Circa un anno fa ho comprato un taccuino Moleskine in versione limitata: riportava Batman in copertina, una tentazione alla quale non ho saputo resistere. Tra i tanti supereroi, Batman è uno dei miei preferiti, secondo solo a Clark Kent. Se un anno fa, nell’eCommerce Moleskine Shop ci fosse stato il taccuino di Superman avrei certamente preferito quello, ma all’epoca il negozio offriva solamente l’edizione con l’uomo pipistrello. Non ho esitato a farla mia.

La pagina web dedicata al prodotto è ancora online e il taccuino è tutt’ora in vendita (cosa che mi fa pensare che non sia poi una limited edition, ma vabbè), in essa si trova un testo scritto da un copywriter a me sconosciuto ma che ha il massimo della mia stima:

“La leggenda continua: Batman, l’eroe urbano, è approdato sulla copertina del taccuino Moleskine. L’illustrazione del paesaggio urbano di Gotham stampata sul risguardo, gli adesivi a tema e i quattro diversi design tra cui scegliere, sono la tua chiave di accesso per Gotham City”.

Complimenti al copywriter, davvero. Non so che darei per poter scrivere di supereroi e battaglie del bene contro il male, di ambientazioni e simbologie del mondo DC Comics e altre cose che riguardano persone con i superpoteri.

Ma comunque, non è questo il punto. Il fatto è che il taccuino che ho acquistato contiene otto adesivi raffiguranti le più celebri versioni del logo dell’uomo pipistrello. Ora, in gergo volgare, più che volgare, li chiamo “adesivi di Batman”, come ho scritto nel titolo, rendendomi perfettamente conto della grossolanità e dell’imprecisione della mia scrittura, la quale afferma che, letteralmente, tali adesivi sono di proprietà di Batman. So che non è particolarmente corretto, tuttavia preferisco chiamarli così, “adesivi di Batman”, come d’altronde fa anche Peter Griffin nella celebre frase

“Lois, questo non è il mio bicchiere di Batman”.

Ma il punto non è nemmeno questo. Sto continuando a dilungarmi e la colpa è l’infinito piacere che trovo nello scrivere. Scusate, è più forte di me. Arrivo al punto, ora. Questi adesivi sono davvero stupendi, li amo tantissimo. E quando li ho avuti tra le mani per la prima volta ho pensato che avrei potuto utilizzarli in tantissimi modi, appiccicarli in posti non convenzionali, su oggetti meravigliosi, appropriati o, a mio avviso, perfettamente idonei per accogliere il logo di Batman.

Dopo un anno esatto sono ancora tutti qui sulla mia scrivania in attesa di essere usati. Il problema, purtroppo per loro, riguarda me: non sono mai riuscito a decidere dove incollarli.

Pazzesco, otto adesivi, e niente, ogni volta che trovavo un posto in cui attaccarne almeno uno, boh, qualcosa mi fermava, una sorta di imperativo severo. Ricordo di essere stato vicinissimo dall’appiccicarne uno sopra un biglietto di carta, da inserire successivamente nello spazio dedicato al foglietto dell’assicurazione dell’auto, quello incollato nella parte interna del parabrezza. Così dall’esterno si sarebbe visto il logo di Batman.

L’idea mi sembrava fantastica, o almeno lo era per me che amo rendere “super” ogni cosa di mia proprietà. Tuttavia c’era qualcosa di non corretto. La mia Golf grigia, anzi, tungsten silver, non ha nulla di simile alla celebre Batmobile, che è nera e decisamente “aggressiva”. Avessi avuto un’auto a due posti, nera e con l’assetto ribassato, la cosa si sarebbe potuta fare. Ma no, l’adesivo di Batman sulla mia auto non era adatto.

Così, tanto per togliermi lo sfizio di personalizzare quello spazio sul parabrezza, ci ho inserito il marchio di Superman. Lui non guida auto ma vola, e la mia Golf di certo non levita, però capitemi, dovevo pure inserire qualcosa in quello squarcio così “vuoto”. Capite quanto sia importante per me la questione?

Superman

Ma non sono un supereroe

A distanza di un anno ho ancora otto adesivi raffiguranti otto versioni del logo di Batman. E questo dimostra quanto le mie indecisioni tengano a freno la creatività e la voglia di fare, personalizzare, raccontare e, soprattutto, comunicare.

Cose banali, come questi dannati adesivi, talmente belli da non volerli mai appiccicare per la paura di pentirmene e di non poterli più recuperare, svelano un lato troppo timoroso della mia personalità. Una terribile insicurezza di sbagliare.

Se penso a quante situazioni simili ho bruciato e quante occasioni ho perso per la paura di compiere un gesto che, con le dovute distanze, non è poi così differente dall’attaccare (e quindi allontanare da me) un adesivo, se penso alla follia di cercare un luogo perfetto senza trovarlo mai, e all’assurdità che tutto ciò è una metafora della vita, capisco quanto le piccole scelte siano in realtà una copia in scala della mia anima. Di come sono. E chi sono.

