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Come dice Massimo Birattari nel manuale È più facile scrivere bene che scrivere male, “La semplicità è un importante strumento per comunicare con efficacia”. A pagina 17 affronta subito un argomento che merita particolare attenzione: Il burocratese. A guadagnarsi un nome tanto terribile è la lingua scritta – ma anche parlata – di politici, medici, avvocati, assicuratori e banchieri, usata anche in contratti e comunicazioni di ogni tipo. È una lingua che deve essere giuridicamente inattaccabile, e proprio per questo usa parole come espletare, encomio e apporre, quando sarebbe molto più comprensibile usare termini come compiere, lode e mettere. Il linguaggio tecnico non è dunque facile da comprendere per il pubblico a cui è rivolto. Io ho enormi difficoltà a capire gli intrighi e gli intrugli dei documenti relativi al mio conto in banca, e non solo. M’è capitato pochi giorni fa di leggere questo testo su di un contratto di lavoro di un amico:

Oggetto: Comunicazione di proroga del contratto di lavoro In riferimento al contratto di lavoro a tempo determinato con decorrenza dal 29/03/2013 e scadente il 02/04/2013 con la presente Le comunichiamo che lo stesso contratto è prorogato fino al 15/05/2013 per la seguente motivazione: incremento di lavoro.

Da notare l’uso mal curato della punteggiatura: manca il punto alla fine della prima frase e almeno una virgola nella seconda. Ci sono inoltre parole poco usate nel gergo di tutti i giorni, come prorogato e decorrenza. Anche il gerundio scadente non è così facile da digerire, si potrebbe evitare. E si potrebbe riscrivere il tutto in modo più chiaro:

Oggetto: rinvio della scadenza del contratto di lavoro a tempo determinato.
Gentile sig. Mario Rossi, la informiamo che la scadenza del suo contratto di lavoro ha subìto una modifica: l’incremento di lavoro ha posticipato la data di scadenza dal 02/04/2013 al 15/05/2013.

La comprensione di quest’ultimo richiede certamente uno sforzo mentale minore rispetto al primo. Sarebbe molto più chiaro se ogni comunicazione venisse scritta con le parole di tutti i giorni e senza l’uso del burocratese, che ha il sapore di fregatura e di inganno. Purtroppo spesso si scrive anche per fregare e ingannare. E la gente ci casca.

Il grande Gatsby - Daisy Fay

Servono poche pagine per capire che Il Grande Gatsby è un romanzo straordinario. Ben scritto, ricco di aggettivi ricercati e mai inopportuni, allo stesso tempo leggero e scorrevole. È soprattutto un romanzo di solitudine, i cui personaggi sono tutti inesorabilmente soli, affogati nei vizi e nello sfarzo di una città che pulsa di gente annoiata e trasparente. Eppure un’anima ce l’anno, Gatsby, Nick, Tom, e persino Daisy, seppur bucata e svuotata della ragione. Ed è l’anima più triste di cui abbia mai avuto il piacere di leggere.

Serve una certa padronanza del linguaggio, della penna e del cuore per scrivere una storia del genere, raccontare di una solitudine grande quanto il desiderio di non fuggirle mai per davvero. Occorre vedere la gente da alte prospettive per creare un personaggio come Jay Gatsby, talmente ambizioso da uscire in giardino, di notte, per verificare la porzione di cielo che gli spetta. Occorre vedere le storie invisibili che ogni persona si porta addosso, per raccontare il fascino di Daisy Fay, dal viso triste e bello – penso anche alla follia, riuscita, di trovare un’attrice con questo viso per la riproduzione cinematografica. Il tutto si riduce poi al silenzio del grande castello di Gatsby, immobile e impassibile, diviso da una distanza fioca dalla casa di Daisy. Il simbolo di tale lunghezza è una luce, verde, un piccolo lume, che brilla sul molo dalla parte opposta del mare tra West Egg e East Egg, una breve prossimità che è la stessa che divide ogni uomo dalla parte migliore di sé.

E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter sfuggire mai più.

Non è importante quello che crei ma quello che riesci a vedere, oltre. I mattoncini Lego sono una metafora deliziosa e pungente della vita, dell’impegno quotidiano indispensabile per costruire qualsiasi cosa. Perché è davvero difficile concludere un progetto, un lavoro, uno steccato, un libro, una ricetta, esattamente come si vorrebbe. C’è sempre qualcosa che non viene proprio perfetta, o abbastanza precisa, ma in qualche modo ci si accontenta perché, tutto sommato, va bene anche così. L’immaginazione sa come dovrebbe effettivamente apparire il risultato finale.

O meglio, il risultato finale è una cosa immaginata. E questa convinzione, che poi è anche una promessa, a me l’ha insegnata il mondo Lego. Con i suoi mattoncini e le sue costruzioni, mai complesse, che creano fac simile che il cervello poi codifica e converte in opere fantastiche. E la cosa più incredibile, dei mattoncini Lego, è che più si assemblano tra loro per costruire figure e riempire spazi, più si espande la creatività di chi ci gioca. Si può stare lì a montare muri e castelli, anche enormi, senza mai creare confini. Mai, davvero.

