Più di una totale devozione al proprio lavoro, René voleva capirne il senso, andare oltre il gesto del fare, del portare a termine ogni mansione, lui voleva capire cosa accadeva dopo. René aveva ereditato l’impresa funebre che da mezzo secolo apparteneva alla sua famiglia e lavorato sodo per nove anni, sino a quando, in un pomeriggio color zinco e piombo passato a dare colpi di martello ai gomiti di un cadavere – un uomo di 84 anni morto congelato sotto mezzo metro di neve – si chiese se in un qualche strano modo, strano ma perché no possibile, l’anima di quel vecchio potesse essersi congelata assieme al busto ed essere rimasta li, fredda ed immobile, in attesa di scongelarsi e scivolare via, da qualche parte, non so dove.

Si chiese questo, appoggiando l’orecchio sul torace dell’uomo, se l’anima fosse ancora lì dentro. Con qualche colpetto di martello alle costole faceva vibrare la cassa toracica, e dopo ogni colpo si metteva ad ascoltare, in silenzio, cercando di capire se qualcosa davvero si muoveva. Gli aprì anche la bocca, un paio di volte, e mentre si impegnava a trattenere il respiro per risparmiarsi l’alito fetido del morto, gli parve, per un attimo solo e uno soltanto, di percepire qualcosa, un soffio di aria calda uscire da quella bocca e attraversargli il viso, come una carezza trasparente e senza forma. Si convinse che quella sensazione doveva essere, certamente, l’anima che abbandona questo mondo.

Iniziò così ad ascoltare e studiare, osservare e ammirare tutti i cadaveri che gli venivano commissionati. Mentre li vestiva e ne univa le mani in segno di eterna preghiera, si soffermava su qualche singolo dettaglio che – riteneva – gli indicasse la via dell’anima. Ma non capitavano spesso corpi ibernati, erano ben più frequenti quelli freddi e stecchiti, quelli morti e basta, e in quei corpi lì, l’anima se n’era già andata da un pezzo. Iniziò così a visitare segretamente gli ospedali, camuffandosi da medico in una solitudine che solo lui poteva capire, e si avvicinava, di notte, ai corpi dei malati terminali, li annusava e li ascoltava, stando attento a scovare la fuga dell’anima nel momento della morte. Li guardava morire e nel preciso istante in cui si spegnevano zompava sul letto come un folle maniaco – muto – che gridava solo nei pensieri “dove sei, dove sei, dove cazzo sei!”.

René passò la vita a cercare l’anima degli altri, perché credeva che scovando quel macabro rifugio in cui si nascondeva sarebbe riuscito, forse un giorno, a trattenere la sua, o a dirottarne la rotta verso uno di quei posti che aveva visto una volta sola nella vita, una volta soltanto e se ne era innamorato, senza più tornarci, in quei posti lì, mai più.

Tratto da Lara Loire ©

Con l’ultima giornata di campionato di Seria A 2012 finisce quella parte di calcio che mi piace, quello che ho conosciuto da ragazzino e di cui mi sono innamorato: il calcio della vecchia guardia.

Non capisco il calcio di oggi, fatto di giocatori tatuati e capricciosi, di club quotati in borsa gestiti (anche) da imprenditori cinesi e ricconi del petrolio. Questo calcio qui io proprio non lo capisco, e quella parte di me che credeva ancora nelle giocate di Del Piero, nelle rapine di Inzaghi, nelle bombe di Batistuta e nelle giocate di Baggio, è svanita. Svaniti loro, i giocatori della vecchia guardia, di cui rimane in attività solo Totti, non ho più alcuno stimolo, proprio nessuno, per seguire le partite.

Da milanista sono contento di vedere Del Piero alzare la coppa nell’ultimo suo anno di attività, perché il mio modo di tifare è fatto paradossalmente così. E sono felice di vedere Inzaghi segnare nella sua ultima partita con la maglia del diavolo. Sono contento anche di smettere di seguire il calcio, tutto quel mondo che non capisco più, che non mi piace più. Saranno i capricci di Balotelli, o le battute di Mourinho, il carattere di Ibrahimovic, non saprei con precisione, ma queste cose qui non fanno per me.