In tutto questo, la cosa davvero bellissima è il trovarmi qui a scrivere, con la Moleskine piena di appunti e gli adesivi ancora immacolati sulla scrivania. Non so ancora se ne appiccicherò mai uno, ma so per certo che continuerò a scrivere sempre, per il semplice gusto di rapire storie e riflessioni anche da oggetti qualunque, come un taccuino, oggetto bellissimo e dal nome nostalgico e musicale, che serve a nient’altro che questo: appuntare, scrivere e disegnare storie invisibili.

Taccuino. Leggilo a voce alta, assapora il fascino della sua pronuncia. Non è una parola bellissima?

naming - copywriter

Non si tratta di trovare un nome, ma di trovare il nome. Trovare, o inventare, purché sia perfetto, musicale, memorabile, originale e corretto. Persino figo, che non guasta. Annamaria Testa, una delle più grandi copywriter italiane in attività, direbbe che

un nome deve distinguere, esprimere l’essenza, raccontare, far desiderare. Deve anche essere facile da pronunciare e avere un buon suono, dev’essere semplice da memorizzare, sufficientemente diverso dai nomi dei concorrenti e abbastanza affine ai codici propri della merceologia.

Il nome di un’azienda ha dunque una grande responsabilità. Certo, può venire in mente anche per caso, o per culo, ma la fortuna non aiuta mai con la frequenza che vorremmo. Che vorrei. Servono quindi metodo, pazienza e competenza. Passione e voglia di scrivere, cancellare, riscrivere e pronunciare mille volte a voce alta i nomi creati.

Naming: come nasce il nome di un’azienda

Prima di chiamarsi Growup, l’azienda non era niente. Nemmeno esisteva. Era in realtà sparsa negli appunti e nelle idee del suo creatore. Era poco più di un’idea, seppur precisa: una grande cooperativa di imprese che operano nel settore edile e che sono disposte a noleggiare le proprie macchine professionali come gru, camion e macchine di movimento terra. Un gruppo di attività che hanno in comune l’obiettivo di crescere ed aumentare il fatturato, i servizi offerti e la quantità di aziende associate.

Analizzando l’idea e gli obiettivi del progetto ho subito pensato che il nome doveva esattamente evidenziare l’immaginario di “insieme di imprese” e l’intenzione di espandersi. Il fatto che operasse prevalentemente nel settore edile non era fondamentale, non inizialmente, perché il nome di un’azienda non deve per forza esprimere ciò che l’azienda fa. Pensiamo ad esempio a Apple: mica vende frutta.

Da qui ho iniziato un lungo brainstorming nel quale ho appuntato qualsiasi parola mi venisse in mente, iniziando da quelle in lingua italiana, come gruppo, insieme, crescita, edilizia, edile, gru, sollevare, noleggiare, cantiere; successivamente ne ho aggiunte altre in inglese, come edil, garage, feral, building, rent, service, reef, level e tantissime altre.

naming brainstorming

Poi le ho mischiate, fuse, cancellate, riscritte in modi differenti (al contrario, senza una lettera, cambiando una consonante) e, dopo un centinaio di tentativi, mi sono trovato, tra le tante bozze, il verbo to grow up (crescere). Mi piaceva. In una prima modifica l’ho trasformato in Gru-Up, prendendo così “in prestito” una delle macchine più conosciute nel settore edile.
Ero vicino all’idea ma non era ancora quella giusta, perché nella cooperativa sarebbero state presenti aziende che non operano esclusivamente nell’edilizia o che non hanno nulla a che fare con le gru. Serviva dunque un nome migliore, più identificativo e, in un certo senso, elegante.

Sono tornato al verbo to grow up. L’ho scritto in diversi modi, sempre a mano, trovando nella versione con tutte le lettere attaccate, qualcosa di stranamente utile: togrowup.

Ho tolto to, per leggere growup, semplice, breve, scorrevole. C’era qualcosa che funzionava ma non l’avevo ancora capita. Così l’ho scritto in stampatello: GROWUP.

Ancora niente. Ho aumentato l’interlinea tra le lettere:
G   R   O   W   U   P.
Quest’ultima versione l’ho lasciata riposare una notte, per darle il tempo di maturare e respirare, proprio come quando si apre in anticipo una bottiglia di vino.

Il giorno dopo l’ho riletta a mente fresca e ne ho cavato una lettera. Tolta, così, per il gusto di rubarla. Ho sequestrato la W. Restava GROUP. Cavolo, gruppo. Ho così capito che omettendo e ripristinando quella lettera si poteva cambiare il senso della parola, che variava da growup a group, da crescere a gruppo, che sono, come dicevo, due delle parole chiave che riassumono l’intento della cooperativa: far crescere il gruppo.

naming lettering design

Ho così capito che Growup era il mio nome: breve, facile da ricordare e da pronunciare. Ho subito intravisto la quasi totale impossibilità di leggerlo o pronunciarlo in modo errato.