Immagine: campagna pubblicitaria Lego – Agenzia Pubblicitaria BRAD, Montreal, Canada

Ci sono parenti che incontri solo ai funerali. Quelli, sono i mezzi parenti. Con loro si parla poco e sempre delle stesse cose. Della vita, del tempo che passa, il lavoro, da quant’è che non ci si vede, e i figli. Si fa un breve riassunto di tutto quello che è accaduto tra un funerale e l’altro, insomma. Li si incontra anche ai matrimoni, ogni tanto, ma accade che in qualche modo riescono persino a non presentarsi, talvolta anche per merito degli inviti di nozze che precisano “È gradita la presenza” ma lasciano intendere, tra le righe, “È più gradita la non presenza”. Eppure esistono e respirano, occupano spazi e riempiono silenzi, ma della loro esistenza nulla interessa, nemmeno il legame di sangue, che nella maggior parte dei casi è solo una questione genealogica. I mezzi parenti valgono poco più di semplici conoscenti, sicuramente meno di un qualsiasi amico del bar. E non è sempre così. È anche una questione geografica, e quindi culturale. In alcuni posti basta la parentela anche alla lontana, magari lontanissima, per festeggiare ogni incontro. In altri, invece, si cerca di mantenere una certa distanza di sicurezza. Non si sa bene perché, c’è solo una volontà di delineare per bene i propri territori e di affezionarsi solo a certi amici e certi i parenti, non i mezzi parenti, o i mezzi amici, che grossomodo sono la stessa identica cosa.

Immagine di Marco Morosini 

Non è che mi piaccia proprio tutto della notte. Si, ha il suo fascino, senza dubbio. C’ha le stelle, e quelle appaiono solo nel buio, e la Luna, anche se lei ogni tanto fa capolino pure di giorno, credo per colpa del sole che la illumina in qualche modo. No, non è di quel modo lì che scrivo, ma piuttosto di ciò che della notte detesto. Perché nel suo palinsesto fatto di neon accesi, lucciole che si fingono lanterne e cosce nude sulle strade, trasforma quanto di più raffinato in orrore. Le farfalle, ad esempio, le farfalle notturne mi fanno quasi schifo, sono farfalle ma senza colore, e quando volano fanno un gran baccano, approfittano dei silenzi notturni, che fanno quasi paura, sia le farfalle che i silenzi. Il loro sforbiciare d’ali mi fa temere che anche gli angeli, di notte, debbano fare un gran casino quando si librano il volo. Gli angeli volano alti ma il loro ricordo precipita come una pioggia di piombo, e tingono di catrame e oscurità ogni tentativo di fuga e di abbandono. Ecco il nero, e le ali delle farfalle. E le stelle lontane apparire.

Se c’è un buio peggiore di questo, dietro la Luna o anni luce in là, oltre una direzione che non ha nulla a che fare con l’orizzonte, non saprei, ma il sospetto pulsa nel vuoto apparente che separa il mare e il cielo alle undici di sera, una paura o una volontà oscura che si nascondono dove finiscono i bagliori. Se c’è un buio peggiore non lo so ma amo la notte, quasi da impazzire, che mi illude che le stelle cadenti siano davvero stelle e non polveri incendiarie. Del fuoco invece ho davvero paura, che tutto illumina e tutto brucia, senza badare a cosa porta via e quali strade invece illumina, tutto incendia tranne il mare, che in fin dei conti è una di quelle certezze che assieme alla notte mantiene un certo equilibrio, una dignità e una sicurezza che l’orizzonte non può infrangere – poiché è tutto dello stesso colore.

Fuori c’è un temporale così musicale che ho spento Spotify e alzato il volume del cielo. È un concerto di tuoni e pioggia che precipita e sbatte sui tetti e sul cemento, con le gocce più gravi che scolano dalle grondaie e quelle acute che non incontrano nulla nel loro cadere sino al momento esatto in cui si schiantano sull’asfalto, e in quell’istante – perché di un attimo appena si tratta – eseguono la loro nota. Una sola nota prima di esplodere e tramutarsi in corsi d’acqua e pozzanghere su cui altre gocce compongono accompagnamenti sofisticati. Ci sono i fiati e ci sono gli archi, gli ottoni e i cantanti, tuoni e scoppi dentro agli stomachi delle nuvole color piombo, tutti ben vestiti da spettri e senza vibrato. Il vento e l’intensità del temporale impongono la dinamica e a pensare a quale direttore possa avere il genio, la capacità e la fantasia di mettere in piedi un’orchestra del genere viene sempre da pensare ad un solo nome, che solitamente si scrive con l’iniziale maiuscola.

La domenica il bar dell’ospedale è chiuso, con il passare delle ore la sua saracinesca abbassata si impolvera di noia e attesa, e l’unico caffè caldo che si può sorbire in tutto il palazzo è quello delle macchinette che fanno odore rancido e versano la bevanda sempre troppo fredda e troppo zuccherata. La domenica mattina in giro per i reparti c’è del movimento, pochi camici colorati si scambiano turni e battute, riempiono con il loro vestiario il bianco sintetico dei corridoi, che per contrasto esalta solo le porte blu navy e qualche rifinitura di giallo ambrato, spalmato sulle pareti in cartongesso. Nel pomeriggio scende invece l’equilibrio del silenzio, che se non fosse per la luce che filtra dalle finestre sarebbe lo stesso che riempie e controlla le notti della sala d’attesa.

Le porte delle stanze sono tutte aperte ma non c’è nessuno che parla, possono passare ore e nulla si muove, nessuno fiata, potrebbe sembrare un ospedale fantasma, con i suoi neon bruciati e le tavole mancanti dei controssoffitti. I pavimenti sono ricoperti con mattonelle a scacchi, e a fissarle mentre si attraversano i corridoi ci si perde nelle asimmetrie del pensiero e nell’apatia di una struttura lenta come una montagna che diventa pianura. La notte, la domenica notte degli ospedali, di certi ospedali, s’impadronisce di un buio che non è quello del cielo, o se lo è si nasconde da qualche parte dietro alla luna e si dimentica delle costellazioni. Non è un buon posto in cui cercare stelle, se non scrutando con molta poesia le luci d’emergenza. È però un momento perfetto e un luogo surreale per inginocchiarsi e mettersi a pregare.