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In quelle sere che non so dove sbattere la testa, e i pensieri aprono un varco nel cranio e scappano come mosche, nel buio di una stanza senza lampadine accese. In quelle sere, che non c’è musica che giustifica il mio malumore, non c’è voce che solleva le preoccupazioni, o un testo nel quale mi riconosco, in quelle sere così, mi sono innamorato di LeAnn Rimes. In quelle sere, perché non è una sola, ma un susseguirsi di bui che collegano la notte al mattino, il sonno non mi è amico, e la musica sembra non essere più il giusto sedativo, la terapia perfetta, in quelle mille notti così, la voce di LeAnn mi ha toccato il cuore. La voce e il suo mood, il groove, il tono, e il suono, e il vibrato, e anche le pause, i silenzi. Non è questione di rime o versi particolarmente poetici, è un suono, un atteggiamento nell’affrontare certe note, e concedere loro la giusta importanza. Come calibrare il giusto suono per ogni nota, e far sentire anche il respiro, il respiro prima di cantare.

Non te ne accorgi in una notte sola di queste cose, puoi ascoltare cento volte consecutive lo stesso disco ma non lo capisci davvero finché non lo sorbisci a gocce lente, dense, e distanti. Distanti notti intere, sere disperate in cui tutta la musica di cui hai memoria non pronuncia i suoni giusti – i suoni. E non c’è una voce migliore di altre, penso che ognuno abbia la sua, e la mia, quella che mi salva, è di LeAnn Rimes. È un rendere giustizia ad ogni nota di una canzone, di un disco, di un momento preciso della vita, che poi sono la stessa identica cosa.

Ascoltare per impregnarmi del suo gusto, il carattere, l’intonazione e l’intensità, come guardarla negli occhi restando ad occhi chiusi, sfiorare con la mia paura il suo dono, come se fosse l’unica salvezza dell’anima, nelle notti senza neon e lampadine, senza i colori, se non quelli della voce di LeAnn Rimes. Quella voce racconta non quello che voglio sentire, ma quanto di più intenso io riesca ad assorbire dal tramonto e dalla nostalgia, che poi sono, effettivamente, la stessa identica cosa.

A volte l’ispirazione non arriva. Di solito accade, cioè non accade, proprio quando ce n’è più bisogno. Non arriva. E allora tocca andarsela a prendere. Ovviamente non c’è qualcuno che ti dice dove andarla a cacciare, devi trovarla e basta. E questa cosa o la capisci o non la capisci, non c’è molto da aggiungere. È come scavare una fossa nel terreno e infilarci il cervello a stagionare. Scavare in profondità, e scendere giù, scendere giù a raccogliere qualcosa che non hai mai visto ma sai che quando la troverai la saprai riconoscere, e sarà come se ti fosse appartenuta da tutto il tempo di una vita.

Come i sogni, che ti appartengono e basta. Anche se sono difficili da ricordare. Ma hanno vita lunga, i sogni, capita che ne fai uno da bambino e dopo vent’anni ancora non te ne sei liberato. Sono cicatrici della memoria, non nella pelle ma nella mente, ma come quelle in superficie, nella carne, te le ricordi finché campi. E da lì non ci scappi. Le cicatrici hanno lo strano potere di ricordarci che il passato è reale*, e i sogni mostrano quei dettagli che ti appartengono solo nel buio, e non li troverai più, mai più. Cercarli è come scavare una fossa nel terreno e infilarci l’anima a stagionare. Scavare in profondità, e scendere giù, scendere giù a raccogliere qualcosa che hai visto in sogno e vorresti riconoscerla nella realtà. Poi se non la riconosci, devi andartela a cercare nella luce e nel buio, e non c’è nessuno che ti dice verso quale orizzonte guardare. E questa cosa o la capisci o non la capisci, non c’è altro da aggiungere.

*cit. Cavalli Selvaggi, Cormac McCarthy

I marciapiedi sembrano campi minati, la gente li attraversa guardando a terra per evitare di pestarla, come se ci fosse merda dappertutto. Sembra una metafora pessimista del presente. Per fortuna, il problema non sono le cacche, ma gli smartphone. Precisamente,  l’iPhone. Quelli che camminano a testa bassa, lo fanno o perché stanno attenti alle mine o perché hanno gli occhi incollati sull’iPhone. Prima di comprarlo ero il primo a criticare i passanti armati del telefono Apple. E adesso cammino a testa bassa pure io, o magari con la fotocamera puntata sulla città, pronto a colpirla dal suo interno e riempire i social network con scatti e fotogrammi.

