Ci sono parenti che incontri solo ai funerali. Quelli, sono i mezzi parenti. Con loro si parla poco e sempre delle stesse cose. Della vita, del tempo che passa, il lavoro, da quant’è che non ci si vede, e i figli. Si fa un breve riassunto di tutto quello che è accaduto tra un funerale e l’altro, insomma. Li si incontra anche ai matrimoni, ogni tanto, ma accade che in qualche modo riescono persino a non presentarsi, talvolta anche per merito degli inviti di nozze che precisano “È gradita la presenza” ma lasciano intendere, tra le righe, “È più gradita la non presenza”. Eppure esistono e respirano, occupano spazi e riempiono silenzi, ma della loro esistenza nulla interessa, nemmeno il legame di sangue, che nella maggior parte dei casi è solo una questione genealogica. I mezzi parenti valgono poco più di semplici conoscenti, sicuramente meno di un qualsiasi amico del bar. E non è sempre così. È anche una questione geografica, e quindi culturale. In alcuni posti basta la parentela anche alla lontana, magari lontanissima, per festeggiare ogni incontro. In altri, invece, si cerca di mantenere una certa distanza di sicurezza. Non si sa bene perché, c’è solo una volontà di delineare per bene i propri territori e di affezionarsi solo a certi amici e certi i parenti, non i mezzi parenti, o i mezzi amici, che grossomodo sono la stessa identica cosa.

Immagine di Marco Morosini 

Non è che mi piaccia proprio tutto della notte. Si, ha il suo fascino, senza dubbio. C’ha le stelle, e quelle appaiono solo nel buio, e la Luna, anche se lei ogni tanto fa capolino pure di giorno, credo per colpa del sole che la illumina in qualche modo. No, non è di quel modo lì che scrivo, ma piuttosto di ciò che della notte detesto. Perché nel suo palinsesto fatto di neon accesi, lucciole che si fingono lanterne e cosce nude sulle strade, trasforma quanto di più raffinato in orrore. Le farfalle, ad esempio, le farfalle notturne mi fanno quasi schifo, sono farfalle ma senza colore, e quando volano fanno un gran baccano, approfittano dei silenzi notturni, che fanno quasi paura, sia le farfalle che i silenzi. Il loro sforbiciare d’ali mi fa temere che anche gli angeli, di notte, debbano fare un gran casino quando si librano il volo. Gli angeli volano alti ma il loro ricordo precipita come una pioggia di piombo, e tingono di catrame e oscurità ogni tentativo di fuga e di abbandono. Ecco il nero, e le ali delle farfalle. E le stelle lontane apparire.

Se c’è un buio peggiore di questo, dietro la Luna o anni luce in là, oltre una direzione che non ha nulla a che fare con l’orizzonte, non saprei, ma il sospetto pulsa nel vuoto apparente che separa il mare e il cielo alle undici di sera, una paura o una volontà oscura che si nascondono dove finiscono i bagliori. Se c’è un buio peggiore non lo so ma amo la notte, quasi da impazzire, che mi illude che le stelle cadenti siano davvero stelle e non polveri incendiarie. Del fuoco invece ho davvero paura, che tutto illumina e tutto brucia, senza badare a cosa porta via e quali strade invece illumina, tutto incendia tranne il mare, che in fin dei conti è una di quelle certezze che assieme alla notte mantiene un certo equilibrio, una dignità e una sicurezza che l’orizzonte non può infrangere – poiché è tutto dello stesso colore.

Se iTunes aveva messo a dura prova la bramosia di acquistare dischi fisici – viene da dire analogici ma in realtà non lo sono per nulla -, Spotify è il cattivone di turno che mette fine alla mia collezione di album, quelli che se ne stanno tutti belli in fila su di una lunga mensola di legno nella mia stanza. Un cattivo ma dall’enorme fascino, che custodisce dei capolavori di nicchia impossibili da trovare nei negozi e persino negli store online, che è addirittura legale, ed entro un certo limite di ore persino gratis. Ci penso quasi ogni giorno ad abbonarmi, così da avere tutta la musica del pianeta, dico tutta, sempre con me. Eppure non l’ho ancora fatto, o meglio, non ci sono riuscito. Perché abbonarsi a Spotify significa smettere definitivamente di acquistare dischi fisici, con tutto il rito di entrare nei negozi, le chiacchere con il proprietario, la paura di comprare una ciofeca e tutta quella serie di situazioni che si creano studiando copertine, prezzi e discografie in esposizione. C’è che ogni cosa che si perde, come certi gesti, riti, oggetti e mestieri, ci mette un po’ a scomparire per davvero. Fatico ad immaginare la mia vita senza dischi fisici.