Logo design: l’importanza del lettering

Scelto il nome, ho deciso che sarebbe spettato al logo il compito di far vedere il gioco delle due parole, di far leggere sia Growup che Group. Anche in questo caso torno al concetto che

un logo non deve per forza mostrare quello che un’azienda fa – David Airey.

Ho ragionato sulla creazione di una icona, ma ho preferito concentrarmi sul solo lettering, sul far vedere attraverso le parole. È iniziato dunque un lungo processo di ricerca del font, conclusosi con la scelta di Josefin Sans per la sua geometria e la particolarità della lettera W, che ha un vezzo grafico che la “differenzia” dalle altre lettere, aiutando così la doppia lettura.

logo design - font

Per enfatizzare la doppia lettura ho usato i colori: nero e arancione (quest’ultimo molto in uso nel settore edile). Leggendo la parola completa si legge Growup, leggendo solo lettere in nero si legge, invece, Group.

Et voilà, naming e logo.

naming and logo design

Località Barbischio - Gaiole in Chianti - Toscana

A luglio non ho scritto nemmeno una parola su questo blog. Nemmeno una frase. Ci ho provato senza riuscire, dando la colpa alla mancanza di ispirazione, alla mancanza di tempo e alla frenesia di questi giorni. Solo adesso ho realizzato che nessuno di questi era colpevole, solo adesso lo so, ma l’ho capito solamente dopo essermi imbattuto in una particolare forma di meraviglia.

Durante la mia vita ho visto grandi metropoli e luoghi naturali che non riuscirò mai a dimenticare, ho avuto la fortuna di viaggiare e assaggiare prelibatezze che dalle mie parti non vengono nemmeno menzionate, ma non avevo ma visto, toccato e attraversato un borgo medievale di 21 abitanti.

Località Barbischio - Gaiole in Chianti

21 abitanti, 13 cani e 4 gatti, questo è il censimento più recente di Barbischio, un microscopico borgo nascosto tra le colline toscane del Chianti. Una manciata di casette in pietra, un ristorante, un piccolissimo cimitero. E basta. Ettari di verde e vigneti a non finire lo isolano dal resto del mondo. Dal resto di qualsiasi altra cosa che avevo già visto prima.

Ancora fatico a comprendere davvero come dev’essere vivere lì.

Siamo soliti lamentarci che il posto in cui abitiamo ci sta stretto, che siamo stanchi di incontrare sempre le stesse facce e fare le stesse cose, e anche che abbiamo voglia di visitare luoghi diversi, conoscere gente nuova, e provare a spostare qualche tassello della nostra vita. Penso allora ai 21 abitanti di Barbischio, si lamentano di queste cose? Hanno voglia di cambiare?

Località Barbischio, Gaiole in Chianti, Toscana

Ci sono arrivato cercando un ristorante tra i tanti presenti in quelle zone. Sinceramente non ricordo perché abbia scelto proprio Il Papavero, è poetico pensare che ci sia arrivato per caso, ed è anche una mezza verità. L’osteria è l’unica vera possibilità che possa condurci in questo borgo di sole cinque o sei casette – nessun’anima in giro per i viottoli e un silenzio di quelli che fanno bene al cuore.

Osteria il Papavero - Chianti - Toscana

I gestori del ristorante raccontano con passione storie legate al territorio e ai prodotti gastronomici, concentrandosi sulle particolarità del vino locale e sul motivo della presenza di alcuni quadri appesi all’interno del locale. Sono opere di Franco Innocenti, pittore ironico e dannatamente creativo, ancora in attività e disposto, a loro dire, a ricevere curiosi e passanti per parlare di arte, pittura, e di come va il mondo.

Le opere appese appartengono alla collezione Uno straniero tra di noi, e c’è anche un ché di autobiografico: una persona su 21 è riuscita ad elevarsi, a farsi riconoscere come artista di alto livello e a far parlare del suo piccolo borgo sperduto e nascosto tra le colline toscane. È riuscita a fare un dolce rumore in un posto in cui il rumore è un ospite sgradito.

A stranger among us - n.52 - Franco Innocenti

Uno straniero tra di noi – n.52 – Franco Innocenti

Ricominciare a scrivere

A luglio non ho scritto nemmeno una parola su questo blog, dicevo. Ho dato la colpa all’incapacità di trovare ispirazione quando invece si trattava solo di fare ordine tra le tante cose da sistemare, gli appunti, le idee e gli scarabocchi. Dovevo solo ordinare. E lì, a Barbischio – nome che sembra rubato da una favola – ho realizzato che le parole non mi servivano. In quel posto in cui qualsiasi cosa è di troppo, dove anche il postino è visto come uno straniero, dove ho camminato quasi in punta di piedi per non fare rumore, lì, non serve altro. Nemmeno le parole. Nemmeno i libri, o Facebook, la musica e tutto il resto. Qualsiasi cosa è di troppo, e tutto ciò che viene dall’esterno viene radunato all’osteria Il Papavero, che diventa così un interessante accumulatore di persone forestiere.

