Tutto il rock che conosco, che amo, che mi emoziona, e tutta la musica che scrivo, che canto, che sogno, tutta questa energia qui, fatta di note, pause e spartiti, questa folgore è passata tra le dita, i tasti bianchi e i tasti neri dell’organo di Jon Lord. Resta una certa percezione della fragilità della vita, soppesata con raffinata precisione sui piatti di una bilancia fatta di polvere e nostalgia.

Con la solita eleganza nel cogliere ogni segreto aella città, Lara osservava ogni spigolo, ogni vetrina e passante, ne rubava i colori e i rumori. Gli odori dei panifici la facevano impazzire, quelli dei negozi di vestiti le causavano mal di testa, le mamme che spingevano i bambini in carrozzina la facevano arrossire. Lara Loire si emozionava per ogni sfaccettatura del mondo che la circondava, di ogni particella urbana, e s’impossessava delle meraviglie della vita usando tutti i cinque sensi, ma senza ingordigia, solo con una lieve curiosità che le attraversava gli occhi. Quegli occhi che parevano cambiar colore a seconda dell’intensità e della tonalità di luce che si poneva loro davanti. La luce del sole li tingeva di blu di Persia, con piccoli bagliori, quasi lucciole più chiare di un azzurro fiordaliso che sbocciavano ai confini dell’iride. Le giornate grigie parevano spingere le trame celesti verso sfumature ametista, porpora e magenta, concedendo indiscrete impressioni di furiose pennellate sulla tela dell’universo. Di notte e nei locali chiusi tutto dipendeva da quali luci le si riflettevano davanti, da quali espressioni cromatiche dominavano gli interni dei luoghi in cui Lara si soffermava, e i suoi occhi si ricoprivano di turchese e porpora, toccando momenti di pura ardesia che sfumava dalla pupilla all’iride.

Ma quanto di più bello c’era negli occhi di Lara Loire lo si scopriva solo in quelle situazioni temporali memorabili come il crepuscolo e, ancor più distintamente, in quelle giornate indecise tra pioggia e sole, sole e pioggia, quelle giornate in cui piove con il sole, magari all’ora del tramonto, o all’alba. In quelle rare situazioni in cui la luce si proietta nelle tracce di bagnato che il cielo, Dio o qualche forza della natura, hanno disegnato con mirabile abilità sul cemento, i palazzi, i vetri e le finestre, le automobili parcheggiate e tutti i frammenti di città sbriciolati in polvere sulle strade e i marciapiedi. In quelle ore assurde, in cui anche il mondo non si dà pace e ragione, in cui né cielo né terra sanno quale abito indossare, e le persone, impazzite, camminano per strada con ombrelli variopinti e occhiali da sole, in quelle giornate lì, anche gli occhi di Lara Loire si abbandonavano ad una follia cromatica che, tra riflessi, bagliori e sfondi di pittura, naufragava tra il verde marino e quello primavera, tra l’ametista e il magenta, con vari sentieri di porpora e ardesia, azzurro fiordaliso e indaco. Per ultimo, come se fosse il gran finale di una danza di pregiate tonalità, tornava quel suo blu di Persia. Lo stesso che condannava ogni uomo a precipitare in abissi dispersi fatti di desideri e tormenti.

Me lo avevano già detto all’università, un professore di Costruzione del Messaggio Pubblicitario una volta mi disse qualcosa tipo

i libri che promettono di insegnare a diventare creativi, a scrivere bene e a persuadere le persone, sono tutti un lungo bla bla bla.

Quel professore mi aveva segnalato un solo testo, uno soltanto, datato 1962: Confessioni di un Pubblicitario di David Ogilvy. In un modo pazzesco, quel professore aveva ragione. Anche dopo la laurea ho continuato a studiare, investire tempo e denaro in libri di ogni genere, e ho scoperto che tra quelli di content marketing  e scrittura creativa non c’è alcuna differenza. Tutti riportano più o meno gli stessi esempi, stesse citazioni (anche di Confessioni di un Pubblicitario), e stesse promesse.

