I passi di Lara Loire superano con spensierata poesia la vetrina della Libreria Copperfield, e i suoi occhi blu di Persia leggono il singolare biglietto incollato sull’uscio, dall’interno.

La libreria è aperta dalle 9.00 alle 12.00, e dalle 16:00 alle 20:00, tranne la domenica. Tuttavia spesso a casa mi annoio, e potreste trovarmi anche durante la pausa pranzo o ad un’ora imprecisa e assurda della notte. Se trovate chiuso e avete urgenza di leggere, voglia di leggere, necessità di entrare in una storia, rileggettevi un libro che amate e cercate quelle sfumature che alle prime due letture, a volte anche tre, sfuggono. È un piacere sublime.

Sotto, appiccicato con lo scoatch, un altro biglietto evidenzia il fatto che quella mattina il libraio s’è alzato di buon ora e, dopo aver aspettato invano l’alba sulla spiaggia, oscurata tristemente dal cielo grigio, si è recato in libreria alle sette del mattino, per rileggere, forse per la quarantesima volta, il finale di “Il Ritratto di Dorian Gray”.

Di solito dormo benissimo, senza problemi, non ho sonni disturbati. Capitano però quelle mattine che, d’improvviso, mi sveglio con una voglia di uscire fuori di casa e andare a caccia di qualcosa di insolito. Come l’alba. Questa mattina avevo voglia di vedere l’alba. Così mi sono vestito in fretta e senza fare colazione mi sono incamminato verso il porto. Con andatura veloce. Erano le 5, più o meno. E l’alba non s’è fatta vedere. L’alba, che è la prima cosa che accade durante il giorno, era nascosta da nuvoloni scuri che coprivano il cielo, dico proprio tutto. E ho pensato che un cielo che ti priva di vedere l’alba non può che essere il cielo di una giornata stronza. E allora sono venuto qui in libreria, a rileggere per la quarantesima volta il finale di uno dei miei romanzi preferiti: “Il ritratto di Dorian Gray”. Se stai leggendo questo messaggio è perché sono a fare colazione al Circolo Kappa, voltati a sinistra e metti a fuoco di circa cento metri, dall’altro lato della strada però. Ecco, la vedi l’insegna?

“Non so quante ne ho amate, non so quante ne ho avute, per colpa o per destino le penne le ho perdute”.

Le Bic blu. A centinaia, così tante che potrei definirmi un endorser, ma le penne non me le hanno mai regalete, e nemmeno le parole. Costano così poco, le Bic, costano ancora meno ma valgono molto di più, i versi e le frasi. Quante ne ho usate. Finite e sfinite, mangiucchiate, rosicchiate e rotte, perse, prestate dimenticate lanciate e regalate. Quanto inchiostro, a fiumi, densi e scuri, di color blu navy. Le penne rosse o verdi non mi sono mai piaciute, nemmeno per correggere. Quelle nere poi, le detesto, ci vedo una tristezza in quel loro graffiare e tingere di un nero che non è mai nero per davvero, tende certamente ad un lucido fumo di Londra, e non dà vigore e colore, per definizione, al testo.

Anche se ho smesso di scrivere a mano dopo l’ultimo esame universitario, e se ci riprovo dopo pochi minuti i tendini cominciano a incazzarsi, l’appuntare e l’abbozzare non smettono mai di riempire manciate di minuti in ogni mia giornata. Come se dovesse pur sempre rimanere un tratto analogico in ogni gesto del quotidiano. Che per me è gesto di nobile piacere, di lavoro, e di passatempo. La velocità che raggiungo con la tastiera del computer, la comodità dei tasti morbidi e il rumore dei polpastrelli che colpiscono i martelletti gommati raggiungono perfezioni che la mia Bic blu nemmeno si sogna. Eppure rimane sempre lì nel mio portapenne, assieme a gomma e matita, che hanno lo stesso compito della Bic, perché io non disegno, non sono proprio capace, ma a volte quello che scrivo e attraverso con la penna capita che lo eseguo con la HB 2.

