London, Museum of Brands

Ho appena letto l’interessante articolo “Londra da scoprire: Museum of Brands, Packaging & Advertising su Ninja Marketing”. Questo breve articolo mi ha ricordato un curioso aneddoto del mio ultimo viaggio nella capitale inglese.

A Londra ci sono andato tre volte e penso che ci tornerò presto. È una città in cui riesco sempre a fare il pieno di idee e quando mi trovo lì le mie Moleskine si riempiono di appunti, disegni e indirizzi.

Cerco sempre di visitare luoghi che non ho visto nei soggiorni precedenti, tra questi c’è anche il Museum of Brands, Packaging & Advertising di cui parla appunto l’articolo dei ninja. Ecco, avevo un’aspettativa altissima, sapevo cosa mi aspettava, avevo studiato le immagini presenti in rete e gli appunti di viaggio di tanti colleghi che mi hanno detto, tutti, “devi assolutamente andarci”. Questo per rendere l’idea di quanto fossi emozionato alla sola idea di mettere piede in un museo di cimeli riguardanti il mio mestiere.

Quella mattina mi sono alzato di buon ora, avevo già pronto il complesso piano per raggiungere il luogo (complesso perché in quei giorni alcune linee della metropolitana ero chiuse per lavori). Avevo anche cercato gli orari di apertura nella pagina Facebook e contavo di presentarmi all’ingresso poco prima dell’apertura, pronto ad evitare un’eventuale fila (che poi, mi hanno detto che la fila non c’è mai ma io sono un tipo paranoico e prudente).

Con qualche buffa combinazione di autobus sono riuscito a scendere a poche centinaia di metri dal luogo e con passo spedito l’ho raggiunto in pochi minuti. Da lontano ho intravisto l’insegna e ho subito notato una certa desolazione all’ingresso, cosa che negava una qualunque forma di fila per entrare. Non ho pensato nemmeno per un minuto che potesse essere chiuso. Nemmeno per un minuto. Solo quando sono arrivato all’entrata ho notato le luci spente e il cartello, piccolissimo, con scritto

closed on monday.

Ho così ricontrollato la pagina Facebook, dove non appariva da nessuna parte un ipotetico giorno di chiusura. Così ho provato a navigare il sito web e solo lì ho letto che il museo è chiuso proprio il lunedì.

Coglione io a non aver controllato prima il sito web o negligenti loro a non aver aggiornato la pagina Facebook?

Il sito web non è l’unico canale di comunicazione

Il giorno di chiusura è un’informazione fondamentale da fornire al pubblico, e questo vale per qualunque tipologia di attività: dal piccolo bar di paese al celebre museo londinese.

Sui social, belle immagini e belle parole servono a poco se le informazioni basilari dell’attività non vengono compilate.

Quindi, prima di pianificare un piano editoriale, prima di iniziare un percorso pubblicitario o di comunicazione, beh, ecco, sulla vostra bellissima paginina social, segnalate quando siete chiusi, così non distruggerete le aspettative del vostro pubblico. Ma soprattutto, fatelo su ogni canale web, non solo sul sito, perché il sito non è più il canale più ricercato dagli utenti.

Come si è conclusa questa storia?

Tornato in Italia, ho subito pensato di inviare un messaggio alla pagina del museo per segnalare di aggiungere l’informazione. Mi ero preparato un messaggio gentile e amichevole, ma quando sono andato sulla loro pagina ho trovato le informazioni aggiornate con la scritta “chiuso il lunedì”. Qui mi è sorto un nuovo dubbio: coglione io a non essermene accorto pochi giorni prima o bravi loro ad avere aggiunto l’informazione?

Non vorrei lodarmi eccessivamente, ma sono abbastanza sicuro che prima non ci fosse, perché nel mio diario di viaggio mi ero segnato i luoghi da visitare in base ai loro giorni di chiusura e alla loro posizione geografica.

