La pioggia della sera prima aveva abbassato le temperature di qualche grado e il Maestrale che aveva attraversato i cieli e le pianure per tutta la notte, pareva essersi stancato di quei paesaggi, giacché s’era inabissato nei fondali marini per abbandonarsi alle altre correnti che giungevano dalle Grecia. Il cambio di vento lo si percepiva nelle ossa e sulla pelle, e lo si vedeva nell’incresparsi delle onde. Le lance ancorate poco distanti dalla riva avevano ruotato l’asse longitudinale puntando la prua verso sud-est e la poppa verso nord-ovest. Obbedienti e miti, a galla su quel fare marino che non ha regole e leggi se non quelle dei venti e della gravità lunare, a fissarle da lontano parevano bare galleggianti gettate in acqua da qualche antico veliero celato oltre le distanze e l’orizzonte.
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Se usiamo il termine crowdfunding passiamo per furbi e innovatori, se invece parliamo di colletta passiamo per poveracci. Un meeting è più professionale di una riunione, e un lunch di lavoro è più esclusivo di un pranzo tra colleghi. L’engagement hai il retrogusto di strategia mentre il coinvolgimento ha a che fare con qualcosa di personale. Vintage è alternativo, mentre antico fa odore di miseria. Un trend è una moda a portata di tutti, mentre una moda, forse, è qualcosa per pochi. Se parliamo di reason why veniamo ascoltati con attenzione e curiosità, ma appena pronunciamo le nostre ragioni passiamo dalla parte di chi ha torto o è in svantaggio. Continua a leggere
“Sua maestà il caffè” è un racconto elegante e raffinato sulla storia della bevanda nera. Un racconto, dico, non tanto perché c’è una trama, ma perché l’autore scrive con una tale mania e una tale precisione sul metodo, che chi ha il cuore di leggere il libro capisce che quello che conta non è la bevanda, ma sono le minuscole storie che si incontrano scorrendo tra le pagine del suo passato. Più che scrittura, quella di Pietro Semino è un’esibizione artistica. Gli dev’essere accaduta una cosa che per uno scrittore è una sorta di ipnosi: fissarsi su di un’immagine e impazzire per la sua perfezione. Studiarla, smontarla, scolpirla e riordinarla in un libro.
Dov’è nato il caffè? In quanti modi si può degustare? Quante tipologie esistono? Quali pittori ne hanno dipinto? Quali cantanti ne hanno cantato? E quali scrittori, o registi, o personaggi famosi, ne hanno scritto e raccontato? Quando uno si ficca in testa queste domande qui, o ne esce pazzo o ne scrive un libro, appunto. L’autore si concentra sulle immagini e sui gesti, e scrive un bellissimo approfondimento su di un prodotto di cui ci deliziamo tutti i giorni senza saperne nulla in proposito. L’unica cosa che manca a questo libro è un accenno su di un dibattito tutto italiano: è meglio nella porcellana o nel vetro?
Oltre a incantare, interrompere, offendere, rimare e trasportare, le parole hanno anche lo strano potere di fermare un preciso momento. Che siano scritte o raccontate, incise o sussurrate, sono indelebili e impongono un certo ordine ed una precisa misura alle cose. Sono come firme che autenticano gli eventi. Ricordi. Voci lontane.
Che io debba scrivere è cosa di cui sono sicura. C’è in me un desiderio struggente di esprimere la mia vita in una forma duratura. – Christa Wolf
Magari è per questo che certa gente non sa stare in silenzio. Che parla anche a costo di sprecare parole solo per fermare qualche frammento nel tempo, un legame, un istante, un saluto, un ricordo. Per non restare sola. E pensare che su questo pianeta ci sono sette miliardi di abitanti, è difficile credere che possano soffrire di solitudine. Le parole sono una buona medicina. Ecco perché i social network. Perché Twitter, si, si, bastano anche 140 caratteri per sentirsi meno soli. Eccome.
Devono esserci le nuvole in cielo, scure e umide, in un orario preciso, verso sera, al calar del sole. Devono verificarsi favorevoli circostanze e singolari coincidenze per poter assistere ad un tramonto dalle trame dorate. Di quelli che smuovono masse di persone facendole correre sulle spiagge e nelle strade, fuori di casa, lungo i viali e i campi erbosi, senza muri attorno ma solo cielo a non finire. Così tanto cielo da averne quasi paura, di cadere, del vuoto, paura di restare soli per davvero. Tutto questo per un tramonto così lontano e prezioso che si manifesta con l’ambizione di mettersi in mostra e raccogliere applausi e meraviglia.
