Per scrivere un post di 140 caratteri bisogna trovare 140 caratteri perfetti che insieme raccontano una storia breve ridotta all’essenziale.

Ridurre una storia all’essenziale significa sgrassarla da tutte quelle finezze lessicali che creano uno stile e danno un ritmo alla lettura.

Spaziature e punteggiatura sono caratteri. In questa frase ci sono nove spazi e un punto. Quindi vanno dosati sia i caratteri che le parole.

I più bravi, possono provare ad aggiungere virgole, punti e punti e virgola; basta fare attenzione a non farcire eccessivamente un concetto.

Poi c’è la delicata questione dei link, delle immagini e degli hashtag, che riducono parecchio il numero di caratteri a nostra disposizione.

Per ogni hashtag bisogna inserire un cancelletto, con il segno #, e quest’azione ruba un carattere. Troppi hashtag sono graficamente brutti.

La differenza tra Twitter e Facebook è la stessa che c’è tra Led Zeppelin e Deep Purple: tutta questione di stile, eleganza ed egocentrismo.

Quanto puoi spingerti lontano e quanto puoi cercare qualcosa che nemmeno sai cos’è. Senza conoscerne forma e dimensione, colore e odore, con il rischio di farti fregare dalla geometria delle ombre e delle nuvole. Non è una domanda. Quanto puoi spingerti oltre il confine, in paesaggi e inverni lunghi e senz’anima, privi anche di case, e di anime, incontrando solo cani e persone che della vita si son stupiti per la sua fatalità, la crudeltà che si manifesta in gesti raccapriccianti e parole di terrore. Quanto puoi spingerti lontano da solo con un cavallo senza ferri e senza alcuna voglia di portarti a spasso oltre il confine, oltre il confine, oltre il confine. Quello che cerchi è una terra fantasma, non c’è, non c’è, ma sei convinto possa nascondersi in quelle casette di adobe in cui nessuno ci abita più. In cui ci sono cani così soli che cercano pulci per compagnia. Non c’è, non c’è. Ad ogni chilometro aumentano le possibilità di essere ammazzato da proiettili che arrivano da lontano, come urla, canti di zingari. Come le parole. Le parole che per essere semplici da comprendere devono essere raccontate con lo prosa di qualcuno che torna da un lungo viaggio. Da lontano.

Si stava scatenando un temporale verso sud, lì dove la strada finiva nel deserto e tutto intorno, sotto le nuvole, prevaleva un colore blu e le sottili strisce dei lampi che si susseguivano con insistenza, sulle montagne in lontananza, di un colore blu vivo, scoppiavano nel silenzio più assoluto, come un temporale in una campana di vetro.

Oltre il Confine, Cormarc McCarthy, Einaudi editore.

Dopo aver visto Philadelphia mi sono incantato a guardare tutti i titoli di coda. Colpa di Bruce Springsteen o della paura di alzarmi dalla sedia. Quasi paura di cadere. Una vertigine.

Non è vero che il caffè nel vetro è più buono. Non è vero un accidente. Ci sono clienti che me lo chiedono nel bicchiere di plastica, quello da asporto, perché lo ritengono più igienico. Come se io non lavassi bene le altre tazzine. Altri clienti non lo vogliono nel vetro, dicono che le tazzine di vetro si usano meno e quindi si lavano di rado, e c’hanno la polvere dentro, quindi preferiscono la ceramica. È un modo carino per dirmi che non pulisco mai le mie tazzine. Per fortuna alcuni non badano a questa faccenda. Purché il caffè sia buono, dicono. E il mio caffè lo è di sicuro. Poi però lo allungano con il latte. Che porcheria. Caldo o freddo, talvolta tiepido. Roba da matti. Alto, basso, corto, ristretto, un solo goccino, non troppo caldo, bollente, mi raccomando non freddo, con la tazzina bollente, corretto con rum, amaro, whiskey, crema di whiskey, anice, apice, pedice, doppio, tazza piccola, tazza grande, doppio in tazza piccola, doppio in tazza grande, normale in tazza grande, macchiato freddo, macchiato caldo, macchiato con cremina, macchiato perché nessuno è mai contento per davvero.

Quindi io lo servo solo nel vetro e della quantità che ritengo giusta. Per principio. Perché nella sua trasparenza riesco a vedere il colore del caffè, lo spessore della schiuma in superficie, fattori a cui tengo particolarmente. Non è vero un cazzo che è più buono. Lo vedo. Capisci? Lo vedo per quello che è.  