Il messaggio carino e amichevole si è trasformato in un “perché cazzo non lo avete fatto prima?”. In tutto questo c’è però un lato positivo: ho un nuovo pretesto per tornare a Londra.

leader

L’espressione “azienda leader di mercato” è molto diffusa nei testi di presentazione di molte PMI. Talmente diffusa che noi comuni consumatori siamo circondati da leader di mercato. Dall’eCommerce specializzato in prodotti per il bagno al mobilificio fuori città, sono tutti leader a loro dire.

Di sicuro questa definizione risulta piuttosto attempata e non specifica più un vero valore aggiunto che possa far leva nel processo decisionale di acquisto.

Le aziende leader, sono davvero leader?

Se affermate di essere leader di mercato è innanzitutto importante precisare “di quale mercato” ed è inoltre fondamentale essere sicuri di essere davvero leader.

Per definizione,

“un’azienda è leader quando detiene la maggior quota di mercato per un dato prodotto o servizio.”

Quando lo dite dovete essere davvero sicuri di esserlo, e possibilmente dovreste avere le prove. Nel caso non le abbiate e non possedete nemmeno un metro obiettivo per poter misurare la vostra grandezza, è meglio tacere, o magari dire altro.

I mezzi-leader

Molte aziende timorose di definirsi superiori ai propri competitor ma allo stesso tempo volenterose di sentirsi grandi, affermano di essere co-leader di mercato. Si tratta di un escamotage per non gridare troppo forte ma allo stesso tempo non crea una vera differenziazione e, inoltre, attiva nella mente del pubblico il pensiero che ci possano essere altre aziende alle quali rivolgersi.

Lo stesso vale nel caso di chi acclama di essere “tra le prime aziende nazionali” o “tra le più influenti aziende al mondo” o ancora “tra le migliori aziende europee”, perché sta sempre dicendo che esistono altri brand allo stesso livello.

Se tu, copywriter, vieni obbligato dal tuo cliente o dal tuo capo a scrivere che l’azienda in questione è leader di mercato, arricchisci il testo, la comunicazione e il posizionamento specificando almeno qualche numero: “siamo tra le prime tre aziende italiane nel mercato dell’arredo”. Ecco, è già meglio, ma non ancora perfetto.

Ma non è finita qui: spesso si incontra anche l’espressione “la nostra mission è diventare leader del mercato”. Questa frase significa tante cose, come:

  • non siete dei leader;
  • non avete un posizionamento preciso;
  • siete piccolissimi;
  • non avete idea della competitività del mercato;
  • siete (troppo) ambiziosi.

Quindi, questa cosa dei leader di mercato, lasciatela da parte. Piuttosto, fate come Tesla Motors, che è realmente un leader di mercato ma non lo dice. La sua headline acclama “L’auto elettrica con la migliore autonomia”.

sito web Tesla Motors

Ecco, questo va bene, perché è un’affermazione veritiera. Ricordatevi sempre di essere onesti con il vostro pubblico.

Un approfondimento sociologico: Leadershit

Ad avere poco senso, oggi, è anche la stessa definizione di leader. Il termine evoca qualcosa di gerarchico, titanico e di anti-etico. Le vignette che girano in rete dove vengono messi a confronto un boss e un leader sono fasulle e inutili.

boss vs leader

In realtà non esiste una differenza tra un termine e l’altro. Ovvero, non è importante distinguere tra un capo che “sfrutta” e uno che “coltiva”, è molto più rilevante, oggi, abbandonare i vecchi approcci fondati sulla pressione quotidiana del profitto ad ogni costo, ed elevarsi al dialogo e alla condivisione di una filosofia comune. Una vera filosofia del lavoro.

Trovo illuminante, su questo tema, il saggio Leadershit (titolo bellissimo) di Andrea Vitullo, che racconta un approccio in cui la figura del leader scompare lasciando il posto ad una dimensione etica e filosofica, determinante per il business di un’azienda.

Si tratta di un breve saggio, un piccolo manuale di rara intensità che dovrebbe trovarsi sulla scrivania di ogni ufficio e ogni posto di lavoro in genere.