Non fa per me il campionato in mezzo alla settimana, al sabato pomeriggio, al sabato sera, all’ora di pranzo della domenica, al pomeriggio della domenica, all’ora dell’aperitivo di domenica, la domenica sera, all’ora di merenda il venerdì. Il campionato diluito in ogni momento della settimana, è troppo per me. Non fa per me un calcio che tiene Del Piero in panchina. Concordo con Alessandro Baricco quando, riferendosi a Roberto Baggio, dice  che

quando uno sport, per un sacco di ragioni, si rigira in un modo per cui diventa sensato non far scendere in campo il suo punto più alto, allora qualcosa è successo. […] Nella tristezza dei numeri 10 in panca, il calcio racconta una mutazione apparentemente suicida (I Barbari, Feltrinelli, 2006).

Con l’ultima giornata di campionato di Seria A 2012, quello sport che conoscevo io lascia il posto ad una nuova generazione di giocatori e di società che, per me, sono troppo. Non sono peggio o meglio, non fanno per me, e basta. Magari da ragazzino non riuscivo a vedere bene quello che c’era intorno, perciò mi piaceva. Ora vedo ogni orizzonte, e quello che vedo non mi piace. Non ho nemmeno voglia capire, o tentare di farlo. Forse non c’è nulla da capire. Neanche leggendo tra le righe, o tra le linee dell’area di rigore.

Ho letto quasi tutti i libri di Cormac McCarthy, quasi. E per tre volte mi è capitato di pensare, appena un attimo dopo aver letto l’ultimo capoverso, qualcosa come “non ho mai letto nulla di così intenso, e bello”. O qualcosa del genere. L’ho pensato dopo aver terminato Non è un Paese per Vecchi, La Strada e ora, di nuovo, al termine di Cavalli Selvaggi (Einaudi, 1996). Sarà per la pulizia del testo, lo spogliarsi delle dense descrizioni che hanno caratterizzato altri scritti di McCarthy, o anche per l’affluenza delle solite frasi straordinarie che svelano segreti della vita, della sua, che vorresti avere anche tu, ma son segreti, e non saranno mai tuoi. O miei. La cosa che più mi ha colpito è la raffinata descrizione di un amore nella sua essenza più primitiva e nella sua durezza più feroce. Senza tanti giri di parole, o metafore, l’autore crea un desiderio immenso senza smielare la narrazione.

Le giurò che se gli avesse affidato la vita non l’avrebbe mai tradita né abbandonata e l’avrebbe amata fino alla morte e lei disse che gli credeva. […] Loro tirarono le tende, fecero l’amore e dormirono abbracciati. Si svegliarono all’imbrunire. Lei uscì dalla doccia avvolta in un asciugamano, si sedette sul letto, gli prese la mano e lo guardò. Non posso fare quello che mi chiedi, gli disse. Vorrei. Ma non posso. Lui percepì chiaramente che quel momento era l’esito di tutta la vita e che dopo non c’era più nulla.

E che dopo non c’era più nulla. In questa frase c’è il senso dell’amore, l’ampiezza, la portata nella vita di un uomo. Qualcosa che riempie ogni senso. E ognuno capisce benissimo di cosa sta parlando. Senza descrizioni, senza colori, e forme, o piani, ogni lettore capisce perfettamente – perfettamente – questo senso di vuoto, l’orizzonte opposto della felicità. Con la stessa durezza Cormac affronta un instancabile legame fra l’uomo e la natura, fra l’uomo e il male, e Dio.

Pensò che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile, che la sofferenza e la bellezza del mondo crescevano di pari passo, ma in direzioni opposte, e che forse quella forbice vertiginosa esigeva il sangue di molta gente per la grazia di un semplice fiore.