E ora non sto a parlare di grafite e durezza, ma solo di un’instancabile e continua permanenza della mia Bic blu, a cui devo qualche riga di omaggio, perché più di una volta mi ha salvato, dall’impazzire, dallo scrivere di fretta, dal gettare parole istintive e da tutti quegli errori che si commettono per non badare mai al fatto che compiere certi gesti con calma ci aiuta a respirare. Ossigenare. Quando parlo non riesco a misurare, dosare e contenere le parole, proprio come quando scrivo al computer. Ma se uso la penna blu, quella Bic fedele e sincera inforcata a testa in giù nel portapenne, solo allora, evito di esplodere, com’è già accaduto, assieme a tutte le lettere e le frasi compresse nella mia testa, ben legate da una miccia che conduce al centro della sfera, centro di gravità fatto di tritolo e disperazione, quasi follia, che se esplode non c’è speranza, ma solo assenza ed una lunghissima rincorsa a raccogliere tutte le lettere sfuggite via. Ricomporle secondo il giusto ordine. E quando tutto torna al suo posto, è sempre troppo tardi.

(Non me ne voglia Francesco Guccini per lo scempio che ho commesso)

Le risposte che cerchiamo, quelle introspettive, lontane anni luce dalla nostra conoscenza e dalla sapienza di Google e Wikipedia, devono pur essere nascoste da qualche parte. Diamo loro la caccia per tutta la vita e alla fine capita che qualcuno le trova, o crede di averle scovate, o arraffa qualche patacca, risposte false di poco conto che si spacciano come preziose, a volte assolute.

Sono come ufo, che appaiano e scompaiono, ne vengono avvistate a migliaia poi va a finire che è solo un gran lavoro meccanico dell’immaginazione. Ne abbiamo così bisogno che le crediamo presenti in ogni casualità della vita, in ogni situazione e avvistamento, nelle parole della gente, nei baci e nelle promesse, nei pugni e nel precipitare giù da un dirupo o dentro la propria anima.

Sono voci che provengono da lontano e non ne scopriamo mai l’esatta direzione, né è suggerita una precisa posizione da cui è consigliabile osservare. Qualcuno cerca in mare, in fondo al mare, così a fondo che ancora una volta diventa tutto un lungo precipitare. E laggiù in fondo ad ogni cosa stai tranquillo che non c’è nulla, proprio niente, se non il nero, che per definizione è la mancanza di colore. Ma in tale affermazione il sostantivo che ha davvero importanza non è colore bensì assenza. Perché è di questa che siamo tutti gravemente malati.

Chiusa una porta si apre un portone. Ma serve una grande immaginazione per vederlo. O almeno un’indicazione verso dove cercarlo, il portone. Perché non si trova precisamente li davanti a te, o di fianco o di dietro. Si nasconde da qualche parte che non t’aspetti. In un qualche posto che di solito è abbastanza lontano da non sentirne il suono né percepirne l’odore o il rumore o pure il colore. E c’è sempre la nebbia di mezzo. Sempre presente tra gli occhi e l’orizzonte, quasi a proteggere ogni possibilità di trovare qualcosa di migliore. Trovare qualcosa come una risposta. Basterebbe quella. O magari un gesto. Un segno. Anche cose piccolissime.

Votare è un dovere, un diritto. E tutto quello che ne consegue è effettivamente qualcosa di importante che ha più o meno a che fare con il volere, e il potere. Votare è in alcuni casi il gesto che da il senso alla giornata degli uomini soli. Di certi uomini soli. Che seduti sulla poltrona davanti alla tv un po’ spenta un po’ accesa controllano lo scorrere del tempo con il palinsesto televisivo e i programmi che si susseguono e rincorrono, ma mai si raggiungono e mai s’incontrano, passano uno alla volta e mai assieme, in una triste e buffa solitudine.

Certi uomini soli nel giorno delle elezioni indossano l’abito migliore, scelgono persino il cappello più adatto per l’occasione, solitamente dalla trama scura e tenebrosa, che nasconde dietro al velluto buio gli occhi e lo sguardo. Stringono forte tra le mani la scheda elettorale, la leggono e la rileggano, cercando di ricordare ogni data timbrata al suo interno. Cercando di rianimare un flashback di tutti quei giorni così simili e lontani. E pensare a quel singolo momento in cui si trovano ora, a come sia stato possibile arrivare sino a li, e superare tutto quel dolore e quella fatica, quel sudore e quei tormenti, le voci e gli avvenimenti, uno per volta in fila e a ripetizione, come i programmi televisivi. Votare è l’unico impegno della giornata, e in quell’azione c’è un certo orgoglio e una certa importanza di un singolo gesto, e tutto il resto, poi, conta ben poco.