Ma a fare i conti con la praticità, la velocità e la quantità di musica, tutte cose che non danneggiano la qualità della stessa, che suona da paura nei monitor Yamaha che troneggiano sulla scrivania, a fare i conti per davvero, ammetto che Spotify è un cattivo geniale. E come ogni grande nemico ha un punto debole: è quasi gratis. Punto debole perché la musica che non piace non la si ascolta e basta, un paio di clic e ci si dimentica di quella canzone, quel disco che si sperava fosse migliore. Quando invece si andava nei negozi e si spendevano soldi per un album che già al primo ascolto deludeva, insomma quando si compravano dischi del cavolo, li si ascoltava comunque almeno 100 volte per rendere giustizia ai soldi spesi. E rimaneva comunque un certo ricordo che se ne stava impresso nella mente e nel cuore, oltre che a quel cimelio seppellito nella  maestosa collezione che ancora oggi occupa un volume imponente dentro casa. Questa cosa del comprare e sbagliare, in quell’icona verde che invade pochi pixel sulla scrivania del mio MacBook, non accade più. Per quanto possa essere assurdo è davvero difficile farne a meno.

Fuori c’è un temporale così musicale che ho spento Spotify e alzato il volume del cielo. È un concerto di tuoni e pioggia che precipita e sbatte sui tetti e sul cemento, con le gocce più gravi che scolano dalle grondaie e quelle acute che non incontrano nulla nel loro cadere sino al momento esatto in cui si schiantano sull’asfalto, e in quell’istante – perché di un attimo appena si tratta – eseguono la loro nota. Una sola nota prima di esplodere e tramutarsi in corsi d’acqua e pozzanghere su cui altre gocce compongono accompagnamenti sofisticati. Ci sono i fiati e ci sono gli archi, gli ottoni e i cantanti, tuoni e scoppi dentro agli stomachi delle nuvole color piombo, tutti ben vestiti da spettri e senza vibrato. Il vento e l’intensità del temporale impongono la dinamica e a pensare a quale direttore possa avere il genio, la capacità e la fantasia di mettere in piedi un’orchestra del genere viene sempre da pensare ad un solo nome, che solitamente si scrive con l’iniziale maiuscola.

Nessuno vorrebbe mai vedere cadere un idolo. E quando Elvis muore c’è chi non ci crede e si inventa un mondo in cui il Re è semplicemente scappato e oggi è un vecchietto che si nasconde in qualche città di collina. Anche Michael Jackson non è morto, secondo alcuni. Perché una scomparsa improvvisa è una cosa che non si può accettare, e allora continuiamo a credere in una sorta di magia che prima c’era poi tutto d’un tratto è sparita. E il mito prende il posto di un corpo in avaria dentro una cassa sepolta sotto due metri di terra. Tutto cambia se c’è un declino lento e graduale. Tutto cambia se Valentino Rossi non vince più. Il mito eterno non può vivere se lo si vede svanire, e allora la gente s’incazza. Si rivolta contro gli idoli che non sono più lontani e irraggiungibili, ma più umani, poiché anche loro sbagliano e perdono. C’è gente che non ne riconosce più la grandezza e punta loro il coltello alla gola. Valentino Rossi si deve ritirare, lo scrivono molti giornalisti sui blog sportivi. Senza badare che in realtà se si ritirasse lui lo dovrebbero fare anche tutti gli altri piloti che la domenica gli arrivano dietro.

Il fatto è che ci vuole una gran dose di coraggio e una bottiglia di rispetto completamente vuota per far cadere gli idoli. Non si ha paura di niente se non della morte, perché se c’è di mezzo lei, come con Elvis e Michael Jackson, o Marco Simoncelli, per restare in tema motociclismo, beh in quel caso allora tutti sono intoccabili. Le leggende e i miti più grandi hanno sempre a che fare con la morte, come se in assenza di essa fossimo tutti sullo stesso livello, tutti in grado di scavalcare idoli e campioni.