Questo dilemma del caffè è un’ironica similitudine della vita. C’è gente che la corregge con tutto ciò che gli appare sensato, che la riempie con altre cose che non hanno un cazzo a che fare con il vivere. Gente a cui non basta una vita soltanto e se la corregge con stili e atteggiamenti altrui. Come correggere il caffè. Non so se mi spiego. Persone che ce l’hanno servita nella plastica, quella bella vita da asporto, chissà dove se la devono portare. Servita nella ceramica, una vita di cui non ne si capisce un cazzo fino al momento in cui la si sorbisce per davvero, e ne si capisce il sapore solo un attimo prima che sia tutto finito, pochi istanti prima che si spengano le luci dei bar. Servita nel vetro è un’altra cosa. Ne si vede ogni attimo, la densità, lo scorrere del tempo, gli errori e le ipocrisie, le cose belle e quelle né belle né brutte che accadono e basta per il semplice fatto che devono accadere. E nel vetro la vita si manifesta effettivamente per quello che è. Nient’altro per quello che effettivamente è.

Franco il caffè lo serve solo nel vetro, in tazzine senza manico. A forma cilindrica, con il cerchio della base più stretto della bocca su cui si appoggiano le labbra, somigliano ad un tamponamento tra un cono ed un cilindro, trasparenti. L’istinto porta a sollevarle sempre con due o tre dita, il pollice, l’indice e talvolta il medio, come per ogni altra tazzina con il manico. Il caffè di Franco, bollente, scalda la superficie di vetro, e non tutti i clienti apprezzano particolarmente trattenere con due dita un oggetto rovente. Perché il vetro reagisce in un modo più accogliente al calore, rispetto alla fredda stitichezza della ceramica. Il caffè, al Circolo Kappa, si beve solo in questo modo.

Lara Loire rimase qualche istante a fissare la tazzina di vetro senza manico. Tutti fissavano Lara Loire senza sapere nulla di lei. Nessuno parlava, solo il rumore del mondo fuori che entrava attutito dal varco della porta, spalancata, verso l’interno. Nessuno parlava e nessuno parlò. Tutti gli uomini presenti al Circolo Kappa guardarono il modo, il gesto, di posare la borsetta viola sullo sgabello a lei più vicino, e le sue mani, piene di dettagli invisibili, che modellavano l’aria innalzandosi verso la tazzina. Lara Loire sollevò la tazzina con otto dita. Otto. Lasciò liberi i mignoli, un po’ per dolcezza, un po’ per inutilità, con otto dita accompagnò la tazzina di vetro sino alla bocca. Chiuse gli occhi mentre le prime lacrime di caffè le scivolavano sulla lingua, scaldando prima la gola poi l’anima. Quando riaprì gli occhi la tazzina era ancora imprigionata tra le sue dita senza smalto e le sue labbra senza rossetto. Silenzio. Lara Loire appoggiò la tazzina con le sue otto dita sul vetro e i due mignoli che scodinzolavano nell’aria come le gambe dei bambini seduti sugli sgabelli, troppo alti, di un bar. Richiuse gli occhi, come per concentrarsi, fece un lungo respiro e li riaprì pieni di luce e bagliori. Sorrise, con un sorriso che non si può raccontare, gli occhi quasi lucidi, come se una lacrima, una sola, li avesse inumiditi quel tanto che basta per rafforzare luci e riflessi, e la bocca, stretta e carnosa, chiusa con gli spigoli d’incontro tra il labbro inferiore e quello superiore alzati verso l’arco, che disegnano un piccolo arco, uno spicchio di luna, sul viso. Il sorriso di Lara Loire.

Piena di una felicità nuova, lei non smise di tenere sotto tiro lo sguardo del barista mentre gli diceva non so se è per via del vetro, ma non credo, ma questo caffè risveglia una cosa, ogni cosa, del corpo, come dire.
Grazie, lo so.
Ah beh, modesto.
No, nel senso, io il caffè lo faccio buono, e basta, non c’è molto da aggiungere,  diversamente non lo so fare.
Ah d’accordo.
D’accordo.
Non le è mai venuto un caffè cattivo?
No.
Mai?
Forse il primo, il primo in assoluto, e magari il secondo.
E basta?
E basta.
E basta.

