Quanto comunica WALL-E, senza parole, e senza voce. Come comunica un robot, con i gesti e le espressioni che rendono il suo design spigoloso più dolce di quello dei pelosissimi personaggi dell’Era Glaciale. Il suo segreto è fatto di movimenti, quasi impercettibili, come la messa a fuoco delle sue lenti o l’inclinazione struggente dei suoi occhi. Non ha nemmeno la bocca. Ha però le mani, due, ognuna con tre dita d’acciaio. Le tiene sempre vicine, quasi in segno di preghiera, perché quello è un gesto morbido, delicato. Le sue emozioni si concentrano tutte nei gesti e negli spostamenti, nelle vibrazioni e nell’inclinazione degli occhi e delle mani, niente di più. Poi ci sono le musiche e i suoni, alcuni di questi sono gli stessi di Robocop e Terminator, ma in un robottino come WALL-E, anche i rumori macchinosi hanno un significato diverso, uno scopo differente, una profondità nuova, e dolce.

Guardare WALL-E è come seguire un corso intensivo di comunicazione. È un film quasi privo di dialoghi, e l’assenza delle voce viene compensata dai gesti, dalla colonna sonora e dall’attenzione per ogni dettaglio, oggetto, colore, paesaggio e inquadratura. Pensare che questi accorgimenti appartengano esclusivamente al linguaggio cinematografico è sbagliato. Anche nella prosa è possibile eliminare i dialoghi in cambio di una cura maniacale per tutto ciò che accade attorno ai personaggi, attorno e addosso. Ne si può descrivere ogni piega e sfumatura, ogni gesto e mania, anche i tic, le ossessioni, le particolarità. I dialoghi lasciano così il posto al racconto meticoloso dei gesti, dei suoni e dei colori, delle ombre e dei movimenti impercettibili delle pupille, delle sopracciglia, delle labbra, delle rughe, dell’inclinazione del capo. Queste cose qui, davvero, parlano senza voce, e senza dialoghi.

È importante distinguere gli apostrofi dagli accenti, perché non sono la stessa cosa. È banale dirlo, eppure…
Capita spesso di trovare su riviste, confezioni di prodotti – qualsiasi prodotto – e talvolta anche nei titoli del telegiornale, E’ al posto di È. Questo problema appartiene solo al mondo dello stampatello ed è causato dalla mancanza di alcuni caratteri speciali in un determinato font (o, purtroppo, ad una debolezza grammaticale).
Quando appunto ci si trova a scrivere in maiuscolo e il font non mette a disposizione l’accento, si può ricorrere a qualche scappatoia di fortuna:

  • Cambiare la frase: prendendo come esempio il primo verso di questo post, lo si potrebbe riscrivere così: Bisogna distinguere gli apostrofi dagli accenti. A volte basta davvero poco.
  • Se si tratta di un manifesto, può bastare un ritocco grafico per aggiungere l’apostrofo mancante – significa che chi scriverà il testo dovrà momentaneamente scriverlo con un errore grammaticale.

Una terza ipotesi, la più drastica, che non amo particolarmente, è quella di cambiare font. È però difficile rinunciare ad un font solo perché manca di un carattere speciale. Anche se quelli più usati hanno quasi sempre tutti i caratteri necessari per scrivere, stampare e pubblicare con serenità e, soprattutto, precisione.

heaven

Perché nessuno chiese a Lazzaro notizie sull’aldilà? Tutti fecero dei gran compimenti a Gesù, meritati, d’accordo. Ma è possibile che a nessuno passò per la mente la curiosità di chiedere una qualche spiegazione? Non so, boh, sarebbe stata una bella storia da raccontare.

Come dice Massimo Birattari nel manuale È più facile scrivere bene che scrivere male, “La semplicità è un importante strumento per comunicare con efficacia”. A pagina 17 affronta subito un argomento che merita particolare attenzione: Il burocratese. A guadagnarsi un nome tanto terribile è la lingua scritta – ma anche parlata – di politici, medici, avvocati, assicuratori e banchieri, usata anche in contratti e comunicazioni di ogni tipo. È una lingua che deve essere giuridicamente inattaccabile, e proprio per questo usa parole come espletare, encomio e apporre, quando sarebbe molto più comprensibile usare termini come compiere, lode e mettere. Il linguaggio tecnico non è dunque facile da comprendere per il pubblico a cui è rivolto. Io ho enormi difficoltà a capire gli intrighi e gli intrugli dei documenti relativi al mio conto in banca, e non solo. M’è capitato pochi giorni fa di leggere questo testo su di un contratto di lavoro di un amico:

Oggetto: Comunicazione di proroga del contratto di lavoro In riferimento al contratto di lavoro a tempo determinato con decorrenza dal 29/03/2013 e scadente il 02/04/2013 con la presente Le comunichiamo che lo stesso contratto è prorogato fino al 15/05/2013 per la seguente motivazione: incremento di lavoro.