Come se un qualsiasi fenomeno della natura avesse bisogno del nostro elogio, della nostra attenzione, anzi, anche solo della nostra presenza.
Christa Wolf, “Nessun Luogo. Da nessuna Parte”.
Ogni parola pronunciata da Lara Loire pareva essere in perfetta sintonia con l’universo. Era il modo in cui parlava, e anche il suono, il timbro della voce. Erano le sue labbra che imponevano un ordine armonico, millimetrico e innamorato, alle cose e ai significati, alle parole e ai respiri, ai minuti e agli istanti di silenzio in cui il suo mondo si concentrava in un senso di attesa. Alla fine di ogni frase indossava un sorriso sempre nuovo e meraviglioso. Pareva quasi lo indossasse sul cuore, o sull’anima, che nel suo caso erano la stessa identica cosa.
Ci sono parole che andrebbero bandite dalla lingua italiana per almeno un paio d’anni. Parole che affollano il mondo della pubblicità, della radio, della tv e soprattutto della politica. Sono dei tormentoni linguistici che provocano seri danni alla comunicazione. Il termine più odioso, come segnala anche Massimo Birattari in “È più facile scrivere bene che scrivere male”, è criticità. Ascoltate le interviste dei nostri parlamentari e provate a farci caso: criticità territoriali, occupazionali, criticità nel tratto autostradale e tante altre tipologie di criticità, delle più creative. Stop! Creatività è un altro tormentone. Le agenzie pubblicitarie ne fanno grande uso in autocelebrazioni come “siamo un’agenzia giovane e creativa”, “offriamo soluzioni creative”, “la creatività è il nostro punto di forza”. Su LinkedIn, addirittura, chiunque può aggiungere la voce creativity alle proprie competenze ed esperienze.
Oltre ai singoli termini, ci sono delle espressioni che riempiono di parole senza significato il parlato e lo scritto quotidiano: soluzioni concrete è la migliore. Le banche offrono soluzioni concrete, mica ti fregano – ci tengono a precisarlo, si sa mai. Ma allora perché le usiamo? Perché siamo insicuri, crediamo che un lessico apparentemente ricercato ci dia una certa credibilità, ma purtroppo ci rende imprecisi e logorroici.
Due guru della comunicazione italiana, come il già citatato Massimo Birattari e Luisa Carrada, bocciano un’abbondante quantità di parole ed espressioni: esclusivo, prestigioso, creativo, trasgressivo, provocatorio, scomodo, impietoso – lui; coniugare, contaminazione, contesto, lavoro di gruppo, mediatico, momento di, monitorare, qualità della vità, riscoperta, segnale forte, significato simbolico, società civile, strumenti concreti, tempi tecnici, territorio – lei. A queste aggiungo: auspicare, stress, design, immagini d’impatto, potenzialità, molteplicità e ottimizzazione.
Queste parole andrebbero evitate in virtù di un linguaggio chiaro e preciso, e onesto, che non si perde e non si nasconde dietro alle criticità dell’italiano.
È importante distinguere gli apostrofi dagli accenti, perché non sono la stessa cosa. È banale dirlo, eppure…
Capita spesso di trovare su riviste, confezioni di prodotti – qualsiasi prodotto – e talvolta anche nei titoli del telegiornale, E’ al posto di È. Questo problema appartiene solo al mondo dello stampatello ed è causato dalla mancanza di alcuni caratteri speciali in un determinato font (o, purtroppo, ad una debolezza grammaticale).
Quando appunto ci si trova a scrivere in maiuscolo e il font non mette a disposizione l’accento, si può ricorrere a qualche scappatoia di fortuna:
- Cambiare la frase: prendendo come esempio il primo verso di questo post, lo si potrebbe riscrivere così: Bisogna distinguere gli apostrofi dagli accenti. A volte basta davvero poco.
- Se si tratta di un manifesto, può bastare un ritocco grafico per aggiungere l’apostrofo mancante – significa che chi scriverà il testo dovrà momentaneamente scriverlo con un errore grammaticale.
Una terza ipotesi, la più drastica, che non amo particolarmente, è quella di cambiare font. È però difficile rinunciare ad un font solo perché manca di un carattere speciale. Anche se quelli più usati hanno quasi sempre tutti i caratteri necessari per scrivere, stampare e pubblicare con serenità e, soprattutto, precisione.