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Ho comprato una lampadina nuova, di quelle di ultima generazione, sulla confezione c’è scritto che dura 12 anni. Ma è possibile? 12 anni di luce. Dovrei provare a tenere il conto per vedere se è vero. Che se poi non lo è, se non dovesse durare per tutto il tempo promesso, con chi me la dovrei prendere?

Con nessuno perché tra 12 anni non ti ricorderai proprio un bel niente di questa lampadina e quando non funzionerà più ne comprerai una nuova e basta. E basta. E se invece durasse solo tre anni? E se ci fosse un corto circuito?

l fatto è che non si possono promettere certe cose. Né i nostri genitori né Dio né nessun altro ci promettono che la vita durerà 80 anni. Ogni vita deve passare attraverso un così alto numero di coincidenze e incidenze che è dannatamente impossibile fare una promessa. O garantire la durata di qualcosa. E allora lo dovrebbero scrivere sulla confezione. Dura 12 anni a meno che… E di seguito una lista di eventualità che possono danneggiare la lampadina.

Già me la immagino come se la tira, la lampadina LED che vive 12 anni, alla faccia delle altre luci alogene della stanza. Racconta loro di qualcosa come una promessa fatta dal signor Philips. Una promessa di lunga vita. Le altre gelose replicano che niente è certo, soprattutto la durata della vita. Raccontano che può accadere di tutto, black out, incendi, incidenti, distrazioni di ogni genere. Lei respinge ogni cosa, sicura della promessa del signor Philips. Le alogene rispondono allora che nessuna certezza è vera se non quella di morire, e che un certo signor Marlboro lo scrive e lo ripete ogni giorno. Che se ne morirà. Se ne morirà di tutto questo, senza un tempo preciso ma con l’unica certezza, perché è l’unica davvero, che la vita finisce. Per uomini, animali, piante e lampadine.

Di solito con Dio ci parlo prima di andare a dormire. Quando sono già sdraiato nel letto e con le coperte fino al naso. Credo che molti scelgano quel momento lì perché è forse l’unico in cui ci si sente soli per davvero. Al buio, senza difese. Si chiede pietà. Un po’ come arrendersi. O almeno io la penso così.

Quello che è difficile è riuscire a restare concentrati. Recitare una preghiera senza pensare ad altro. Pregare dall’inizio alla fine senza altri pensieri in mente. Come quando si parla alla gente comune: si rimane concentrati su ciò che si racconta, sui significati e sull’esprimere un pensiero nel modo più preciso possibile. Con tono scherzoso, arrabbiato, annoiato, inferocito, contagioso o apatico.

Parlare con Dio, invece, è tutt’altra cosa. Pregare non è per niente facile. Farlo a voce alta aiuta. Ma nella mente, parlare nella mente – perché Dio ti sente comunque – è una prova di fede e concentrazione. E mi capita ogni notte. Ogni notte comincio a recitare una preghiera, a chiedere un aiuto, un miracolo, una qualsiasi cosa e mentre parlo, in solitario segreto, la concentrazione viene dirottata verso altri pensieri, anche i più banali. A volte mi accorgo che concludo una frase del Padre Nostro con quella di un Ave Maria, e non ricordo dove e quando ho sbagliato.

Se Dio ascoltasse veramente tutto, tutto, sai che confusione. E come potrebbe aiutarci. La mia percezione delle cose, e del mondo, di quello che accade e non accade, è che Dio ascolta ogni pensiero, anche il più distratto.

Il colibrì è un uccello eccezionale. Non ne ho mai visto uno. Ne ho solo letto e sentito parlare. Seguito qualche documentario. Vola in ogni direzione, su, giù, avanti e pure indietro. Riesce anche a stare immobile a mezz’aria, immobile nello stesso punto con le ali che, in alcuni esemplari, raggiungono gli 80 battiti al secondo. 80 battiti d’ali al secondo. Mentre in un minuto il suo cuore raggiunge i 600 battiti. Seicento. Visto in chiave romantica chissà quanto amore può sprigionare un cuore del genere. Tanto da scoppiare. Scoppiare per davvero, perché il colibrì non vive nemmeno un anno. E mi fa sorridere l’esatto contrario, la tartaruga, che con i suoi 6 battiti cardiaci al minuto, soltanto sei, campa 150 anni. Sempre in chiave romantica, con un pizzico di nostalgia, l’insensibilità della tartaruga genera lunga vita e una solitudine senza fine. Dopo tutto, il colibrì vola e la tartaruga no, e il loro confronto è una strana e infelice metafora della vita.