Arrival

Più che un film di fantascienza, Arrival è un saggio sulla comunicazione e sul linguaggio. Da un punto di vista sociologico gli alieni sono un elegante pretesto per rendere il racconto più accattivante, quasi una trovata per portarci al cinema. Poi sì, certo, la regia è grandiosa, la fotografia splendida, e la protagonista Amy Adams incanta con la sua emotività, i suoi colori e il suo essere così fisicamente perfetta per il personaggio che interpreta. Tuttavia, il vero senso della pellicola non ha a che fare con UFO ed extra-terresti, ma riguarda il nostro modo di comunicare e di rapportarci con ciò che non conosciamo.

Nei 116 minuti di durata si respira una sorta di intimità che non cade mai nella ricerca del ritmo incalzante e dell’azione. È una sorta di silenzio formale (perché anche il silenzio comunica) disturbato solo da lunghi e intensi accordi, che arrivano da lontano e lontano scompaiono, creando un contrasto sonoro che ha il compito di far concentrare il pubblico su quel singolo momento di musica.

Lo stesso fa la fotografia: la predominanza di trame fredde crea un’atmosfera di insicurezza e mistero, ma l’arancione delle tute che indossano i personaggi e il colore dei capelli dell’attrice giocano un contrasto fondamentale: danno movimento, riscaldano e rassicurano, accompagnando lo spettatore all’interno delle navicelle aliene e nel mistero più assoluto.

Arrival - UFO

I piani sequenza partono spesso dalle spalle di Amy Adams, indicando al pubblico il momento in cui immergersi nel punto di vista dell’attrice e ragionare con la sua mente. Le telecamere le ruotano attorno, riprendendo ogni sua espressione con lo scopo di farci entrare in sintonia con lei, di capire il suo linguaggio non verbale e la distanza invisibile che separa forma da contenuto.

Una distanza che non ha tempo e non ha spazio, non ha inizio e non ha fine, non si sposta in senso orizzontale ma circolare, proprio come la calligrafia degli alieni, la cui comprensione è la chiave per risolvere il mistero del loro avvento. Una distanza che ci separa da ogni cosa che non conosciamo e non comprendiamo, trasformando l’ignoto in un una minaccia. E questa è una chiara metafora del mondo di oggi.

Paradossalmente, la storia ci porta con i piedi per terra: ci suggerisce di non guardare solo verso le stelle ma di abbassare lo sguardo e di guardarci negli occhi, conoscerci e capirci per davvero, oltre le parole, oltre i gesti.

Arrival è un film di fantascienza che invece di raccontare l’universo ci offre una visione più chiara di ciò che siamo veramente.

E la fantascienza è soltanto un elemento superficiale che ricopre, con volontaria trasparenza, un paradosso più grande di quanto riusciamo ad ammettere: non siamo bravi a comunicare, non leggiamo i segnali della vita né siamo in grado di riconoscerli e decifrarli.

Arrival parla di questo. Come dicevo, più che un film è un saggio sulla comunicazione, e gli alieni sono solo un accattivante pretesto per portarci in sala, o una raffinata strategia di marketing o, ancora, un’attraente confezione della storia. Mai visto un packaging del genere.

Gustave Flaubert

Dovete immaginarvi un ometto baffuto e paffutello che per tutta la vita prende appunti. Scrive, osserva e di tanto in tanto pubblica romanzi epocali. Si appunta ciò che inclina, ferisce e incrina le infinite pieghe della vita. Lui segna tutto sui suoi taccuini. Tutto. Come se le storie e le verità di ogni giorno potessero raccontare una visione universale del mondo, rendendo giustizia – in un modo un po’ buffo – alle cose che accadono senza particolare motivo. Accadono e basta, nessuno sa il perché, ma c’è una legge da tutti condivisa che giustifica mutamento, azioni e percezioni. Una legge. Un luogo comune. Così i suoi taccuini si riempiono di parole e significati, citazioni e credenze popolari che descrivono un’approssimata verità sul mondo, talmente approssimata da essere, talvolta, precisa.

