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A guardare troppo dentro te stesso finisce che ci caschi dentro. E uscirne non è mica così semplice. Sei da solo. Talmente solo che non ci sei nemmeno tu a farti compagnia. Nemmeno la tua anima. Stanne pur certo. E se è per cercare l’anima che sei precipitato in quel pasticcio, beh allora, mettiti pure il cuore in pace, che ci vorrà molto tempo prima di capirci qualcosa in tutto quel buio.

Appunto scritto spiando le luci di Firenze dal Ponte Vecchio

Ci sono mondi lontani e nascosti che si raggiungono solo ascoltando certe canzoni. Se c’è una rotta non è sicuramente segnata su di una mappa. E se anche esistesse non sarebbe fatta di carta ma di suoni, di note, accordi e melodie. Di un certo fare magico della musica. Suonare. Una mappa che non si legge ma si ascolta. A meno che uno riesca a leggere gli spartiti ed immaginarsi la musica dentro la testa. Dentro. Chi non è capace a farlo può ascoltare Fields of Gold di Sting, e ritrovarsi in un mondo pieno di campi dorati, un luogo lontano e nascosto, quasi dimenticato da tutto il resto della vita.

heaven

Perché nessuno chiese a Lazzaro notizie sull’aldilà? Tutti fecero dei gran compimenti a Gesù, meritati, d’accordo. Ma è possibile che a nessuno passò per la mente la curiosità di chiedere una qualche spiegazione? Non so, boh, sarebbe stata una bella storia da raccontare.

Il malumore di settembre comincia con le giornate più corte e le ombre che si fanno subito più lunghe. Porta con sé la consapevolezza che è tardi per fare un sacco di cose. È tardi e basta. Non è un mese che scorre ma piuttosto un paesaggio fermo e deserto, un’immagine panoramica del fatto che il mondo potrebbe finire anche in questo istante. Adesso.
Settembre pare destinato a diventare un dipinto, o un romanzo, di quelli scritti proprio bene ma privi di una storia, perché un racconto può essere appassionante anche senza l’intreccio. Possiamo anche farne a meno. Purché ci siano una significativa ambientazione, una maniacale scelta dei colori, dei suoni, e tutte quelle fantasie e particolarità che rendono unico il paesaggio. Che tutti ammirano da lontano ma nessuno mai attraversa.

Il grande Gatsby - Daisy Fay

Servono poche pagine per capire che Il Grande Gatsby è un romanzo straordinario. Ben scritto, ricco di aggettivi ricercati e mai inopportuni, allo stesso tempo leggero e scorrevole. È soprattutto un romanzo di solitudine, i cui personaggi sono tutti inesorabilmente soli, affogati nei vizi e nello sfarzo di una città che pulsa di gente annoiata e trasparente. Eppure un’anima ce l’anno, Gatsby, Nick, Tom, e persino Daisy, seppur bucata e svuotata della ragione. Ed è l’anima più triste di cui abbia mai avuto il piacere di leggere.

Serve una certa padronanza del linguaggio, della penna e del cuore per scrivere una storia del genere, raccontare di una solitudine grande quanto il desiderio di non fuggirle mai per davvero. Occorre vedere la gente da alte prospettive per creare un personaggio come Jay Gatsby, talmente ambizioso da uscire in giardino, di notte, per verificare la porzione di cielo che gli spetta. Occorre vedere le storie invisibili che ogni persona si porta addosso, per raccontare il fascino di Daisy Fay, dal viso triste e bello – penso anche alla follia, riuscita, di trovare un’attrice con questo viso per la riproduzione cinematografica. Il tutto si riduce poi al silenzio del grande castello di Gatsby, immobile e impassibile, diviso da una distanza fioca dalla casa di Daisy. Il simbolo di tale lunghezza è una luce, verde, un piccolo lume, che brilla sul molo dalla parte opposta del mare tra West Egg e East Egg, una breve prossimità che è la stessa che divide ogni uomo dalla parte migliore di sé.

E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter sfuggire mai più.

Non è importante quello che crei ma quello che riesci a vedere, oltre. I mattoncini Lego sono una metafora deliziosa e pungente della vita, dell’impegno quotidiano indispensabile per costruire qualsiasi cosa. Perché è davvero difficile concludere un progetto, un lavoro, uno steccato, un libro, una ricetta, esattamente come si vorrebbe. C’è sempre qualcosa che non viene proprio perfetta, o abbastanza precisa, ma in qualche modo ci si accontenta perché, tutto sommato, va bene anche così. L’immaginazione sa come dovrebbe effettivamente apparire il risultato finale.

O meglio, il risultato finale è una cosa immaginata. E questa convinzione, che poi è anche una promessa, a me l’ha insegnata il mondo Lego. Con i suoi mattoncini e le sue costruzioni, mai complesse, che creano fac simile che il cervello poi codifica e converte in opere fantastiche. E la cosa più incredibile, dei mattoncini Lego, è che più si assemblano tra loro per costruire figure e riempire spazi, più si espande la creatività di chi ci gioca. Si può stare lì a montare muri e castelli, anche enormi, senza mai creare confini. Mai, davvero.

Immagine: campagna pubblicitaria Lego – Agenzia Pubblicitaria BRAD, Montreal, Canada

Non è che mi piaccia proprio tutto della notte. Si, ha il suo fascino, senza dubbio. C’ha le stelle, e quelle appaiono solo nel buio, e la Luna, anche se lei ogni tanto fa capolino pure di giorno, credo per colpa del sole che la illumina in qualche modo. No, non è di quel modo lì che scrivo, ma piuttosto di ciò che della notte detesto. Perché nel suo palinsesto fatto di neon accesi, lucciole che si fingono lanterne e cosce nude sulle strade, trasforma quanto di più raffinato in orrore. Le farfalle, ad esempio, le farfalle notturne mi fanno quasi schifo, sono farfalle ma senza colore, e quando volano fanno un gran baccano, approfittano dei silenzi notturni, che fanno quasi paura, sia le farfalle che i silenzi. Il loro sforbiciare d’ali mi fa temere che anche gli angeli, di notte, debbano fare un gran casino quando si librano il volo. Gli angeli volano alti ma il loro ricordo precipita come una pioggia di piombo, e tingono di catrame e oscurità ogni tentativo di fuga e di abbandono. Ecco il nero, e le ali delle farfalle. E le stelle lontane apparire.

Se c’è un buio peggiore di questo, dietro la Luna o anni luce in là, oltre una direzione che non ha nulla a che fare con l’orizzonte, non saprei, ma il sospetto pulsa nel vuoto apparente che separa il mare e il cielo alle undici di sera, una paura o una volontà oscura che si nascondono dove finiscono i bagliori. Se c’è un buio peggiore non lo so ma amo la notte, quasi da impazzire, che mi illude che le stelle cadenti siano davvero stelle e non polveri incendiarie. Del fuoco invece ho davvero paura, che tutto illumina e tutto brucia, senza badare a cosa porta via e quali strade invece illumina, tutto incendia tranne il mare, che in fin dei conti è una di quelle certezze che assieme alla notte mantiene un certo equilibrio, una dignità e una sicurezza che l’orizzonte non può infrangere – poiché è tutto dello stesso colore.