Da notare l’uso mal curato della punteggiatura: manca il punto alla fine della prima frase e almeno una virgola nella seconda. Ci sono inoltre parole poco usate nel gergo di tutti i giorni, come prorogato e decorrenza. Anche il gerundio scadente non è così facile da digerire, si potrebbe evitare. E si potrebbe riscrivere il tutto in modo più chiaro:

Oggetto: rinvio della scadenza del contratto di lavoro a tempo determinato.
Gentile sig. Mario Rossi, la informiamo che la scadenza del suo contratto di lavoro ha subìto una modifica: l’incremento di lavoro ha posticipato la data di scadenza dal 02/04/2013 al 15/05/2013.

La comprensione di quest’ultimo richiede certamente uno sforzo mentale minore rispetto al primo. Sarebbe molto più chiaro se ogni comunicazione venisse scritta con le parole di tutti i giorni e senza l’uso del burocratese, che ha il sapore di fregatura e di inganno. Purtroppo spesso si scrive anche per fregare e ingannare. E la gente ci casca.

Il malumore di settembre comincia con le giornate più corte e le ombre che si fanno subito più lunghe. Porta con sé la consapevolezza che è tardi per fare un sacco di cose. È tardi e basta. Non è un mese che scorre ma piuttosto un paesaggio fermo e deserto, un’immagine panoramica del fatto che il mondo potrebbe finire anche in questo istante. Adesso.
Settembre pare destinato a diventare un dipinto, o un romanzo, di quelli scritti proprio bene ma privi di una storia, perché un racconto può essere appassionante anche senza l’intreccio. Possiamo anche farne a meno. Purché ci siano una significativa ambientazione, una maniacale scelta dei colori, dei suoni, e tutte quelle fantasie e particolarità che rendono unico il paesaggio. Che tutti ammirano da lontano ma nessuno mai attraversa.

Il grande Gatsby - Daisy Fay

Servono poche pagine per capire che Il Grande Gatsby è un romanzo straordinario. Ben scritto, ricco di aggettivi ricercati e mai inopportuni, allo stesso tempo leggero e scorrevole. È soprattutto un romanzo di solitudine, i cui personaggi sono tutti inesorabilmente soli, affogati nei vizi e nello sfarzo di una città che pulsa di gente annoiata e trasparente. Eppure un’anima ce l’anno, Gatsby, Nick, Tom, e persino Daisy, seppur bucata e svuotata della ragione. Ed è l’anima più triste di cui abbia mai avuto il piacere di leggere.

Serve una certa padronanza del linguaggio, della penna e del cuore per scrivere una storia del genere, raccontare di una solitudine grande quanto il desiderio di non fuggirle mai per davvero. Occorre vedere la gente da alte prospettive per creare un personaggio come Jay Gatsby, talmente ambizioso da uscire in giardino, di notte, per verificare la porzione di cielo che gli spetta. Occorre vedere le storie invisibili che ogni persona si porta addosso, per raccontare il fascino di Daisy Fay, dal viso triste e bello – penso anche alla follia, riuscita, di trovare un’attrice con questo viso per la riproduzione cinematografica. Il tutto si riduce poi al silenzio del grande castello di Gatsby, immobile e impassibile, diviso da una distanza fioca dalla casa di Daisy. Il simbolo di tale lunghezza è una luce, verde, un piccolo lume, che brilla sul molo dalla parte opposta del mare tra West Egg e East Egg, una breve prossimità che è la stessa che divide ogni uomo dalla parte migliore di sé.

E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter sfuggire mai più.

Non bisogna credere ai giornali perché sono di parte.
Non bisogna credere alla TV perché non è veritiera.
Non bisogna credere a internet perché ci scrivono cani e porci.
E a chi bisogna credere?
Ai nonni.
E cosa dicono?
Che sono tutti dei bastardi.
Tutti chi?
Le persone, in generale.

Non è importante quello che crei ma quello che riesci a vedere, oltre. I mattoncini Lego sono una metafora deliziosa e pungente della vita, dell’impegno quotidiano indispensabile per costruire qualsiasi cosa. Perché è davvero difficile concludere un progetto, un lavoro, uno steccato, un libro, una ricetta, esattamente come si vorrebbe. C’è sempre qualcosa che non viene proprio perfetta, o abbastanza precisa, ma in qualche modo ci si accontenta perché, tutto sommato, va bene anche così. L’immaginazione sa come dovrebbe effettivamente apparire il risultato finale.

O meglio, il risultato finale è una cosa immaginata. E questa convinzione, che poi è anche una promessa, a me l’ha insegnata il mondo Lego. Con i suoi mattoncini e le sue costruzioni, mai complesse, che creano fac simile che il cervello poi codifica e converte in opere fantastiche. E la cosa più incredibile, dei mattoncini Lego, è che più si assemblano tra loro per costruire figure e riempire spazi, più si espande la creatività di chi ci gioca. Si può stare lì a montare muri e castelli, anche enormi, senza mai creare confini. Mai, davvero.

Immagine: campagna pubblicitaria Lego – Agenzia Pubblicitaria BRAD, Montreal, Canada