I luoghi comuni sono, in fondo, imprecise descrizioni o imbarazzanti tentativi di spiegare la vita. Flaubert non ha fatto altro che appuntarseli nei suoi diari fino a quando ha giocosamente intuito che poteva raccoglierli tutti in un affilato volume: il Dizionario dei Luoghi Comuni.

Uno strumento per stimolare la creatività

Si tratta chiaramente di un libretto stupido che, a detta di molti critici, gli ha rubato troppo tempo e gli ha impedito di concludere opere di ben altro spessore – come Bouvard e Pecuchét. Tuttavia c’è del genio, e queste cento paginette hanno lo strano potere di spronare la creatività del lettore. Dizionario dei Luoghi Comuni trova il suo habitat nella libreria di un copywriter e diventa uno strumento di lavoro di imprevedibile utilità nei momenti in cui si è alla ricerca di ispirazione.

Riporto qui alcune voci che mi hanno particolarmente colpito:

  • Allori. Impediscono di dormire.
  • Bilancio. Non quadra mai.
  • Calvizie. Sempre precoce e provocata da eccessi giovanili, oppure dal concepire pensieri elevati.
  • Corano. Libro di Maometto che parla solo di donne.
  • Economia politica. Scienza senza cuore.
  • Egoismo. Lagnarsi di quello degli altri e non accorgersi del proprio.
  • Fenice. Bel nome per una compagnia di assicurazioni antincendio.
  • Giuria. Evitare a tutti i costi di farne parte.
  • Introduzione: vocabolo osceno.
  • Metodo. Non serve a nulla.
  • Missionari. Finiscono tutti mangiati o crocifissi.
  • Mulino. Sta benissimo nei paesaggi.
  • Paura: ci dà le ali.
  • Poeta. Sinonimo di scemo, sognatore.
  • Polizia. Ha sempre torto.
  • Prosa. Più facile da fare dei versi.
  • Scroccone. Sempre dell’alta società.
  • Terra. Dire <<I quattro angoli della terra>>, dato che è rotonda.
  • Vangelo. Libro divino, sublime, eccetera.

Nelle spiegazioni dei termini si nota facilmente una pungente dichiarazione di astio nei confronti di qualcuno, forse una precisa fetta di società. In fondo, Flaubert stava sul cavolo a parecchia gente, e temo che il sentimento fosse ampiamente ricambiato. Questo piccolo dizionario, che rappresenta un momento quasi invisibile in mezzo allo spessore delle sue opere più celebri, è un gesto o un modo per zittire, umiliare e mandare a quel paese tutte le persone che non sopportava. O almeno mi piace pensarla così.

In una lettera a Louise Colet, nel 1852, Flaubert descrisse il progetto con queste parole:

Credo che l’insieme sarebbe formidabile come il piombo, bisognerebbe che in tutto il libro non ci fosse una parola mia, e che, una volta letto il dizionario, non si osasse più parlare, per paura di dire spontaneamente una delle frasi che vi si trovano.

È un modo straordinariamente affilato ed elegante per dire “zitti tutti, ignoranti, state zitti”.

Stonehenge è un posto magico. Dista due ore di pullman da Londra, per alcuni è lontanissimo, per altri una passeggiata, a mio parere ne vale la pena. Meglio se ci vai nel pomeriggio, così ti godi il sole che tramonta dietro i megaliti (non è una situazione che capita chissà quante volte nella vita).

Ti ritrovi in un campo verde, i tipici prati inglesi, dove l’erba, chissà perché, non cresce mai. Sembra appena tagliata, migliaia di ettari di erba appena tagliata. Se ci pensi è pazzesco. Ci sono questi megaliti, questi sassi enormi che per quanto possa informarti e razionalizzare non riuscirai mai a capire come siano davvero finiti e come qualcuno sia riuscito a sollevarli. E perché. Ci sono un sacco di teorie, vero, molte di esse anche parecchio condivise dagli storici, ma qualcosa dentro ti bussa nelle ossa e ti dice che non è come te la raccontano. Ti fai la tua idea. Ognuno la sua.