Nel momento in cui mi son reso conto che non avevo bisogno di nulla – se non dei cantucci con il vin santo -, ho capito che appena sarei tornato a casa avrei trovato la voglia di scrivere e una quantità enorme di storie da raccontare.

Ed eccomi qui, come rinato.

Storytelling d'impresa - La guida definitiva

“Siamo tutti storyteller, con le storie degli altri”. Inizia così la prefazione che Paolo Iabichino ha curato per il manuale di Andrea Fontana, di cui ho mostruosamente storpiato il nome nel titolo di questo articolo: Storytelling d’impresa, la guida definitiva. Una prefazione che ho letto alla fine del libro, addirittura dopo i ringraziamenti (è un vizio di cui non riesco a privarmi). So bene che se si chiama pre-fazione un motivo c’è, tuttavia questa sadica decisione mi permette di scoprire dettagli non colti durante la lettura.

Leggere la prefazione all’inizio condiziona eccessivamente il punto di osservazione e crea un’aspettativa con la quale non voglio avere nulla a che fare.

Tutta questa solfa sulla prefazione per dire che, nelle prime 20 righe, Paolo Iabichino racconta uno dei motivi che hanno spinto Andrea Fontana a pubblicare questo manuale: trattare il mestiere dello storyteller con il dovuto rispetto.

Ora, non sto a raccontare chi sono queste due persone per evitare di prolungarmi, ma anticipo solo che il primo è Chief Creative Officer di Ogilvy & Mather Italia (odio le iniziali maiuscole nei nomi dei mestieri, ma lui si firma così, tutto maiuscolo), mentre Andrea Fontana è “il più rilevante esperto di Corporate Storytelling (ancora maiuscole) del nostro Paese e Amministratore (!) delegato del gruppo Storyfactory”.

Scrive Iabichino:

Mi è già capitato altrove di stigmatizzare usi e abusi di questa nuova buzz-word che da qualche anno a questa parte ha cominciato a riempire PowerPoint, strategie di marca, idee di comunicazione, convegni, corsi di formazione, job description, siti internet e, neanche a dirlo, saggi, manuali e abbecedari.

Queste righe riassumono, a mio avviso, una buona metà del libro. L’autore si impegna tantissimo nel descrivere cosa è storytelling e cosa non lo è. Paragrafi su paragrafi per dare dignità, spessore e identità ad un mestiere e ad un modo preciso di fare marketing. Non solo: tra le righe noto una magistrale intenzione di punire e mettere al tappeto tutti coloro che usano la parola storytelling senza aver la minima idea di cosa sia davvero lo storytelling.

È una buzz-word d’altronde, impossibile negarlo. E quando un vero professionista vede usare in modo improprio uno strumento (o una parola) che gli appartiene, viene colpito da un senso di disgusto. Ma Fontana non è uno che se la prende con gli storyteller improvvisati. Piuttosto, si eleva. Con fare metodico descrive ogni sfaccettatura del suo lavoro in un modo così preciso che nessun altro “collega” riuscirebbe a fare. Si eleva.

La prima metà del volume serve proprio a questo: far capire che non bastano una fotografia e un hashtag per parlare di storytelling, che tra raccontare e vendere raccontando c’è una differenza decisiva e che c’è un mondo sconfinato nascosto dietro questa buzz-word. Un mondo che va studiato, analizzato, capito e ponderato. Un mondo che si traduce in opportunità di lavoro, ricavi, valore.

Il messaggio che traspare è che

non basta un corso di visual storytelling per potersi definire storyteller, e nemmeno alla fine di questo manuale sarete in grado di fare storytelling. Workshop e libri sono solo tappe di un percorso di studio molto lungo, complesso e ricco di imprevisti.

Ma non è tutto qui, ovviamente.

Nella seconda metà del volume, più o meno dai capitoli 9 e 10, si inizia a “fare sul serio”. Andrea Fontana ci aiuta a capire tutte le competenze indispensabili per realizzare un racconto, descrivendole nel dettaglio una per una (voi che dite di fare storytelling, le possedete?); ci aiuta a capire come quantificare un progetto; si sofferma con passione ed entusiasmo nelle modalità di costruzione di un racconto d’impresa e descrive minuziosamente tutte le variabili e le difficoltà che ha incontrato nel suo percorso professionale. E in questo riconosco un vero valore aggiunto.

Le pagine si impreziosiscono con brevi box riassuntivi, case study di progetti vissuti in prima persona dall’autore (cosa non da poco, perché è fin troppo facile parlare dei successi degli altri) e di grafici e tabelle che aiutano a comprendere le metodologie di lavoro.