Nell’incertezza politica si leggono i programmi elettorali e i sondaggi.
Nell’incertezza sul da farsi si leggono gli oroscopi, le notizie dei giornali e i numeri della lotteria.
Nell’incertezza del lavoro si leggono annunci e offerte con speranza e disperazione, voglia, bisogno o ambizione.
Nell’incertezza del tempo si legge il cielo, i suoi colori e le direzioni dei venti, la quantità e la densità delle nuvole, la loro trama che tende o alla panna o al piombo.
Nell’incertezza dell’orario si leggono gli orologi con o senza lancette, i tabelloni alla fermata dell’autobus, le targhette sulle porte dei negozi.

Nell’incertezza su quanto si conosce e quanto non si conosce della vita si cerca di leggere tra le righe, anche quando non c’è davvero niente da leggere, quando non ci sono nemmeno le righe, e le linee, ma solo imponenti discorsi di una certa poesia ed elevazione, e tutto quello che c’è da capire non si nasconde affatto.

Nell’incertezza di ogni giorno si leggono segnali stradali, messaggi pubblicitari e grandi manifesti, si cercano parole di consolazione a domande sempre differenti che alla fine hanno tutte a che fare con il motivo per cui ci troviamo in un posto e spostiamo in un altro.
Si leggono ovunque notizie, orari, segni, preghiere, immagini, paesaggi, situazioni di ogni genere, si codificano apparenze e casualità, distanze e mancanze, così tanto, così a lungo, che capita con incessante severità di non leggere più dentro sé stessi.

Michele guardava la luce affievolirsi, la fissava mentre cambiava colore e filtrava con sempre meno tenacia dalla porta d’ingresso del Circolo Kappa. Sembrava avere una sorta di conto in sospeso con le ombre delle tazzine sul bancone. Non le perdeva di vista un secondo, studiando l’allungarsi delle ombre e quel loro impazzire come fiamme di teatrale oscurità ogni volta che qualcuno passava davanti all’ingresso e faceva da scudo ai raggi di sole. Ombre come fiamme impazzite. Sempre più lunghe, e fredde, fievoli. Se ne stava buono lì anche parecchi minuti nella stessa posizione con lo sguardo fisso su qualcosa che solo lui conosceva. Fermo lì e vai a capire cosa gli passava per la mente. Di tanto in tanto perdeva la concentrazione, e sbadigliava, controllava che il delfino appeso al collo di Lara Loire fosse sempre al suo posto e lo replicava a memoria nella mente. E pensava alla forma della sua ombra se si fosse trovato sul bancone accanto alle tazzine. All’ombra di un delfino, che s’allunga fino a gettarsi via dalla superficie del banco e scivolare via da qualche altra parte. Come tuffarsi nel pavimento, mare di ogni ombra.

Anche i colori non hanno senso e intensità, non bastano più e non servono con un cielo di perla sopra l’erba e sopra l’inverno. È un pretesto per restare al freddo, è una scusa per congelarsi e non congedarsi da ciò che vorremmo ibernato tra l’erba umida di nebbia e madida di noia. È solo un cielo color perla, che rende il mondo più freddo e più fermo, guardato attraverso un filtro più demoniaco dell’oscurità. Perché non c’è mattino e non c’è sera sotto il cielo perlato, le ore disperse in una miscela di lancette oliate, solo la notte è reale, quando è buio per davvero e non si ha paura. Nessuna paura perché ci si barrica in casa con la tv accesa. Ma di giorno si sta come cani senza guinzaglio fuori dal recinto. Fuggiti e fermi, immobili, tra la nebbia e le colline, con una zampa alzata, e piegata, a tenersela vicina al cuore, come a sentire se batte ancora e quanto, per la paura e gli orrori degli inverni, freddi lunghissimi e interminabili, che attraversano le ossa e i polmoni, fracassano muscoli e tendini per trovarsi faccia a faccia con l’anima. E cosa si raccontano non lo saprei dire, e nessuno ne parla mai, o nessun altro mai è tornato dall’aldilà per raccontarci, raccontarmi, di come sopravvivono le stagioni.