colmare un vuoto, un abisso che rovina la mia anima e lacera la figura perfetta di ciò che mi manca. C’è stato anche un momento, uno e uno soltanto, prezioso, in cui in uno strano e romantico modo, un modo lontano e disperato, ci siamo appartenuti, e assaporati, assaggiati, morsi e graffiati. Le mie dita si son infilate nei suoi anelli nascosti, mentre lei sospirava il mio nome con fiato tenue e sensuale.
In uno strano e romantico modo, lontano e disperato, ci apparteniamo, nascosti dalla luce, dal mondo, e da ogni sguardo che non sia il nostro. Perché siamo soli.