Piove a dirotto e le gocce di pioggia sembrano spari. Una mitragliata di proiettili d’acqua fini e sottili e letali, che forano, scoppiano e s’arrestano in tanti frammenti prima di unirsi assieme in un dito di bagnato che si innalza sulla strada. Come fossero spari. Che violenza che deve avere il cielo per svuotare tutti quei caricatori senza prendere la mira, sparare e basta verso il basso. Come dire “da che parte miro?”.
– In basso.
– In basso dove?
– In basso e basta.

I fulmini sembrano invece più geometrici, si lanciano come arpioni, sempre verso terra ma ragionando su dove precipitare, a caccia di balene nere, in mare o nei boschi, accompagnati a stento dai tuoni, che all’orecchio arrivano come esplosioni, granate, ma senza fuoco e senza fumo. Spaventano persino i cani, e i cani spaventati non s’avvicinano  all’uomo perché loro sentono la vera paura e non la vogliono condividere con nessuno. I cani amano per davvero e il dolore se lo tengono tutto dentro, lo mandano giù tutto in un sorso con quella loro aria nostalgica negli occhi, da qui il detto essere soli come cani. Soli a guardare la pioggia da dietro la finestra. O fuori, in mezzo alla strada a farsi trivellare dai proiettili. Soli in mezzo alla strada bagnati fradici con la macchina fotografica, a scattare istantanee senza mai riuscire, dico mai nemmeno una volta, a fotografare la pioggia.

Ci vorrà un sacco di tempo per capire che c’è una tecnica precisa per intrappolare le fucilate del cielo e tutta quella faccenda di arpioni, balene e granate dentro ad un unico scatto. Ci vorrà un sacco di tempo e ci si ammalerà parecchio a stare sotto lo scroscio con i calzini zuppi e il culo gelato. Ci vorrà un sacco di tempo per prendere bene la mira. Puntare con precisione.
– Da che parte miro?
– Dritto davanti a te.
– Verso dove?
– Dritto e basta.

Per scrivere un post di 140 caratteri bisogna trovare 140 caratteri perfetti che insieme raccontano una storia breve ridotta all’essenziale.

Ridurre una storia all’essenziale significa sgrassarla da tutte quelle finezze lessicali che creano uno stile e danno un ritmo alla lettura.

Spaziature e punteggiatura sono caratteri. In questa frase ci sono nove spazi e un punto. Quindi vanno dosati sia i caratteri che le parole.

I più bravi, possono provare ad aggiungere virgole, punti e punti e virgola; basta fare attenzione a non farcire eccessivamente un concetto.

Poi c’è la delicata questione dei link, delle immagini e degli hashtag, che riducono parecchio il numero di caratteri a nostra disposizione.

Per ogni hashtag bisogna inserire un cancelletto, con il segno #, e quest’azione ruba un carattere. Troppi hashtag sono graficamente brutti.

La differenza tra Twitter e Facebook è la stessa che c’è tra Led Zeppelin e Deep Purple: tutta questione di stile, eleganza ed egocentrismo.

Ci si deve pesare di mattina, appena svegli e prima di fare colazione, dicono. Non so come, ma io mi sono pesato di sera, in una sera qualsiasi, prima di andare a dormire: 74,8 kg. Dopo sette ore mi sono alzato e la prima, dico la prima cosa che ho fatto, è stata risalire sulla bilancia: 75,1. Non ci vuole un genio per contare tre etti. Tre etti di cosa? Se non ho mangiato, né bevuto, o compiuto alcuna azione se non quella di addormentarmi e svegliarmi. Dev’essere accaduto qualcosa, tra il chiudere e l’aprire gli occhi. E l’unica azione che unisce la notte al giorno, il sonno al risveglio, ecco, è sognare. Tre etti di sogni.