Storytelling d’impresa: cosa mi piace del libro

Tra i tanti motivi per cui lo consiglierei a colleghi e professionisti del mondo pubblicitario, spicca la chiarezza con cui l’autore tratta ogni argomento. Se vuoi capire cos’è lo storytelling e cosa ti serve per poter creare o anche solo avere voce in capitolo riguardo un argomento tanto chiacchierato quanto incompreso, beh questo è il manuale che fa per te. Altri punti di forza sono le micro interviste a figure professionali di rielievo che si sono affidate allo storytelling e alla creatività di Storyfactory. Non solo, il percorso di lettura è magistrale: man mano che si scorrono le pagine crescono l’entusiasmo e la voglia di arrivare alla fine per capire come si possano davvero realizzare progetti di così elevata qualità.

Cosa non mi piace

I grafici e le tabelle. O meglio, il modo in cui questi elementi sono rappresentati. Per quanto siano fondamentali per la comprensione degli argomenti trattati, risultano spesso graficamente complessi e, soprattutto, manca un disegno “madre” in grado di coordinarne il loro layout.

Non mi piace nemmeno la copertina, ma questo mi capita con il 99% dei libri editi da Hoepli (ci tengo a sottolineare, però, l’umiltà del responsabile di questa collana, Luca Conti, che nella prima pagina chiede ai lettori consigli su come migliorare il proprio operato). Per un gusto personale, inoltre, non amo particolarmente la moltitudine di inglesismi incastonati nelle pagine, tra le quali si ripetono decine di volte i termini “management”, “skill” e “stakeholder” che, al contrario di “storytelling”, non hanno particolari problemi ad essere scritti in italiano.

Non mi fa impazzire nemmeno il sottotitolo “La guida definitiva”, a causa della parola “definitiva”, di cui ho ampiamente parlato in un post dedicato proprio agli aggettivi superflui. Tuttavia, capisco il motivo per cui Fontana ha utilizzato tale aggettivo. Questi sono ovviamente giudizi personali, criticabili milioni di volte.

Le storie finiscono

Ho avuto il piacere di conoscere Andrea Fontana, a Pesaro, qualche anno fa. Abbiamo preso un caffè poche ore prima di un suo intervento in pubblico – mi pare si trattasse di un convegno riguardo il futuro del marketing e della comunicazione, o qualcosa del genere. Un caffè, pochi minuti insieme nei quali con tono grave e deciso mi ha parlato di quanto fosse importante scrivere, leggere e riscrivere, di quanto lo storytelling avesse bisogno di competenze e lungimiranza.

Di quanto la mia giovane carriera da copywriter dovesse sfamarsi continuamente di storie di vita e racconti d’impresa per continuare a crescere in modo sano, etico e professionale. Quei pochi minuti trascorsi insieme con i gomiti appoggiata al bancone di un bar hanno un valore enorme ancora oggi. Mi aiutano a distinguere le storie che sono storie e basta da quelle che sono, invece, storytelling.

E questa distinzione è solo il punto di partenza, la prefazione di un lungo cammino, di un intenso racconto che ha i suoi protagonisti, gli antagonisti, le difficoltà e poi, inevitabilmente, un finale. Dolce, amaro, romantico, ambiguo,  drammatico, imprevedibile, inverosimile, divertente, triste, grottesco o addirittura trionfale.

Io di storia dell’arte non ne capisco niente. Davvero. Non l’ho mai studiata al di fuori del contesto scolastico. Non mi sono mai appassionato, informato, aggiornato. Sono un vero ignorante, lo ammetto. Eppure credo di riconoscere esattamente il sentimento, la ricerca, la necessità, il gusto e la follia di alcuni pittori.

Sarà che per me l’arte è una. Che si parli di musica, letteratura, cinema o scrittura, credo che tutto si riduca ad un unico piacere che si manifesta secondo le regole e i colpi di genio di mani e muscoli, per soddisfare il solitario piacere di interpretare i giorni e le sensazioni più intime.

Questo, credo di aver capito. E sono certo di averlo riconosciuto curiosando tra le stanze di Palazzo Fava, a Bologna, in occasione della mostra di Edward Hopper. Ripeto, di storia dell’arte non ne capisco granché, ma osservando le sessanta opere esposte ho percepito il suo senso di solitudine.

Con grafite e colori, acquerelli e poco altro, lui disegnava le storie invisibili, quelle che ci sfuggono per mancanza di sensibilità. Lui le ricostruisce con pazienza e le propone chiedendoci di prestare nuova attenzione alle cose normali che sono, a suo avviso, la più grande meraviglia di ogni giorno.

Hopper disegna e racconta l’invisibile

Guardando Stazione di una piccola città trovo quella meraviglia. Al di là dello stile e della tecnica pittorica, di cui preferisco non parlare per evitare figuracce, penso che per lui quel momento, quella scena e quei colori, fossero abbastanza. Me lo immagino posare gli occhi per la prima volta su quella stazione, magari ascoltando il rumore di un treno lontano, innamorarsi della vernice sulle pareti, cercare la miglior prospettiva da cui osservare, coinvolgere quell’albero per spezzare la scena. Proprio l’albero, in musica sarebbe una pausa. In letteratura forse, una punto e a capo. Dicevo, l’arte è una.