Non ne comprerò più uno che parli del mio lavoro. Almeno per un po’. Studierò invece tutti i contorni di esso. Un workshop di scrittura comica per racconti brevi e copioni teatrali, diretto da Stefano Benni, mi ha insegnato molte più cose sul mondo pubblicitario che le milioni di pagine dei libri didattici. Molti romanzi che ho letto, soprattutto i classici, si sono rivelati i migliori insegnanti, i migliori esempi. Credo che non ci sia nessuno che può insegnarti cose come lo stile, il gusto, la punteggiatura. Queste sono cose che maturano nel tempo, in base alle esperienze della vita, alle persone con cui ci si relaziona, ai libri. Quei libri. Quelli che non nascono a scopo didattico ma raccontano la mente di uno scrittore, un romanziere. Quelli che in una sola frase rinchiudono il senso di un intero discorso:

L’unica cosa importante è scrivere bene.

Facile a dirsi. Ma è tutto li. Credo che nessuno si debba mai permettere di dirti cosa scrivere, e come farlo. Quello che si può imporre, al massimo, è di scrivere in maniera corretta. Lo stile appartiene ad ognuno di noi, ed è unico. Poi tra le mille pieghe della vita lo si infarcisce con le influenze degli scrittori, attori, registi o inventori che ci hanno emozionato. Si, anche gli inventori, e i matematici. La vita di Nikola Tesla mi ha emozionato: lui voleva scoprire un’energia unica, l’etere, capace di comprendere e magari sostituire tutte le altre forme di energia in natura. Proprio come ridurre tutti i concetti, i libri e i metodi sullo scrivere in un’unica frase: scrivere bene. Una frase di due parole e 13 caratteri, tanto per azzittire anche Twitter.

Scrivere bene. Quello che vuoi, quello che devi, dalle email agli sms, dal biglietto d’amore al graffito sul muro. Scrivere bene. Metterci tutti gli aggettivi che si vuole, per poi capire quali servono davvero e quali no. Scrivere bene e leggere ad alta voce. Leggere come se fosse l’ultimo grappolo di parole che ci passa sotto gli occhi. Scrivere come se fossero finite tutte le parole del mondo. Scrivere e leggere ad alta voce, per capire se le frasi scorrono con una certa eleganza e una ricercata precisione.

Scrivere bene. A farla breve. Scrivere.

Ci si deve pesare di mattina, appena svegli e prima di fare colazione, dicono. Non so come, ma io mi sono pesato di sera, in una sera qualsiasi, prima di andare a dormire: 74,8 kg. Dopo sette ore mi sono alzato e la prima, dico la prima cosa che ho fatto, è stata risalire sulla bilancia: 75,1. Non ci vuole un genio per contare tre etti. Tre etti di cosa? Se non ho mangiato, né bevuto, o compiuto alcuna azione se non quella di addormentarmi e svegliarmi. Dev’essere accaduto qualcosa, tra il chiudere e l’aprire gli occhi. E l’unica azione che unisce la notte al giorno, il sonno al risveglio, ecco, è sognare. Tre etti di sogni.

Come un urlo che si vede e non si sente, si vede mentre esplode in un silenzio cupo, grave, in perfetta sincronia col far finta di niente, col fingere che ci sia un equilibrio, in questi giorni qui, mentre il cielo si sgretola e precipita in polvere. Polvere grassa, quasi sabbia oliata, senza vento che la possa portar chissà dove. Resta qui e s’accumula. E camminarci sopra è un pesante sprofondare. Affondare. Immergersi nel terreno e piantarci i piedi come radici velenose. Perché l’aria è veleno, questi giorni sono malati, e le urla, che si vedono e non si sentono, sono spasmi in nome di Dio. Come urlare contro un foglio bianco davanti alla bocca e lasciarne un alone giallo fumo.

E lascia stare Dio. Mi viene da pensare. Che i casini in cui mi caccio sono dei capolavori personali di esagerata bellezza, e straordinaria follia. Tutte quelle macchie sulle tele di questi giorni, e quell’ansimare, i graffi, e i morsi, schizzi maniacali, gesti di una bellezza infinita, capolavori di mostruosa precisione, danni inspiegabili al cuore. Frantumazioni del mio equilibrio perfetto. Un grande casino in testa. Un dolce pastrocchio. Un urlo che non posso gridare, un grande urlo, che la mia pelle non sa nascondere, e l’anima abbandonare.