C’è un viaggio a cavallo, con due protagonisti, una donna – Alejandra, con i suoi occhi che possono in un batter di cuore sconvolgere il mondo -, c’è un grande silenzio, e la speranza di un mondo migliore che, di solito, non arriva. Ci sono quelle cose che non cambieranno mai, e tanta sofferenza, in ogni sua forma, misura e dimensione. Non mancano gli spari, e il sangue, le questioni d’onore, e ancora attesa, un treno che arriva e se ne va portandosi via qualcosa di profondo che ha a che fare con l’anima.

In quelle sere che non so dove sbattere la testa, e i pensieri aprono un varco nel cranio e scappano come mosche, nel buio di una stanza senza lampadine accese. In quelle sere, che non c’è musica che giustifica il mio malumore, non c’è voce che solleva le preoccupazioni, o un testo nel quale mi riconosco, in quelle sere così, mi sono innamorato di LeAnn Rimes. In quelle sere, perché non è una sola, ma un susseguirsi di bui che collegano la notte al mattino, il sonno non mi è amico, e la musica sembra non essere più il giusto sedativo, la terapia perfetta, in quelle mille notti così, la voce di LeAnn mi ha toccato il cuore. La voce e il suo mood, il groove, il tono, e il suono, e il vibrato, e anche le pause, i silenzi. Non è questione di rime o versi particolarmente poetici, è un suono, un atteggiamento nell’affrontare certe note, e concedere loro la giusta importanza. Come calibrare il giusto suono per ogni nota, e far sentire anche il respiro, il respiro prima di cantare.

Non te ne accorgi in una notte sola di queste cose, puoi ascoltare cento volte consecutive lo stesso disco ma non lo capisci davvero finché non lo sorbisci a gocce lente, dense, e distanti. Distanti notti intere, sere disperate in cui tutta la musica di cui hai memoria non pronuncia i suoni giusti – i suoni. E non c’è una voce migliore di altre, penso che ognuno abbia la sua, e la mia, quella che mi salva, è di LeAnn Rimes. È un rendere giustizia ad ogni nota di una canzone, di un disco, di un momento preciso della vita, che poi sono la stessa identica cosa.

Ascoltare per impregnarmi del suo gusto, il carattere, l’intonazione e l’intensità, come guardarla negli occhi restando ad occhi chiusi, sfiorare con la mia paura il suo dono, come se fosse l’unica salvezza dell’anima, nelle notti senza neon e lampadine, senza i colori, se non quelli della voce di LeAnn Rimes. Quella voce racconta non quello che voglio sentire, ma quanto di più intenso io riesca ad assorbire dal tramonto e dalla nostalgia, che poi sono, effettivamente, la stessa identica cosa.

A volte l’ispirazione non arriva. Di solito accade, cioè non accade, proprio quando ce n’è più bisogno. Non arriva. E allora tocca andarsela a prendere. Ovviamente non c’è qualcuno che ti dice dove andarla a cacciare, devi trovarla e basta. E questa cosa o la capisci o non la capisci, non c’è molto da aggiungere. È come scavare una fossa nel terreno e infilarci il cervello a stagionare. Scavare in profondità, e scendere giù, scendere giù a raccogliere qualcosa che non hai mai visto ma sai che quando la troverai la saprai riconoscere, e sarà come se ti fosse appartenuta da tutto il tempo di una vita.

Come i sogni, che ti appartengono e basta. Anche se sono difficili da ricordare. Ma hanno vita lunga, i sogni, capita che ne fai uno da bambino e dopo vent’anni ancora non te ne sei liberato. Sono cicatrici della memoria, non nella pelle ma nella mente, ma come quelle in superficie, nella carne, te le ricordi finché campi. E da lì non ci scappi. Le cicatrici hanno lo strano potere di ricordarci che il passato è reale*, e i sogni mostrano quei dettagli che ti appartengono solo nel buio, e non li troverai più, mai più. Cercarli è come scavare una fossa nel terreno e infilarci l’anima a stagionare. Scavare in profondità, e scendere giù, scendere giù a raccogliere qualcosa che hai visto in sogno e vorresti riconoscerla nella realtà. Poi se non la riconosci, devi andartela a cercare nella luce e nel buio, e non c’è nessuno che ti dice verso quale orizzonte guardare. E questa cosa o la capisci o non la capisci, non c’è altro da aggiungere.