Il pullman si ferma a poco meno di un chilometro di distanza e ti lascia in una valle dove ancora non si vedono sassi di alcun genere, solo prati a non finire. Manca dunque un breve tratto di strada da percorrere a piedi o con una navetta, entrambe le soluzioni creano una certa attesa difficile da spiegare a parole, io ci sto provando ora, rendendomi perfettamente conto che forse non tutti si riconosceranno, perché dicevo, ognuno si fa la sua idea.

C’è questa bellissima attesa, quasi una forma evanescente di ansia, un torpore tra le dita, come quando stai scrivendo una frase meravigliosa che ti è appena venuta in mente e speri di riuscire a comporla senza dimenticarti nessuna parola. Quell’attesa li, quando sai che sta per accadere qualcosa che desideri davvero e che nulla impedirà che accada. Anche questa situazione non capita chissà quante volte nella vita.

E mentre ti avvicini incontri i corvi, a decine. Come in un’opera di Van Gogh. La scena è davvero surreale, se ne stanno li, in mezzo al nulla e all’erba bassa, talmente bassa che non si piega nemmeno al soffiare del vento. I corvi, si tengono a dovuta distanza l’uno dall’altro, quasi fossero nemici. Non sembrano prestare attenzione alle persone che avanzano verso Stonehenge, ma contribuiscono a nutrire la trepidazione.

E poi li vedi, finalmente, i megaliti. Che non sono altro che massi, disposti secondo una volontà che puoi provare a capire, ascoltare o raccontare senza venirne mai a capo. A tutti appaiono più piccoli del previsto. Eppure sono enormi. Ma l’attesa, la voglia e l’impazienza corrompono la tua immaginazione e così finisci per aspettarti qualcosa di smisurato e infinitamente più grande della realtà. Come molte altre cose della vita, d’altronde.

Ci arrivi davvero vicino, non quanto vorresti, ma abbastanza vicino da farti la tua idea e percepire l’umidità e il freddo sulla pietra. Ma non li puoi toccare. Se ci provi le guardie ti sotterrano all’istante e nella migliore delle ipotesi di te rimane un ricordo sepolto sotto l’erba bassa dei prati inglesi. Ci arrivi davvero vicino, dicevo, puoi camminarci intorno, osservarli da differenti angolazioni e prospettive, e mentre passeggi ad un certo punto ti accorgi di qualcosa. Ognuno percepisce qualcosa. Posso dirti quello che ho sentito io, che pare banale ma è estremamente semplice: un senso di pace. Pace e basta. Come se il resto del mondo e la frenesia fossero lontani milioni di chilometri, come se non ci fosse nulla di più vero di quel momento, nulla di più importante, e gli assi dell’anima, del cuore e del desiderio fossero perfettamente allineati. Una situazione che non accade tante volte nella vita.

london

A Londra accadono cose meravigliose, e accadono con una facilità che, in altri posti, non c’è. Cose banali come un cappuccino o una tazza di tè, una pinta di birra o, per dire, anche un manifesto pubblicitario, ti fanno impazzire, e finisci per amarle da morire, nonostante siano così distanti da come siamo abituati a percepirle, vederle e pensarle. Sono avvolte da un alone di magia che conferisce loro un’aura così elevata da trasformare il banale in memorabile. Ce ne sono alcune che sono davvero caratteristiche e grandiose, come le insegne dei pub, i manifesti pubblicitari in metropolitana o le enormi tazze in cui viene versato il cappuccino. Cose banali, dicevo, eppure bellissime, piene di un delizioso senso di abbandono.

In Inghilterra piove spesso. Non tutti i giorni, ma di certo molto più frequentemente che dalle nostre parti. E il clima, in generale, fa schifo. Non si capisce mai quando è ora di indossare o togliere una giacca, e sei costretto a portare con te sia gli occhiali da sole che l’ombrello. Impensabile, assurdo, ma è così. I giorni di sole, quando capitano, dipingono le strade e i prati con vernici insolite e inaspettate, di certo emozionanti, trame e sfumature difficili da salvare con un’obiettivo fotografico, tuttavia in qualche modo ti si impregnano addosso e penetrano nella pelle, nella carne e nelle ossa, raggiungendo miracolosamente l’anima. Si, l’anima. C’è gente che la cerca per tutta la vita e poi toh, basta un panorama inglese per farti capire che esiste per davvero e che non si cela in un luogo preciso del corpo, o del cuore, ma se ne sta in silenzio e trasparenza in ogni gesto e movimento, ogni ferita e ricordo. L’anima.