È un periodo spaventosamente affascinante, sono giorni in cui ogni libro che leggo diventa ogni volta lo scritto più bello che mi sia mai capitato per mano, e mi innamoro anche dei gesti e delle cose più grottesche, mi innamoro anche dei nemici, e dei pericoli, dell’avidità e di passioni sfrenate che mi sfiorano le guance in giornate senza vento. Settimane in cui ascolto dischi nuovi e mi piacciono tutti da morire, riascolto quelli vecchi e scopro note e arpeggi che mi sono sempre sfuggiti. Un periodo in cui amo da morire quello che scrivo, anche le frasi più insensate, giorni pazzeschi in cui accadono cose che non so e non voglio spiegare, perché non si spiegano e basta. E mi manca qualcosa. Amo da morire quello che mi manca. Ne custodisco il desiderio con raffinata follia e velenosa gelosia.

Lara Loire, che è un incanto, e un segreto, mi sta più vicina di quanto possa veramente dimostrare, mi ama anche lei, siamo segreti amanti perduti alla follia. Ci parlo, lei mi parla, ci tocchiamo, in nome di un promesso segreto, nel buio ci incontriamo e sognamo di unirci per sempre, sempre, come per colmare un vuoto, un abisso che rovina la mia anima e lacera la figura perfetta di ciò che mi manca. C’è stato anche un momento, uno e uno soltanto, prezioso, in cui in uno strano e romantico modo, un modo lontano e disperato, ci siamo appartenuti, e assaporati, assaggiati, morsi e graffiati. Le mie dita si son infilate nei suoi anelli nascosti, mentre lei sospirava il mio nome con fiato tenue e sensuale.
In uno strano e romantico modo, lontano e disperato, ci apparteniamo, nascosti dalla luce, dal mondo, e da ogni sguardo che non sia il nostro. Perché siamo soli.

Quei momenti in cui non servono parole. In cui le parole non bastano più. E nemmeno i gesti. Quei momenti che di solito hanno a che fare con un certo dolore che s’impossessa di ogni parte del corpo e della memoria. Molti dicono che quando non ci sono parole di conforto la cosa migliore da fare è restare in silenzio. Io non penso sia così. Penso che anche il silenzio sia, in qualche modo, inopportuno. E in quei momenti di strazio fatti di pianti e singhiozzi, non ci sono né parole, né gesti, né silenzi. E questo è quanto.

Quelli che dicono che presto passerà non capiscono proprio un cazzo della situazione. Quelli che dicono “ti capisco” mentono e sbagliano, perché nessuno può conoscere quel dolore, quel dispiacere a cui ognuno, a suo modo, si abbandona. La verità è che il dolore non passerà, non lo farà mai, e il vuoto resterà sempre vuoto, scoperto e abbandonato. La realtà è che i giorni passano comunque, e non ci sono parole, gesti, silenzi, e nemmeno persone che possono capire. Sono momenti sbagliati, sbagliati e basta, sbagliati in ogni loro frangente. E questo è quanto.

Foto di Marco Morosini

La testa è da un’altra parte, un’altra parte, e non c’è modo che il corpo la raggiunga. Non c’è modo. La testa è da un’altra parte, pare verso un lontano amante, che poi lontano è una parola veramente troppo grande da raccontare. Ma comunque il corpo è qui e il pensiero da tutt’altra parte. E il cuore non può battere per due persone. Sarebbe cosa pazzesca, e forse sarebbe è un condizionale ingenuo, poiché è cosa pazzesca, il cuore che batte per due persone, una follia. Scoppierà, scoppierà. Certamente lo farà. Il cuore resta attaccato al busto, incastonato tra costole torace schiena e anima, e lì fermo se ne sta. Eppure batte per la ragione che è qui, ora, e anche per il desiderio, che è incollato al cervello, da tutt’altra parte, verso un segreto amante, lontano, e pure amante è parola sbagliata, volgare, perché senz’ombra di dubbio quel pensiero distante e distratto è più forte della ragione che resta qui e grida alla testa di tornare al suo posto, questo posto.

Lara Loire è troppo anche per il cuore di ogni uomo. Amarla è un gesto così lungo e minuzioso, devoto e raffinato, che non c’è uomo sulla terra che meriti il suo sguardo. Quel sorriso che è luce. Si riconosce tra tutte le cose preziose, Lara Loire, basta voltarsi verso il mondo e intuire quanto di più caro c’è all’orizzonte. Come a guardare il cielo scoperto, di notte, ma guardarne solo le stelle, guardarle brillare, perché tolte quelle, il cielo è sempre lo stesso.

Tratto da Lara Loire ©