*cit. Cavalli Selvaggi, Cormac McCarthy

I marciapiedi sembrano campi minati, la gente li attraversa guardando a terra per evitare di pestarla, come se ci fosse merda dappertutto. Sembra una metafora pessimista del presente. Per fortuna, il problema non sono le cacche, ma gli smartphone. Precisamente,  l’iPhone. Quelli che camminano a testa bassa, lo fanno o perché stanno attenti alle mine o perché hanno gli occhi incollati sull’iPhone. Prima di comprarlo ero il primo a criticare i passanti armati del telefono Apple. E adesso cammino a testa bassa pure io, o magari con la fotocamera puntata sulla città, pronto a colpirla dal suo interno e riempire i social network con scatti e fotogrammi.

Il mondo gira dentro alle fotografie, photo sharing, si trasforma in una lunga passeggiata in tutti i viali e tutti i mari, i porti e parchi naturali, i laghi e le cascate. Il mondo corre in questo campo da gioco, le persone sparano, lo colpiscono, bucano forano ma non lo feriscono, ne strappano zolle e ne mostrano ogni segreto, photo-sharing. E tutti i posti bellissimi sono visibili a tutti, e magari son meno belli perché già visti, o più ricercati, dipende dai punti di vista. La vista, con gli occhi verso orizzonti reali. Reali, niente schermi e niente trucchi, senza filtri, e l’unico sharing è quello del vento che condivide ogni profumo dei posti che attraversa. Il vento, e la vista, e l’odore. A sforzarsi si riesce a sentire anche il gusto.

Ed ecco allora la vera differenza tra le due cose, tra il vento e lo schermo. Perché c’è gente che gira il mondo, a testa bassa o con l’iPhone puntato, gira il mondo e colpisce ogni suo segreto, ogni posto e paese, gente che attraversa le magie di Londra e New York ma poi si perde nei sentieri della propria anima.

Foto scattata, ovviamente, con l’iPhone.

Quasi un elogio allo scrivere, alla comodità e all’eleganza del gesto. Per scrivere in modo più veloce, e comodo, e pure pulito, dimenticando tutte le problematiche del farlo a mano, come i crampi e le macchie di inchiostro sulla pelle (i mancini occidentali sono condannati a catastrofi con l’inchiostro). Per agevolare ogni aspetto di questo antico gesto, scrivere, nel 1864 Christopher Sholes brevettò lo schema QWERTY. Il solo parlare di brevetto conferma un certo genio. Grazie allo schema QWERTY le mani si distribuiscono ordinatamente sulla tastiera, le dita non si scontrano mai, i movimenti diventano particolarmente ergonomici e si ottiene un equilibrio tale che mentre un dito schiaccia un tasto, un altro dito nel frattempo si prepara all’azione. Destri o mancini non fa differenza.

Sholes deve aver visto incepparsi migliaia di volte i merletti della sua prima macchina per scrivere, deve avere intuito che nell’ordine alfabetico in cui erano distribuite le lettere sulla tastiera c’era qualcosa che non andava. Lui era un inventore, un altro nome bellissimo, inventore. Insomma lui si mise a studiare i movimenti delle dita di entrambe le mani e la frequenza con cui le lettere si ripetono nelle parole più usate – ci sono infatti lettere che si usano più di altre, quindi meglio separarle, secondo lui. Ecco dunque che il suo ordine inizia con la Q e termina con la M, distribuendosi in 3 righe.

Un elogio allo scrivere

Poi c’è questa faccenda dell’orientamento sulla tastiera, quelle due linee in rilievo sui tasti della F e della J che rendono possibile il cominciare a scrivere senza abbassare gli occhi sulla tastiera. Con gli indici vado alla ricerca dei due rilievi, poi inizio a scrivere e non sbaglio mai, dico, mai! È incredibile. Sholes deve avere immaginato una persona che appoggia le mani sui tasti e inizia a scrivere senza guardare. Deve avere immaginato le lettere precise, e i movimenti perfetti delle mani e delle dita.

