Tardano a cadere. A morire. Ci sono ancora le zanzare, che c’hanno addosso la cattiveria di chi non s’arrende nemmeno davanti all’evidenza. Che si muore, e si cade. Davanti ad una tragedia che non avviene mai per colpa di nessuno. Capita e basta. Un po’ come la sfortuna. Pensa a questo, l’uomo seduto nel piccolo parco di aceri, mentre si gratta il polso dove è appena stato morso. Stringe una sigaretta accesa tra le labbra, tenendo gli occhi semiaperti per proteggersi dal fumo e dal bruciore. La panchina umida e sgangherata è più sola di lui in quel cerchio di erbacce che contrastano per una manciata di metri quadrati il cemento color piombo dell’ospedale. Le persone a cui teniamo muoiono inesorabilmente prima delle foglie degli aceri. Muoiono prima anche delle zanzare. Senza mai togliersi la sigaretta dalle labbra l’uomo sfoglia il libro che custodisce senza segreto sulle ginocchia, scorre le pagine sino ad arrivare ad una frase sottolineata più volte:

le foto durano sempre più di noi, buffa cosa chiamarle istantanee.

Sfoglia ancora qualche pagina, fino ad un’altra frase cerchiata un paio di volte con una matita a punta grossa, male appuntita: visitare un malato è gesto nobile, stargli vicino è un’altra cosa. Richiude il libro, finisce la sigaretta e resta seduto su quella panchina come se stesse aspettando qualcuno. È autunno e le foglie non cadono, sembrano incazzate più delle zanzare.

Citazioni di Stefano Benni – La traccia dell’Angelo, Sellerio Editore © 2011.

Una passione non la spieghi. Ce l’hai e basta. C’è poco da aggiungere. C’è chi canta e chi scrive, chi disegna e chi fotografa. Chi pesca. Cucina. Legge. Non ne si spiega il motivo, viene quasi naturale. Come guardare nel buco di una serratura, ci si guarda sempre con lo stesso occhio. Una passione non ha niente a che vedere con il talento. O almeno non sempre. Solo perché ti piace correre non lo superi uno come Bolt, che quando corre lo fa per dimostrare qualcosa a Dio. Quella è un’altra cosa, che va ben oltre una semplice attitudine, al piacere, al gusto di fare una cosa e amarla in ogni suo dettaglio, in ogni suo gesto.

A me piace scrivere. Non è un talento, è solo una cosa che mi piace fare, ed è anche il mio lavoro. Pure la mia rovina. In un certo modo, quando una passione si trasforma in lavoro perde parecchio del suo fascino. Soprattutto quando non la si pratica solo per gli altri. E io scrivo per tutti e mai per me. Scrivo per soldi e quasi mai per piacere. Una rovina. Bolt sfida Dio e io mi lascio dominare da un’armata di lettere, storie e punteggiatura. E non c’è vittoria se quanto di più intimo e personale si rivolta contro di me. Come se all’improvviso Bolt diventasse un campione di corsa all’indietro. O se andando a spiare dal buco di una serratura vedessi non quello che si cela dietro la porta ma quanto di più perverso e ostile si nasconde nella mia anima.

Se sai fare una cosa, non devi per forza saperla fare bene, ma se c’è qualcosa che sai fare, che puoi fare, per aiutare un amico, devi, porca puttana, la devi fare. L’uomo si presentò con queste parole davanti all’amico moribondo e abbandonato a sé stesso in un lettino scricchiolante d’ospedale. Le lenzuola odoravano d’urina. L’amico moribondo non si vergognò di dire che si era pisciato addosso. Succede, rispose l’altro, sorridendo. Quindi sono qui per farti vedere cosa so fare, aggiunse. Vediamo. L’uomo seduto accanto al letto sporco fece due respiri lenti e profondi, lunghi e intensi, di quelli che di solito aiutano a prendere coraggio. Poi però non disse nulla. L’altro si addormentò. Sognò di lavorare in un circo, un bar dentro ad un circo, preparava il cappuccino per le tigri. E le accarezzava mentre bevevano nelle ciotole grosse come gabinetti.

Quello che so fare, riprese l’uomo senza badare se l’amico si fosse svegliato, quello che so fare è migliorarmi. So diventare una persona migliore. Ho perso un sacco di amici e persone care senza aver dedicato a loro il tempo necessario per non ammazzarmi di nostalgia. Di mancanza. Quindi mi stai dicendo che morirò. Chiese il malato. Può darsi, e che la scampi o no, io voglio stare qui, proprio qui, e farti vedere che sono una persona migliore, farti vedere che c’è anche un mondo migliore, in cui la gente, ogni tanto, si aiuta. E se poi muoio davvero. Lo disse come se fosse un’affermazione, non una domanda. E se poi muoio davvero. Lo disse proprio in questo modo. L’altro gli rispose che avrebbe lasciato questo mondo con qualcosa in meno, forse la rabbia. L’avrebbe lasciata qui, perché non gli sarebbe mai servita in nessun altro posto al di fuori di quella stanza d’ospedale.

Al mio amico Daniele.

“Caro amico adesso nelle polverose ore senza tempo della città quando le strade si stendono scure e fumanti nella scia delle autoinnaffiatrici e adesso che l’ubriaco e il senzatetto si sono arenati al riparo di muri nei vicoli o nei terreni incolti e i gatti avanzano scarni e ingobbiti in questi lugubri dintorni, adesso in questi corridoi selciati o acciottolati neri di fuliggine dove l’ombra dei fili della luce disegna arpe gotiche sulle porte degli scantinati non camminerà anima viva all’infuori di te.” Cormac McCarthy.