Poi però la gente non ci pensa che a 300 chilometri all’ora, i piloti, tutti i piloti, a quella bestia vestita di nero, nemmeno ci badano. Non ne hanno la paura che abbiamo noi altri. E sta li la loro grandezza, indipendentemente dalla classifica del mondiale e da quello che scrivono i giornali, perché è facile chiudersi in redazione e infilzare con la penna Rossi, e ancora più facile credere che Elvis sia vivo. La realtà è molto diversa. Elvis è sotto terra e Rossi fa sognare i suoi tifosi e incazzare i giornalisti.

Leggi anche il post Che fine fanno i campioni.

La domenica il bar dell’ospedale è chiuso, con il passare delle ore la sua saracinesca abbassata si impolvera di noia e attesa, e l’unico caffè caldo che si può sorbire in tutto il palazzo è quello delle macchinette che fanno odore rancido e versano la bevanda sempre troppo fredda e troppo zuccherata. La domenica mattina in giro per i reparti c’è del movimento, pochi camici colorati si scambiano turni e battute, riempiono con il loro vestiario il bianco sintetico dei corridoi, che per contrasto esalta solo le porte blu navy e qualche rifinitura di giallo ambrato, spalmato sulle pareti in cartongesso. Nel pomeriggio scende invece l’equilibrio del silenzio, che se non fosse per la luce che filtra dalle finestre sarebbe lo stesso che riempie e controlla le notti della sala d’attesa.

Le porte delle stanze sono tutte aperte ma non c’è nessuno che parla, possono passare ore e nulla si muove, nessuno fiata, potrebbe sembrare un ospedale fantasma, con i suoi neon bruciati e le tavole mancanti dei controssoffitti. I pavimenti sono ricoperti con mattonelle a scacchi, e a fissarle mentre si attraversano i corridoi ci si perde nelle asimmetrie del pensiero e nell’apatia di una struttura lenta come una montagna che diventa pianura. La notte, la domenica notte degli ospedali, di certi ospedali, s’impadronisce di un buio che non è quello del cielo, o se lo è si nasconde da qualche parte dietro alla luna e si dimentica delle costellazioni. Non è un buon posto in cui cercare stelle, se non scrutando con molta poesia le luci d’emergenza. È però un momento perfetto e un luogo surreale per inginocchiarsi e mettersi a pregare.

Il dizionario dei sinonimi e contrari è un’arma pericolosa, ricco di munizioni, idee e parole in grado si salvarci da noiose ripetizioni, ma pieno zeppo, pure, di trappole e mine nascoste tra le parole. Servono esperienza e attenzione per scovarle e per disinnescarle. È che a pensarci con un pizzico di pignoleria e di amore per significati e significanti, i sinonimi non sono mai abbastanza sinonimi. Sono finti amici. Non dobbiamo cercarli a tutti i costi, sarebbe come cercare una persona identica a noi stessi, non c’è e non ci sarà mai. Simile, magari, con certe qualità e somiglianze, può darsi, ma mai identica. Allo stesso modo, i veri sinonimi non esistono. C’è sempre una minima differenza, talvolta sottile e apparente come tra assicurare e rassicurare (che si costruiscono e si usano in modi differenti), o anche tra polpo e polipo (si pensi al significato in medicina di quest’ultimo). Non è dunque sufficiente sceglierli con cura, ma è necessario cercarne il significato e l’origine, approfittando di tutte le informazioni incastonate nel dizionario di italiano e in quello etimologico.

Tornando invece alla ricerca di un sinonimo di noi stessi, una sorta di gemello fisico e spirituale, esiste uno strumento che ci viene in soccorso, Facebook, sul quale vale sempre la stessa regola: per quanto evidenti e apparenti siano le analogie e le affinità, andando a scavare in profondità si scoprono sempre, con una precisione matematica, acute e disarmanti differenze. Viene da pensare che bisogna fidarsi molto di più dei sentimenti e delle intuizioni (della propria cultura e della propria anima) che di quelle guide che dovrebbero facilitarci il vivere e lo scrivere.