Fino a poche ore fa non capivo il motivo di quelle due lineette in rilievo, e perché poi proprio sulla F e sulla J. Davo per scontato che il mio lavoro e la mia passione, che si realizzano nel trascorrere la maggior parte del mio tempo con le mani sulla tastiera, hanno a che fare con un certo genio. Un brevetto favoloso e ordinato.
Quasi un elogio allo scrivere, il brevetto di Christopher Sholes, inventore.

Immagine di Marco Morosini

Al mattino il sole picchia forte e feroce contro l’ingresso del Circolo Kappa. Entra con arroganza dalla porta spalancata e inietta un abbaglio lungo e costante all’interno di tutta la sala, illuminando la polvere negli angoli e sotto il frigorifero della Coca Cola. Illuminando i tavoli stretti e storti e sgangherati. Illuminando l’intero bancone di marmo su cui ogni giorno ci appoggiano i gomiti e la noia le stesse persone, sempre le stesse. Illuminando gli sgabelli, pesanti quasi come un uomo, in equilibrio su quattro aste di ferro su cui si posa dolcemente, elegantemente, quasi fosse una gru, un cuscino di cuoio rosso. Bordeaux.

Tutta quella luce del mattino svela difetti e particolarità invisibili di pomeriggio, e di sera. Tutta quella luce arriva sino alla porta della sala biliardi, senza superarla, mai. Perché la porta è sempre chiusa. Chiudere sempre la porta è infatti il quinto comandamento della sala biliardi. Nemmeno il sole ci deve entrare, li dentro. Tutta quella luce entra con una violenza tale che non si riesce a vedere fuori, non si vede nulla, ti entra tutta dritta negli occhi, e al massimo, quello che si riesce a notare, sono le sagome delle persone che passano, avanti e indietro, indietro e avanti, e qualcuno che entra, ogni tanto.
Una mattina entrò Lara Loire.

Antonio appoggiava i gomiti annoiati al bancone e Franco gli dava le spalle, concentrato sulla schiuma del cappuccino. Morelli sfogliava il giornale in piedi con il culo appoggiato allo sgabello. C’era anche Massimo il gioielliere, tutto tremolante, che se ne stava seduto e sudato accanto al libraio, almeno da mezz’ora, e almeno da mezz’ora non aveva pronunciato parola, indeciso sul da farsi, o piuttosto, concentrato a fissare le mani del barista che modellavano il latte. Michele non era andato a scuola, e stava scegliendo lo stuzzicadenti per disegnare Mr. Hyde. Gli anziani se ne stavano comodamente condannati sulla vecchiaia e saldamente ancorati ai tavoli stretti, storti e dannatamente sgangherati del Circolo Kappa. Nella sala biliardi qualcuno giocava, e Pedro stava a guardare, in silenzio, abbozzando qualche schizzo di tanto in tanto.
Una mattina così, di noia e di sole, entrò Lara Loire.

Le bastarono un paio di passi per superare il varco di luce – tutta quella luce – e prendere colore. Scarpette da tennis e gonnellina di jeans. Maglietta bianca, una giacchettina stretta stretta di jeans della stessa tonalità della gonna, un ciondolo al collo, un qualcosa di simile ad un delfino, nessuno se ne accorse con precisione – tranne Michele – e quando giorni dopo ne parlarono, un anziano disse che era una specie di delfino – Michele non fiatò. I capelli color grano, raccolti dietro alla nuca con un mollettone azzurro, e azzurri erano gli occhi, a dir di Antonio, anche se a Franco parvero viola, a Morelli grigi, Massimo vide del verde, un anziano suggerì color primavera – di sera, e accontentò tutti. Reggeva una borsetta viola con entrambe le mani, dietro la schiena, come le scolarette. Le labbra carnose, quasi troppo. Tutti videro ogni suo dettaglio svelarsi nell’oscurità del bar, tutti quei dettagli scappati all’abbaglio del sole, di tutta quella luce che diventa, ad un certo punto, oscurità.

Tratto da Lara Loire © Davide Bertozzi