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Sera Blu – Edward Hopper

Sera Blu è l’opera che ho inserito come immagine di testa per questo articolo, e anche la mia preferita. La trovo di una solitudine senza fine e la interpreto come un tentativo di rappresentare il mondo. La malvagità nello sguardo del clown, l’uomo borghese sulla destra che osserva un orizzonte buio, come se possedesse tutto e niente; la donna in piedi truccata a puntino, forse una prostituta che mette scompiglio nei pensieri dei presenti; un tizio con la barba rossa, cappello e sigaretta, forse un omaggio a Van Gogh (del quale si riconosce l’influenza); il “direttore” del circo, o di qualche genere di evento, seduto in mezzo alla gente comune, come se lo spettacolo si camuffasse alla vita reale. O come se la realtà non fosse altro che una finzione devastante, e tutti noi attori, pagliacci, mossi dall’esigenza di truccarci o di indossare delle maschere. Ognuno per i suoi motivi.

Il ponte di Manhattan

Nonostante Hopper abbia disegnato decine di volte i ponti di New York, in questa opera si concentra soprattutto sui carrelli in primo piano. Il dipinto si chiama Ponte di Manhattan ma il ponte è solo una scusa per dare rilievo a quegli oggetti comuni, i carrelli. Lasciati li, soli, hanno un senso, costruiscono la scena, sono una storia invisibile.

ponte di manhattan

Gli avamposti e la voglia di restare

Hopper presta la massima attenzione al significato di ogni oggetto, costruzione o persona che incontra nei suoi viaggi. Ne cerca il senso, il motivo dell’esistenza, il motivo per il quale qualcosa si trovi in un determinato posto. Da qui la passione per i fari, quelli affacciati al mare e all’orizzonte, come in The Lighthouse at Two Lights. Li rappresenta soprattutto visti dalla parte della terraferma, quasi mai dalla parte del mare. Lui preferisce stare dietro, perché il faro traccia un confine preciso. La terra e il mare, la luce e il buio. Il faro è a tutti gli effetti un avamposto.

the lighthouse at two lights

In Starway, ad esempio, le scale conducono alla porta d’ingresso, aperta, ancora qualche passo e c’è il bosco. La porta è vista dall’interno, da dietro, proprio come i fari visti dalla terraferma. Percepisco una voglia di restare, di non oltrepassare certi confini, di non sfidare la malignità del bosco. Non mi sorprenderei nello scoprire che Hopper avesse paura del buio.

stairway-hopper

Le luci delle stanze, il sole sui muri e le ombre

L’ultimo quadro della mostra è il celebre Second Story Sunlight. Imponente. La sua luce è devastante. Le due figure ritratte sul balcone sembrano quasi un’ornamento, e quello che davvero conta è come il sole illumini la casa e le stanze all’interno. C’è il bosco dietro, buio. Ma la salvezza è in casa, al sicuro, nelle stanze illuminate. Hopper trova un certo fascino nell’oscurità ma, dicevo, se ne sta sempre ad una certa distanza, dove c’è luce.

Second story sunlight - edward hopper

Prendevo appunti mentre passeggiavo incuriosito ed emotivamente scosso tra le stanze di Palazzo Fava, scorrendo una dietro l’altra le opere senza tempo di un pittore che deve aver combattutto un vero e proprio conflitto personale con il mondo.

Prendevo appunti, frasi incomplete scritte con grafia poco elegante, tra queste noto oggi alcune parole ricorrenti: boschi, edifici, confini, avamposti, faro sul mare, luce sui muri, solitudine.

A rileggerle ora, con il senno di poi, penso che descrivano piuttosto bene l’arte di Edward Hopper, che è fatta proprio di boschi, edifici, confini, avamposti, fari, luce, buio, pareti. Solitudine. Cercando in rete le opere che (dannazione!) mancano alla mostra, come Gas e Nighthawks, ritrovo quasi ovunque gli stessi concetti.

Nighthawks - Edward Hopper

Ma ripeto, per l’ultima volta, io di arte non ne capisco nulla. Eppure mi emoziono. A volte ho quasi paura. In certi momenti, mentre lavoro, mentre guardo il fumo uscire dalla moca del caffè o mentre passeggio sotto i portici di Bologna, mi sembra di vedere le storie invisibili. E anche gli avamposti.

scrittura creativa

La creatività non è una lampadina che s’accende e si spegne. È piuttosto un percorso, un lungo esercizio. Non posso di certo metterci la mano sul fuoco ma l’esperienza in ambito artistico e professionale mi dice che è così. A mio avviso l’immagine della lampadina è un luogo comune che tenta di semplificare qualcosa di troppo complesso.

