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Si scrive tè, tea o thé?

Ho voglia di tè. Che in italiano si scrive tè. Solo tè. Ma sono accettate anche le forme tea, all’inglese, e thé, alla francese. È sempre tè. Assolutamente vietate le forme creative thea e té, che si scoprono su molti menù e manifesti pubblicitari. Io scrivo sempre e solo tè.
Non mi importa dei francesi e degli inglesi, che poi questi ci aggiungono persino il latte. Latte e tè, nel tè inglese, o english tea. Vietato scrivere english thé, che sennò s’incazza la gente di Parigi e s’offende quella di Londra. Bere un thé inglese è come bere da una tazzina vuota.

In questa faccenda del tè ci imbattiamo tutti, prima o poi.

O meglio, ci imbrattiamo di combinazioni pazzesche che spesso finiscono persino sulle lattine o sulle bottigliette. C’è anche una scritta sul muro, nascosta tra le pareti di un quartiere. Un cuore nero e accanto in stampatello HO VOGLIA DI TÈ, MARTA. E non capisco se Marta abbia voglia di una tazza di tè, o se qualcuno abbia voglia di questa Marta e per colpa di un accento di troppo abbia confuso la sua amata con la bevanda orientale, o se ancora, sia proprio questa Marta, poverina, ad avere voglia di qualcuno.

Non ne si capisce niente. In ogni caso è la voglia di qualcosa o qualcuno che conta. E che fa nascere storie assurde. Colpa degli accenti e dei significa(n)ti. Colpa del vedere storie pazzesche anche solo leggendo una frase scritta sul muro, o mescolando lo zucchero in una tazzina di tè. Una tazzina vuota di english thea.

“Caro amico adesso nelle polverose ore senza tempo della città quando le strade si stendono scure e fumanti nella scia delle autoinnaffiatrici e adesso che l’ubriaco e il senzatetto si sono arenati al riparo di muri nei vicoli o nei terreni incolti e i gatti avanzano scarni e ingobbiti in questi lugubri dintorni, adesso in questi corridoi selciati o acciottolati neri di fuliggine dove l’ombra dei fili della luce disegna arpe gotiche sulle porte degli scantinati non camminerà anima viva all’infuori di te.” Cormac McCarthy.

Sono un’ottantina di parole, a seconda della traduzione. C’è solo una virgola, una soltanto per prendere fiato. Il resto lo devi leggere con calma, anche sbagliando la ritmica, non ha importanza. Quello che conta è che lo inghiotti tutto. Che lo mandi giù fino in fondo. E aspetti.

Un po’ per rabbia un po’ per orgoglio, ti viene la voglia di uscire di casa sbattendo il portone e fare una passeggiata sotto la pioggia. Dopo pochi passi smette di piovere. E resti fermo e immobile col mento verso il cielo, un perfetto imbecille in mezzo alla strada. Anche a star lì impalato – e imbecille – sei certo che non cadrà più una goccia d’acqua sulla tua fronte. Eppure la cerchi. Sperando che ti travolga e ti affoghi, e porti via, lavi e trascini lontano da quella prigione intercostale tutto lo sporco che c’è. Le pozze di umidiccia malvagità e ingiustizia che si incastrano tra una costola e l’altra. Quasi fossero spine inforcate nelle ossa, incastonate nel corpo fermo in mezzo alla strada. Che guardi avanti o guardi indietro non cambia necessariamente nulla. Gli occhi si trovano sempre di fronte ad un panorama in cui non c’è niente da vedere. Un paesaggio di cui poi non ti ricordi nulla. Lì capisci che non c’è scampo. Sei in trappola. Eppure non piove. Torni a casa con i nervi tesi e affilati, ti spogli e lasci tutto lo sporco che hai addosso, almeno quello che porti appresso, fuori dalla doccia. Apri l’acqua e aspetti che sia tanto bollente da strappare la pelle. Quando credi lo sia abbastanza ci entri dentro, e nonostante tutto il vapore, tutto quel furioso calore, quello che senti è solo un freddo cane e bastardo. E non percepisci più la differenza tra ciò che hai dentro e ciò che hai fuori.

Tutto quello che si porta addosso l’autunno assomiglia ad una furiosa miscela di colori e spettri ramati, odore di bruciato, fischi lontani e ricordi ancora più distanti, piogge senza suono e valanghe di fango nascoste dietro agli occhi, dentro agli occhi, aperti e poi chiusi. Poi di nuovo aperti. Ed è ottobre. Scalciate le giornate settembrine e trascinati gli ultimi pomeriggi estivi, quelli che hanno fretta di tramontare e corrono come pazzi, quasi precipitano nella notte, si riaprono le porte dei bar, quelli che per tutto l’inverno sopportano la noia e la lentezza di un lungo aspettare. Aspettare cosa, qualcosa, di ognuno, che per ognuno poi è diverso. Aspettare quello che non si può riavere indietro, se non in surrogate forme di giustizia, apparente e delicata fatalità, che tramonta e risorge, senza che nessuno ne veda mai la meraviglia.