Il mondo gira dentro alle fotografie, photo sharing, si trasforma in una lunga passeggiata in tutti i viali e tutti i mari, i porti e parchi naturali, i laghi e le cascate. Il mondo corre in questo campo da gioco, le persone sparano, lo colpiscono, bucano forano ma non lo feriscono, ne strappano zolle e ne mostrano ogni segreto, photo-sharing. E tutti i posti bellissimi sono visibili a tutti, e magari son meno belli perché già visti, o più ricercati, dipende dai punti di vista. La vista, con gli occhi verso orizzonti reali. Reali, niente schermi e niente trucchi, senza filtri, e l’unico sharing è quello del vento che condivide ogni profumo dei posti che attraversa. Il vento, e la vista, e l’odore. A sforzarsi si riesce a sentire anche il gusto.

Ed ecco allora la vera differenza tra le due cose, tra il vento e lo schermo. Perché c’è gente che gira il mondo, a testa bassa o con l’iPhone puntato, gira il mondo e colpisce ogni suo segreto, ogni posto e paese, gente che attraversa le magie di Londra e New York ma poi si perde nei sentieri della propria anima.

Foto scattata, ovviamente, con l’iPhone.

Quasi un elogio allo scrivere, alla comodità e all’eleganza del gesto. Per scrivere in modo più veloce, e comodo, e pure pulito, dimenticando tutte le problematiche del farlo a mano, come i crampi e le macchie di inchiostro sulla pelle (i mancini occidentali sono condannati a catastrofi con l’inchiostro). Per agevolare ogni aspetto di questo antico gesto, scrivere, nel 1864 Christopher Sholes brevettò lo schema QWERTY. Il solo parlare di brevetto conferma un certo genio. Grazie allo schema QWERTY le mani si distribuiscono ordinatamente sulla tastiera, le dita non si scontrano mai, i movimenti diventano particolarmente ergonomici e si ottiene un equilibrio tale che mentre un dito schiaccia un tasto, un altro dito nel frattempo si prepara all’azione. Destri o mancini non fa differenza.

Sholes deve aver visto incepparsi migliaia di volte i merletti della sua prima macchina per scrivere, deve avere intuito che nell’ordine alfabetico in cui erano distribuite le lettere sulla tastiera c’era qualcosa che non andava. Lui era un inventore, un altro nome bellissimo, inventore. Insomma lui si mise a studiare i movimenti delle dita di entrambe le mani e la frequenza con cui le lettere si ripetono nelle parole più usate – ci sono infatti lettere che si usano più di altre, quindi meglio separarle, secondo lui. Ecco dunque che il suo ordine inizia con la Q e termina con la M, distribuendosi in 3 righe.

Un elogio allo scrivere

Poi c’è questa faccenda dell’orientamento sulla tastiera, quelle due linee in rilievo sui tasti della F e della J che rendono possibile il cominciare a scrivere senza abbassare gli occhi sulla tastiera. Con gli indici vado alla ricerca dei due rilievi, poi inizio a scrivere e non sbaglio mai, dico, mai! È incredibile. Sholes deve avere immaginato una persona che appoggia le mani sui tasti e inizia a scrivere senza guardare. Deve avere immaginato le lettere precise, e i movimenti perfetti delle mani e delle dita.

Fino a poche ore fa non capivo il motivo di quelle due lineette in rilievo, e perché poi proprio sulla F e sulla J. Davo per scontato che il mio lavoro e la mia passione, che si realizzano nel trascorrere la maggior parte del mio tempo con le mani sulla tastiera, hanno a che fare con un certo genio. Un brevetto favoloso e ordinato.
Quasi un elogio allo scrivere, il brevetto di Christopher Sholes, inventore.

Immagine di Marco Morosini

Che bello quando al meteo promettono pioggia poi invece spunta fuori il sole. Uno si dà per vinto alla pioggia poi si stupisce di una sorta di clemenza del cielo. Ed è così bello sorridere per quanto di bello si ha la fortuna di vedere, e toccare, quasi un denso attraversare la felicità, in ogni sua forma e dimensione.

Marco Simoncelli - grafica by Davide Bertozzi

Non c’è proprio niente da aggiungere. La fragilità della vita è tutta qui. O tutta lì, sull’asfalto e tra gli appunti di un copione teatrale. E quando i nostri eroi svaniscono così all’improvviso, in un modo che nessuno s’aspetta, quello che rimane è un equilibrio sul quale si soppesano tutte le anime del mondo.