A Londra piove anche con il cielo sereno. E non è un controsenso, è solo che te l’aspetti, la pioggia, da un momento all’altro, anche quando le nuvole sono solitarie e sottili, magari cirri dispersi o cumuli di fortuna, niente di ché. Percepisci l’umidità, la pressione e una forma inspiegabile di tristezza, una pioggia fantasma.

C’è così tanta gente, linguaggi lontani e colori pazzeschi, indumenti improbabili e gesti inspiegabili, così tanta diversità che un forestiero potrebbe quasi averne timore, o morirne di ricchezza. E non è una questione di chiusura mentale, di pregiudizi o razzismo, è solo che la vita, le voci, le abitudini, gli odori, la musica e la frenesia che riempiono Londra si estendono oltre ogni misura per chi viene da lontano.

Ma sopra ogni cosa, ogni notte e ogni luce, sopra i tetti e i sentimenti, si dirama una coltre di nebbia che non se ne va mai per davvero. Si sposta, si nasconde e poi ritorna sempre verso sera, a circoscrivere e ridurre il campo visivo e a ricordarti che di notte ognuno è solo per davvero.

Impressioni d'autunno

In autunno i tramonti hanno una gran fretta di consumarsi, ma senza bruciare e fare rumore. Come se avessero voglia di sparire e basta. Nient’altro. Le ombre si allungano rapidamente e le luci dei locali brillano con timidezza. La luna si nasconde dietro le nubi, stanca di guardarci ogni notte senza mai potersi voltare.

L’autunno si porta via un sacco di cose, come l’entusiasmo e la voglia di restare svegli fino a tardi, o quella strana sensazione che si prova quando si è sicuri che stia per accadere qualcosa di meraviglioso, ma poi non accade, senza motivi né spiegazioni.

In autunno inoltrato arriva il freddo, il primo freddo, che s’infila sotto le coperte e nelle asole dei vestiti, confondendosi nelle le pieghe della vita e nei versi delle canzoni. Trascina con sé infinite ragioni per chiudersi in casa e tenersi tutto dentro, fingendo che la fatica di questi giorni sia una fonte di calore, o una sorte di colore con cui ricoprire e riscaldare le pareti.

Se provi ad uscire in strada, quando il freddo è più forte, se provi a mischiarti in mezzo alla gente, fare finta di essere come qualsiasi altra persona al mondo, se riesci a mascherare con un respiro quanto di brutto ti affligge, beh, se davvero ci riesci allora puoi anche concederti il lusso di un pianto, in mezzo a tutti. Nessuno se ne accorgerà. In fondo, il freddo giustificherà le tue lacrime. E spesso, in autunno, piove.

la-storia-del-mondo-in-cento-oggetti

Il libro ha 700 pagine. Ci tengo a precisarlo subito. Ma ci sono molte immagini, anche questo è importante. Ed è un libro di storia, seppur scorrevole quanto un romanzo. È un’acrobazia di scrittura, un virtuosismo di stile e buon gusto, un libro che il solo pensare di scriverlo sembra una follia.

Neil MacGregor sceglie 100 oggetti esposti al British Museum (di cui è direttore) e li utilizza come leve per imboccarti l’intera storia dell’umanità che, al contrario dei libri scolastici, delle enciclopedie o delle pesantissime pagine di Wikipedia, divori con avarizia e curiosità, stupore e talvolta eccitazione.

100 oggetti, 100 capitoli lunghi una manciata di pagine, si leggono sia in ordine cronologico che sparso, uno alla volta, anche uno al giorno. Piccoli pezzetti da trangugiare in qualunque momento della giornata: prima di andare a dormire, in pausa pranzo, a colazione.