Per un copywriter, in particolare, credo sia impossibile distinguere tra scrittura creativa e scrittura non creativa. Nel senso: esiste forse una regola che segna il confine tra l’una e l’altra? Io non la conosco. Mi riesce persino difficile trovare una definizione convincente di scrittura creativa. Eppure spesso mi confronto con colleghi e altri professionisti del mestiere che marcano con orgoglio e sicurezza numerose sfaccettature della scrittura: creativa, tecnica, funzionale, SEO, tradizionale, professionale.

Sfogliando il mio portfolio trovo headline e bodycopy per campagne pubblicitarie on e offline, nomi di prodotto, nomi di aziende, nomi di eventi, concept di comunicazione, storyboard, copioni per video, testi per spot radiofonici, contenuti per siti web e landing page, testi tradotti dal burocratese all’italiano, payoff, call to action, articoli per riviste specializzate e per la stampa locale, manuali di istruzioni, locandine, discorsi per convegni e manifestazioni, progetti di lettering design, layout per preventivi e tonnellate di manuali per la comunicazione interna di imprese ed enti pubblici. Ecco, tra tutte queste cose, esattamente, cosa rientra sotto l’etichetta “scrittura creativa”? Cosa invece no?

Scrivere è sempre un gesto creativo

Quando scriviamo, in realtà, svogliamo un gesto molto più ampio. Scrivere è anche disegnare, creare mappe e percorsi di lettura, rassicurare. Questo perché, parafrasando Luisa Carrada, le parole prima si guardano poi si leggono:

“Anche una lunga e monotona relazione di lavoro può apparire invitante se scritta con il font più adatto, un titolo e un sottotitolo informativi, un abstract che riassume in 50 righe il contenuto di 60 pagine, spazi bianchi per far respirare e riflettere, box che evidenziano i punti più importanti, didascalie laterali che permettono di navigare tra i contenuti e trovare rapidamente quello che serve – Il mestiere di scrivere, 2007 © Apogeo”.

Lavorare al fianco di persone competenti di grafica e visual design aiuta a scrivere meglio, a disporre correttamente i paragrafi, ordinare gli spazi vuoti, crearne di nuovi ed eliminare il superfluo (sostituendolo talvolta con icone studiate ad hoc, come hanno recentemente fatto Widiba e CheBanca!). Lavorare accanto queste figure professionali aiuta a considerare la scrittura come qualcosa di visivo, e a capire che lo sforzo mentale richiesto per la creazione di una buona headline è lo stesso di quello necessario per scrivere i testi di un libretto di istruzioni.

Quando scriviamo, dicevo, facciamo moltissime cose: uniamo l’esperienza con il gusto personale, costruiamo un ordine gerarchico di significati che disponiamo secondo una precisa architettura visiva (layout). Disegniamo. Illustriamo. Facciamo chiarezza. Mettiamo in moto un processo che coinvolge il nostro sapere e il desiderio di raggiungere risultati eccellenti.

Ma allora cos’è la scrittura creativa?

Mi riesce difficile dare una definizione, penso però che lo scrivere in modo creativo, che non ritengo diverso dallo scrivere bene, abbia fortemente a che fare con l’esperienza. Le buone idee possono venire a chiunque, ma per concretizzarle (e venderle) è necessario lavorarle con le conoscenze acquisite nel tempo.

Non c’è una lampadina che si accende o si spegne, ma piuttosto una luce fioca che ci fa sempre compagnia, perché anche nei momenti di mancanza di ispirazione la macchina delle parole non si ferma mai, brucia carburante e produce milioni di frasi, talvolta bruttissime. L’esperienza ci aiuta a migliorarle, pulirle e trasformarle in periodi perfetti per il canale cui sono destinati.

campo da calcio di notte

Affianco casa mia c’è un campo da calcio, ci si allena una delle squadre della città, non ricordo la categoria tanto è bassa. Il terreno è tutt’altro che uniforme, ci sono avvallamenti e pendenze, zone prive di verde e qualche velo di sabbia vicino alle porte. Nonostante questo il manto erboso è sempre ben curato, basso, morbido, umido e di una trama quasi rilassante. Di notte, nel buio, è grigio pesto. Un tappeto color piombo, morbido sotto le scarpe, quasi accompagna i passi.

Mi trovavo lì fermo nel buio assieme al mio cane, poco prima di mezzanotte. Ce ne stavamo dentro al cerchio della metà campo. Mi sono seduto, prima, aspettando che Milo si appoggiasse al mio fianco in cerca di un contatto – lo fa sempre, è una sensazione che gli trasmette una sorta di tranquillità -, poi ho appoggiato la schiena a terra, rivolgendo il naso verso il cielo stellato. Sai, di quelle notti che le luci del quartiere sono spente e le stelle brillano più forte. Sdraiato sull’erba con il respiro del mio cane accanto. Geometrie disperate in cielo. Ricordo di aver cercato la Luna e sono più che sicuro di non averla trovata.

