La pioggia della sera prima aveva abbassato le temperature di qualche grado e il Maestrale che aveva attraversato i cieli e le pianure per tutta la notte, pareva essersi stancato di quei paesaggi, giacché s’era inabissato nei fondali marini per abbandonarsi alle altre correnti che giungevano dalle Grecia. Il cambio di vento lo si percepiva nelle ossa e sulla pelle, e lo si vedeva nell’incresparsi delle onde. Le lance ancorate poco distanti dalla riva avevano ruotato l’asse longitudinale puntando la prua verso sud-est e la poppa verso nord-ovest. Obbedienti e miti, a galla su quel fare marino che non ha regole e leggi se non quelle dei venti e della gravità lunare, a fissarle da lontano parevano bare galleggianti gettate in acqua da qualche antico veliero celato oltre le distanze e l’orizzonte.
Fiat è una storia, un brand in cui le famiglie si riconoscono. Un pezzo d’identità italiana che profuma di quotidiano e fatica. FCA è invece il finale, non lieto, di quella storia. E profuma di abbandono e rinuncia. Fiat non è mai stato un marchio di lusso e innovazione, come Mercedes, ma ha sempre rappresentato una certa tradizione, che viene da lontano e che ha fatto parte di milioni di persone qualunque.
La passeggiata notturna con il mio cane è il momento ideale per cercare nel buio i tasselli mancanti del puzzle della mia vita. Sembra una cosa banale. Poi però mi trovo da solo, in strada con il mio cane, come dicevo, e nel silenzio che si rovescia lontano dal suo zampettare c’è qualcosa che va oltre l’ascoltare, o il percepire. C’è una sorta di attesa durante la quale faccio una botta di conti sulla giornata trascorsa e quelle che l’hanno preceduta.
Ma i conti non tornano mai perché domani potrebbe accadere qualcosa come un soffio, una scelta, una canzone, una lacrima, un pensiero, un passo, un gesto, un movimento anche impercettibile, e l’ordine delle cose si ribalta. I conti quindi non tornano mai. Il mio cane invece si. Lui torna sempre, e con la stessa sicurezza mi aspetta quando sono io ad allontanarmi. E questa è una delle poche certezze che non hanno bisogno di un domani per essere confermate.
Se usiamo il termine crowdfunding passiamo per furbi e innovatori, se invece parliamo di colletta passiamo per poveracci. Un meeting è più professionale di una riunione, e un lunch di lavoro è più esclusivo di un pranzo tra colleghi. L’engagement hai il retrogusto di strategia mentre il coinvolgimento ha a che fare con qualcosa di personale. Vintage è alternativo, mentre antico fa odore di miseria. Un trend è una moda a portata di tutti, mentre una moda, forse, è qualcosa per pochi. Se parliamo di reason why veniamo ascoltati con attenzione e curiosità, ma appena pronunciamo le nostre ragioni passiamo dalla parte di chi ha torto o è in svantaggio. Continua a leggere
Il mare di Cattolica non ha il fascino e i colori di quello del sud. Neanche un po’. Ma a guardarlo tutto solo raggomitolato su sé stesso, in inverno, fa quasi tenerezza. Ed è stupendo. Non riesco ad immaginare la mia vita lontano dal mare. È una sorta di certezza, che se ne sta sempre li, qualunque cosa accada. Pare poco, ma di questi tempi.
In inverno il mare di Cattolica è più solo anche del cielo, dove almeno di tanto in tanto capita di incontrare qualche nuvola. Non si fanno nemmeno compagnia, cielo e mare, se non quando cala la nebbia, che è aria umida – aria bagnata fradicia -, una sorta di via di mezzo, di passaggio, di frontiera, tra i due. Tra il mare e il cielo. E qualche barca, all’orizzonte, pare un bottone che li tiene uniti.
“Sua maestà il caffè” è un racconto elegante e raffinato sulla storia della bevanda nera. Un racconto, dico, non tanto perché c’è una trama, ma perché l’autore scrive con una tale mania e una tale precisione sul metodo, che chi ha il cuore di leggere il libro capisce che quello che conta non è la bevanda, ma sono le minuscole storie che si incontrano scorrendo tra le pagine del suo passato. Più che scrittura, quella di Pietro Semino è un’esibizione artistica. Gli dev’essere accaduta una cosa che per uno scrittore è una sorta di ipnosi: fissarsi su di un’immagine e impazzire per la sua perfezione. Studiarla, smontarla, scolpirla e riordinarla in un libro.
Dov’è nato il caffè? In quanti modi si può degustare? Quante tipologie esistono? Quali pittori ne hanno dipinto? Quali cantanti ne hanno cantato? E quali scrittori, o registi, o personaggi famosi, ne hanno scritto e raccontato? Quando uno si ficca in testa queste domande qui, o ne esce pazzo o ne scrive un libro, appunto. L’autore si concentra sulle immagini e sui gesti, e scrive un bellissimo approfondimento su di un prodotto di cui ci deliziamo tutti i giorni senza saperne nulla in proposito. L’unica cosa che manca a questo libro è un accenno su di un dibattito tutto italiano: è meglio nella porcellana o nel vetro?
Pensavo ad un messaggio di Natale da poter scrivere e inviare ai miei clienti. Un messaggio brevissimo capace di racchiudere tutto il senso del mio lavoro e tutto quello che ho intenzione di svolgere l’anno prossimo, dopo queste festività. Una promessa, una sorta di impegno nello scrivere e realizzare campagne pubblicitarie.
Mi occupo di comunicazione, di storie aziendali, e quello che proprio non voglio smettere di fare è chiamarle storie. Ho sempre creduto in questa cosa del raccontare, che è diversa dal descrivere. Quando scrivo company profile o testi di prodotto, odio usare un linguaggio troppo tecnico o virtuosismi lessicali. Odio farlo perché non ce n’è bisogno, o almeno non sempre. Dopo aver visto il video di Volvo con Jan Claude Van Damme ho capito di avere ragione, ho visto la storia di quello spot, quello che si vuole raccontare: un’idea, una certa grandezza, qualcosa di epico. E nell’analizzare molti altri spot usciti quest’anno, da quello Enel con i suoi guerrieri (mio Dio), a quelli di Nutella e Mulino Bianco, ho visto come si fanno sempre più spazio le grandi storie. Che sono poi quelle costruite a puntino attorno a personaggi come Obama e Papa Francesco. Personaggi che sono promesse. E storie, appunto.
Volevo dire tutto questo con pochissime parole, a tutti i clienti che mi chiedono ogni giorno testi che descrivano nel dettaglio i loro prodotti e il valore della propria attività. Ecco una frase per loro e per quelli che ancora non credono a quella promessa, a quella grande storia che aspetta solo di essere raccontata.
Presto le aziende smetteranno di descrivere e inizieranno a raccontare.
Buone feste.