100 oggetti non particolarmente famosi. Anzi, spogliato dell’Onda di Hokusai e del Rinoceronte di Dürer, nel volume non restano altre opere “pop”, ma l’autore crede fortemente nella rilevanza storica di ogni oggetto, persino di utensili che, al mio occhio ignorante, appaiono come vecchi utensili e basta. E invece hanno un enorme potenziale narrativo. Raccontarlo è il suo modo di dar loro una seconda possibilità per essere apprezzati, ed è anche un metodo incredibilmente romantico di far aumentare le visite al museo (perché il libro è anche, e in fin dei conti, uno acuto strumento di marketing).

È come se ogni oggetto avesse una storia invisibile, ecco, MacGregor racconta quella storia. Parlare dell’Onda di Hokusai è relativamente facile, con studio e pazienza chiunque riuscirebbe a scrivere almeno una paginetta zuppa di frasi interessanti. Ma intrattenere ed entusiasmare descrivendo monete d’oro indiane, coppe neppure affascinanti rinvenute nei pressi di Gerusalemme o maschere messicane di pietra, beh, la questione si complica, e l’abilità nella scrittura non è più sufficiente. Servono nuovi occhi, capaci di vedere l’invisibile e trasformarlo in argento. Questa abilità, di cui l’autore è padrone, sarebbe un’arma invincibile nelle mani di copywriter, storyteller e pubblicitari. E questo libro, La Storia del Mondo in 100 Oggetti, è uno strumento didattico molto più efficace di guide e volumi che promettono di svelare i segreti del marketing.

Un grandioso lavoro di scrittura e ricerca

Le storie raccontate attraverso gli oggetti, ovviamente, non sono storie inventate. Sono piuttosto il risultato di una paziente ricerca che, esposta con ordine e precisione, diventa un tassello della storia del mondo. La descrizione di un oggetto, in realtà, è un pretesto usato per spiegare i cambiamenti sociali, politici ed economici delle più importanti tappe della storia umana.

Il cronometro della Beagle - La storia del mondo in 100 oggetti

L’oggetto che più mi ha colpito è il “Cronometro della Beagle”, un cronometro inglese in ottone risalente tra il 1.800 e il 1.850. È famoso perché fu consegnato alla Beagle, la nave sulla quale salpò Charles Darwin nel suo viaggio intorno al mondo, dal quale sarebbe nata la celebre teoria dell’evoluzione. Ma l’autore non si concentra su questo, preferisce invece mostrare quanto sia cambiato il mondo grazie a tecnologie come il cronometro per la navi:

Per portare a compimento la sua missione, tracciare una carta geografica della linea costiera del Sudamerica, la Beagle aveva bisogno di misurare con accuratezza latitudine e longitudine. Il cronometro permetteva per la prima volta un rilevamento cartografico degli oceani estremamente preciso, con tutto quello che ciò comportava per la creazione di rotte commerciali sicure e rapide […]. Per far fronte a possibili discrepanze, o errori, la Beagle aveva a bordo 22 cronometri: 18, compreso il nostro, erano forniti dall’ammiraglio, e 4 dal capitano, Robert Fitzroy, secondo il quale 18 non sarebbero bastati per un lavoro così lungo e importante. Dopo cinque anni di mare, gli 11 cronometri ancora funzionanti mostravano una discrepanza di appena 33 secondi rispetto all’ora di Greenwich. Per la prima volta una cintura cronometrica dettagliata avvolgeva la terra.

Il cronometro marino permetteva dunque ai marinai di trovare la longitudine con enorme precisione, e da un oggetto così piccolo è nata una vera e propria rivoluzione dei viaggi e della geografia. La cartografia moderna incomincia proprio da questa piccola scatoletta di legno con all’interno un orologio, anzi, un cronometro in ottone. Come dicevo, gli oggetti sono pretesti per raccontare una storia, un cambiamento, un tassello del passato.

È questa la magia del libro. La magia degli oggetti. È questa, come scrivevo precedentemente, la storia invisibile trasformata in argento.