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La domenica, l'ospedale.

La domenica il bar dell’ospedale è chiuso, con il passare delle ore la sua saracinesca abbassata si impolvera di noia e attesa, e l’unico caffè caldo che si può sorbire in tutto il palazzo è quello delle macchinette che fanno odore rancido e versano la bevanda sempre troppo fredda e troppo zuccherata. La domenica mattina in giro per i reparti c’è del movimento, pochi camici colorati si scambiano turni e battute, riempiono con il loro vestiario il bianco sintetico dei corridoi, che per contrasto esalta solo le porte blu navy e qualche rifinitura di giallo ambrato, spalmato sulle pareti in cartongesso. Nel pomeriggio scende invece l’equilibrio del silenzio, che se non fosse per la luce che filtra dalle finestre sarebbe lo stesso che riempie e controlla le notti della sala d’attesa.

Le porte delle stanze sono tutte aperte ma non c’è nessuno che parla, possono passare ore e nulla si muove, nessuno fiata, potrebbe sembrare un ospedale fantasma, con i suoi neon bruciati e le tavole mancanti dei controssoffitti. I pavimenti sono ricoperti con mattonelle a scacchi, e a fissarle mentre si attraversano i corridoi ci si perde nelle asimmetrie del pensiero e nell’apatia di una struttura lenta come una montagna che diventa pianura. La notte, la domenica notte degli ospedali, di certi ospedali, s’impadronisce di un buio che non è quello del cielo, o se lo è si nasconde da qualche parte dietro alla luna e si dimentica delle costellazioni. Non è un buon posto in cui cercare stelle, se non scrutando con molta poesia le luci d’emergenza. È però un momento perfetto e un luogo surreale per inginocchiarsi e mettersi a pregare.

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