Sono un’ottantina di parole, a seconda della traduzione. C’è solo una virgola, una soltanto per prendere fiato. Il resto lo devi leggere con calma, anche sbagliando la ritmica, non ha importanza. Quello che conta è che lo inghiotti tutto. Che lo mandi giù fino in fondo. E aspetti.

Un po’ per rabbia un po’ per orgoglio, ti viene la voglia di uscire di casa sbattendo il portone e fare una passeggiata sotto la pioggia. Dopo pochi passi smette di piovere. E resti fermo e immobile col mento verso il cielo, un perfetto imbecille in mezzo alla strada. Anche a star lì impalato – e imbecille – sei certo che non cadrà più una goccia d’acqua sulla tua fronte. Eppure la cerchi. Sperando che ti travolga e ti affoghi, e porti via, lavi e trascini lontano da quella prigione intercostale tutto lo sporco che c’è. Le pozze di umidiccia malvagità e ingiustizia che si incastrano tra una costola e l’altra. Quasi fossero spine inforcate nelle ossa, incastonate nel corpo fermo in mezzo alla strada. Che guardi avanti o guardi indietro non cambia necessariamente nulla. Gli occhi si trovano sempre di fronte ad un panorama in cui non c’è niente da vedere. Un paesaggio di cui poi non ti ricordi nulla. Lì capisci che non c’è scampo. Sei in trappola. Eppure non piove. Torni a casa con i nervi tesi e affilati, ti spogli e lasci tutto lo sporco che hai addosso, almeno quello che porti appresso, fuori dalla doccia. Apri l’acqua e aspetti che sia tanto bollente da strappare la pelle. Quando credi lo sia abbastanza ci entri dentro, e nonostante tutto il vapore, tutto quel furioso calore, quello che senti è solo un freddo cane e bastardo. E non percepisci più la differenza tra ciò che hai dentro e ciò che hai fuori.

Tutto quello che si porta addosso l’autunno assomiglia ad una furiosa miscela di colori e spettri ramati, odore di bruciato, fischi lontani e ricordi ancora più distanti, piogge senza suono e valanghe di fango nascoste dietro agli occhi, dentro agli occhi, aperti e poi chiusi. Poi di nuovo aperti. Ed è ottobre. Scalciate le giornate settembrine e trascinati gli ultimi pomeriggi estivi, quelli che hanno fretta di tramontare e corrono come pazzi, quasi precipitano nella notte, si riaprono le porte dei bar, quelli che per tutto l’inverno sopportano la noia e la lentezza di un lungo aspettare. Aspettare cosa, qualcosa, di ognuno, che per ognuno poi è diverso. Aspettare quello che non si può riavere indietro, se non in surrogate forme di giustizia, apparente e delicata fatalità, che tramonta e risorge, senza che nessuno ne veda mai la meraviglia.

Joss portami a casa.
Perché mi si chiudono gli occhi, mentre guido. E si aprono all’improvviso, mentre sogno. Joss portami a casa. Che in questi giorni non so dove sbattermi, con i ponti che crollano e le strade piene di traffico, scorciatoie scivolose e autostrade in fiamme. Joss portami a casa, che i fari dell’auto che s’avvicinano stanno per investirmi. E non li voglio più vedere, non voglio incrociare il loro sguardo, che poi s’incazzano e mi vengono addosso per davvero. Joss portami via. Mi piace alzare e abbassare il volume mentre sussurri Pillow Talk. Joss qui non c’è mica da scherzare, c’è l’odore sintetico di ospedale e il rumore delle barelle che attraversano le corsie. Odore e rumore di cose troppo severe. Joss. Joss. Joss portami via che non ne voglio più parlare di certe cose, non voglio più leggere e ascoltare. Portami a casa, perché i suoni diventano lontani, sempre più distanti, e i denti si stringono in una morsa feroce. Joss non smettere di cantare che mi sto rilassando, e voglio tornare a casa, da solo. Domani ci provo a sistemare un paio di questioni, ci provo a fare del mio meglio in questo gran casino che urla forte nella mia testa e la sua eco continua a correre per mesi e mesi. I mesi. Joss. Sapessi quanti giorni e quante notti. Con quelle urla. E gli occhi che si aprono all’improvviso, mentre sogno. E si chiudono, mentre guido.

Ci sono parole nostalgiche come lontano, o parole lontane come nostalgia. Pensieri che si pronunciano sempre allo stesso modo, come “fuori piove”. O sostantivi che non si pronunciano mai a voce alta, come cancro. Parole odiose come spigolo e altre prive di peso come foglia. Che poi l’odio per uno spigolo dipende dal peso con cui ci si va a sbattere. E il peso di una foglia è direttamente proporzionale all’odio verso una stagione, o al come si accoglie nel cuore il mese di settembre, quello che più di ogni altro porta con sé un certo senso di cambiamento. Fuori e dentro. Nei colori e nelle trame. Nelle temperature e nelle strade, sempre le stesse, solo più umide. Di pioggia e di sole. Quei giorni che piove con il sole, e tutto sembra una follia. Con l’arcobaleno che è la più grande beffa in natura. Se ne sta lì a forma di sorriso rovesciato, un segno di tristezza e ingiustizia ma pieno di colori. Un’espressione triste che ha più senso guardarla stando a testa in giù, con i piedi verso il cielo. Bisogna guardarlo al contrario per riconoscere un sorriso. Che poi questa è anche una metafora di molte altre situazioni della vita. Basta guardarle sottosopra per trovarne un senso, nostalgico e lontano.