L’ho cercata giusto qualche istante prima di dimenticarmene. In fondo non mi importava davvero che ci fosse o meno quella lanterna bianca. Eravamo li, io, il buio, le stelle e il mio cane, riuscivo a distinguere lo scoccare delle lancette dell’orologio. Non ricordo nemmeno quanto tempo siamo rimasti li, stesi nel mezzo di un campo da calcio nel cuore della notte. Era abbastanza.

Quel momento era abbastanza.

La regola del gratta e vinci - copywriter

Gratta e vinci. È semplice, breve, immediato. Perfetto. Prova a pensarlo diversamente: gratta per vincere; gratta e scopri se hai vinto; gratta e vincerai qualcosa. Nessuna di queste formule funziona. “Gratta e vinci” invece si. È una questione di precisione o, meglio ancora, di soppesare le parole giuste e scegliere il tempo verbale adatto.

Per assurdo, la frase “Ti darò un pugno”, non fa poi così paura perché il futuro esprime un certo senso di incertezza, mentre “Ti do un pugno” è tutt’altra cosa.

Il presente e l’imperativo sono forti, decisi, convincenti. Non è un caso che siano i più utilizzati nel linguaggio pubblicitario: “La lavatrice lava di più con Calfort”, “La scarpa che respira”, “Just do it”, “Ascolta la tua sete”, “Un diamante è per sempre” e così via. Questi due tempi verbali trasformano una frase in una promessa o in un messaggio pubblicitario, che a pensarci bene sono la stessa identica cosa.

Rassicurare

pubblicità PayPal

 

Questa pubblicità online di PayPal acclama:

Basta esitare. Se non ti vanno bene, rimandale indietro. Ti possiamo rimborsare i costi di reso.* Attiva il servizio gratuito con PayPal.

L’imperativo “attiva il servizio gratuito” è deciso e diretto ma quel “Ti possiamo” distrugge l’intero messaggio. Nel senso: come sarebbe a dire “ti possiamo”? Esiste dunque una possibilità che io non venga rimborsato? Eccome se esiste! Dunque PayPal comunica che attivando il servizio gratuito si accende una vaga possibilità che tu possa ottenere un rimborso. Nessuna garanzia, nessuna promessa, ma solo una vaga speranza che, forse, nella migliore delle ipotesi, qualcuno potrebbe venire rimborsato di qualche centesimo.

Dal momento che in fondo alla frase appare un asterisco che rimanda alle condizioni (obbligatorie), sarebbe meglio scrivere

Rimborsiamo le spese di reso.

Questo è deciso, diretto, non lascia scampo alle incertezze (a quelle ci pensa l’asterisco che rimanderà a tutte le condizioni necessarie per ottenere il rimborso, un po’ come fanno le banche).

Meglio un uovo oggi che una gallina domani

Il futuro è la morte della pubblicità, l’esatto contrario di una promessa. Copio e incollo questa frase dalla brochure di una nota compagnia telefonica:

Con il pacchetto ADSL Plus potrai navigare più velocemente e in totale sicurezza.

Come sarebbe a dire “potrò”? Con quello che mi costa esigo che il servizio acquistato faccia esattamente le cose che mi sono state raccontate. Il futuro “potrai” esprime una condizione, che potrebbe accadere ma non è detto che lo faccia, anzi, in un periodo di estrema diffidenza io stento a credere alle promesse della pubblicità. Peggio del futuro c’è solo il condizionale, ma credo che a nessuno venga in mente di scrivere “Con il pacchetto ADSL Plus potresti navigare più velocemente e in totale sicurezza”.

Se fossi il copywriter di quella compagnia telefonica, andrei dall’art director a puntualizzare che, a mio avviso, sarebbe (ecco qui uso il condizionale) meglio scrivere:

Con il pacchetto ADSL Plus navighi veloce e sicuro.

Ma ovviamente con i se e con i ma non si vincono le guerre e non si scrivono headline migliori di altri.

Ad ogni modo, la regola del gratta e vinci è un primo appunto dal quale iniziare una comunicazione chiara e concisa. Poi bisogna lavorarci su: scrivere, cancellare, riscrivere, ascoltare, disegnare, litigare con l’account per poi trovare, dopo lividi e fatiche, la soluzione migliore (che solitamente non è mai la prima).

Riassumendo, la regola del gratta e vinci dice che:

  • un messaggio chiaro e memorabile è composto da pochissime parole che inducono all’azione;
  • l’azione è una promessa, e viene rassicurata dai tempi verbali presente e imperativo;
  • il futuro fa a pezzi la promessa.

Un copywriter davvero bravo (che non sono io) può anche fare a meno dei verbi per fare una promessa davvero rassicurante. Come? Lo slogan storico di Martini è forse il più alto esempio:

No Martini, no party!

Quattro parole, di cui due ripetute, zero verbi e una semplicità disarmante nel descrivere la promessa del brand. Chapeau.