Gli spacciatori di parole vendono frasi fatte e testi scontati a prezzi convenienti, frasi sporche come siringhe multiuso. Sono spacciatori che non sanno nascondersi bene, dietro ogni pagina c’è l’ombra del proprio ego e della rassegnazione che spunta di poche battute dalle righe. Con virgole e punteggiature affilate si difendono dagli attacchi dei clienti migliori, quelli che si sparano in vena dosi affilate di parole di contrabbando, bodycopy pieni di menzogne, slogan accattivanti e personaggi ben riusciti. Gli spacciatori di parole sono quasi fantasmi, mai abbastanza trasparenti e mai troppo silenziosi, scrivono di giorno storie urbane con grafia elegante e grammatica puntigliosa, descrivono di notte un mucchio di situazioni assurde e complicate che rilegano con maniacale cura in una cartella segreta del proprio computer. Archiviano bozzano e impastano appunti su Moleskine con scritto, in copertina, gettami nel fuoco. Si nascondono dietro falsi nomi, copywriter, ghost writer, web writer, addirittura scrittori creativi. Ma gli spacciatori sono sempre spacciatori, qualsiasi abito indossino, qualsiasi nome scelgano per camuffarsi. Ma come già detto, non sono bravi a nascondersi. Non sono nemmeno bravi a scrivere se non quando, di tanto in tanto, decidono di farlo sul serio, senza soldi scambiati in uffici grotteschi ma solo con l’ambizione, l’ambizione, di scrivere una frase e una soltanto, che indica la direzione verso la loro anima e al contempo la distanza, una lunghezza di stili e paragrafi, dal punto esatto in cui si trovano e l’orizzonte della letteratura. Quella priva di link e grassetti.

ifridge e ifridge mini

Con i nuovi frigoriferi Apple puoi fare la spesa quotidiana direttamente dall’App Store. Compri insalata e prosciutto direttamente dal tuo iFridge o anche da iPhone e iPad con l’app iKitchen. Nelle due diverse dimensioni, che compensano ogni realtà culinaria, iFridge e iFridge mini tengono in fresco tutti i cibi che scarichi, e rendono l’esperienza del fare la spesa più veloce e meno noiosa.

I nuovi frigoriferi Apple fanno dimenticare i carrelli del supermercato, le pesanti casse d’acqua, le buste ecologiche che si sfondano continuamente, i parcheggi impossibili e le code alla cassa. Tramite connessione Wi-Fi scarichi tutto quello che ti serve, l’App Store è già ricco di prodotti dei più importanti brand alimentari.

L’illuminazione LED all’interno permette una facile visione di ogni comparto, anche dei cassetti più piccoli e del congelatore iFreeze, limitando il consumo elettrico. Con l’upgrade del nuovo sistema operativo Kitchen Lion, già disponibile per tutti i dispositivi Apple, puoi insegnare al tuo iFridge a preparare la colazione, con yogurt, una fetta di pane con marmellata o Nutella ed un frutto fresco ogni mattina.

Alla sera imposti la colazione che desideri e al tuo risveglio è già pronta, con pane già tagliato, Nutella già spalmata e mela morsicata.

Si scrive tè, tea o thé?

Ho voglia di tè. Che in italiano si scrive tè. Solo tè. Ma sono accettate anche le forme tea, all’inglese, e thé, alla francese. È sempre tè. Assolutamente vietate le forme creative thea e té, che si scoprono su molti menù e manifesti pubblicitari. Io scrivo sempre e solo tè.
Non mi importa dei francesi e degli inglesi, che poi questi ci aggiungono persino il latte. Latte e tè, nel tè inglese, o english tea. Vietato scrivere english thé, che sennò s’incazza la gente di Parigi e s’offende quella di Londra. Bere un thé inglese è come bere da una tazzina vuota.

In questa faccenda del tè ci imbattiamo tutti, prima o poi.

O meglio, ci imbrattiamo di combinazioni pazzesche che spesso finiscono persino sulle lattine o sulle bottigliette. C’è anche una scritta sul muro, nascosta tra le pareti di un quartiere. Un cuore nero e accanto in stampatello HO VOGLIA DI TÈ, MARTA. E non capisco se Marta abbia voglia di una tazza di tè, o se qualcuno abbia voglia di questa Marta e per colpa di un accento di troppo abbia confuso la sua amata con la bevanda orientale, o se ancora, sia proprio questa Marta, poverina, ad avere voglia di qualcuno.

Non ne si capisce niente. In ogni caso è la voglia di qualcosa o qualcuno che conta. E che fa nascere storie assurde. Colpa degli accenti e dei significa(n)ti. Colpa del vedere storie pazzesche anche solo leggendo una frase scritta sul muro, o mescolando lo zucchero in una tazzina di tè. Una tazzina vuota di english thea.