Joss portami a casa.
Perché mi si chiudono gli occhi, mentre guido. E si aprono all’improvviso, mentre sogno. Joss portami a casa. Che in questi giorni non so dove sbattermi, con i ponti che crollano e le strade piene di traffico, scorciatoie scivolose e autostrade in fiamme. Joss portami a casa, che i fari dell’auto che s’avvicinano stanno per investirmi. E non li voglio più vedere, non voglio incrociare il loro sguardo, che poi s’incazzano e mi vengono addosso per davvero. Joss portami via. Mi piace alzare e abbassare il volume mentre sussurri Pillow Talk. Joss qui non c’è mica da scherzare, c’è l’odore sintetico di ospedale e il rumore delle barelle che attraversano le corsie. Odore e rumore di cose troppo severe. Joss. Joss. Joss portami via che non ne voglio più parlare di certe cose, non voglio più leggere e ascoltare. Portami a casa, perché i suoni diventano lontani, sempre più distanti, e i denti si stringono in una morsa feroce. Joss non smettere di cantare che mi sto rilassando, e voglio tornare a casa, da solo. Domani ci provo a sistemare un paio di questioni, ci provo a fare del mio meglio in questo gran casino che urla forte nella mia testa e la sua eco continua a correre per mesi e mesi. I mesi. Joss. Sapessi quanti giorni e quante notti. Con quelle urla. E gli occhi che si aprono all’improvviso, mentre sogno. E si chiudono, mentre guido.

C’è una nave piena d’oro, una nave piena d’oro e gioielli preziosi, gremita di gente dalla pelle nera senza capitano, senza timone. Marinai che guardano in cagnesco, disarcionati dalla vita e salpati a bordo di una nave zeppa d’oro massiccio. Quasi affonda. Quasi va a fondo. Scompare presto all’orizzonte. Si nasconde in naufragi sottomarini, o in qualche città sommersa, ce ne sarà pure qualcuna, ancora. Imbarca acqua, una goccia al giorno, una sola e mai di più, anche nei giorni di tempesta, una e una soltanto. E per quanto possa pesare una goccia d’acqua salata, una goccia di un mare immenso, di quella lunghezza il veliero affonda. Alba dopo alba. I marinai, neri con la faccia di chi nella vita non ha mai sorriso, vanno a fondo, vanno a picco con tutto quell’oro, tutto quell’oro che non è loro e non sarà mai di nessuno, mai più di qualcuno. Chissà se nelle città sommerse avrà ancora valore. Chissà se quella gente mancherà mai a qualcuno, o a nessuno. Demoni e pensieri in balia di un cavallo d’acqua scura, come un’onda che cavalca e non ascolta, non si ferma e tutto porta via in un denso trascinare.

Un libro che non mi piace, non mi piace e basta. Non c’è molto da fare. Di solito mi bastano un centinaio di pagine, a volte meno, per capire se un romanzo riesce a condurmi fino all’ultima frase. E solitamente ci arrivo sempre, alla fine. Ci sono poi rari casi, rarissimi, in cui proprio non ce la faccio. A volte è lo stile dello scrittore che mi innervosisce, o la trama poco convincente, o qualcosa di scontato, o troppo estremo. Insomma qualcosa che proprio non va. Come mettere troppo olio in un piatto di pasta. E allora lo abbandono, sia il libro che, in caso, il piatto di pasta. Se non mi piace non mi piace, c’è poco da fare. E anche fra dieci anni probabilmente non mi piacerà. Mettiti l’anima in pace e chiudi quel libro.

La faccio finita con 1Q84 giunto al 30% della lettura (il Kindle considera le percentuali, non i numeri di pagina). Bella l’intenzione, bello lo stile, fantastico il fascino giapponese e le strade di Tokyo negli anni ’80. Ma la sua lentezza, come quella di molte altre cose nella vita, mi ha stremato. Così con un certo silenzio, che poi è il silenzio dei libri digitali, metto fine a questa lettura, convinto che probabilmente non la ricomincerò mai. Con un certo silenzio ed una stanchezza costante, quella di tutti i giorni. Proprio tutti, non c’è scampo, non c’è aria. Non c’è scampo e non c’è aria. Solo il respiro, sordo e vuoto e senza volume, prima di sbuffare un po’ di noia, sbuffare un sottile filo di fiato, secco, e poi chiudere, senza rumore, 1Q84 di Murakami.

Si leggono gettate di inchiostro e acidità su quotidiani on e off line, aggettivi di grotteschi colori accanto ai nomi di Federica Pellegrini e Valentino Rossi, accanto ai nomi di chi vorremmo sempre vedere vincere, e forse non capiamo, o non amiamo abbastanza. E c’è un certo stupore, oscuro, nel misurarsi con la paura che chi ci ha fatto gioire una volta, non torni a farlo ancora. Non torni a farlo mai più.
È la triste fine dei campioni. Quando vincono, vincono con tutti, poi se perdono, perdono da soli. Normale e disgraziata amministrazione nel mondo dello sport. Perché quando piove le fenici non volano.