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Ci sono parenti che incontri solo ai funerali. Quelli, sono i mezzi parenti. Con loro si parla poco e sempre delle stesse cose. Della vita, del tempo che passa, il lavoro, da quant’è che non ci si vede, e i figli. Si fa un breve riassunto di tutto quello che è accaduto tra un funerale e l’altro, insomma. Li si incontra anche ai matrimoni, ogni tanto, ma accade che in qualche modo riescono persino a non presentarsi, talvolta anche per merito degli inviti di nozze che precisano “È gradita la presenza” ma lasciano intendere, tra le righe, “È più gradita la non presenza”. Eppure esistono e respirano, occupano spazi e riempiono silenzi, ma della loro esistenza nulla interessa, nemmeno il legame di sangue, che nella maggior parte dei casi è solo una questione genealogica. I mezzi parenti valgono poco più di semplici conoscenti, sicuramente meno di un qualsiasi amico del bar. E non è sempre così. È anche una questione geografica, e quindi culturale. In alcuni posti basta la parentela anche alla lontana, magari lontanissima, per festeggiare ogni incontro. In altri, invece, si cerca di mantenere una certa distanza di sicurezza. Non si sa bene perché, c’è solo una volontà di delineare per bene i propri territori e di affezionarsi solo a certi amici e certi i parenti, non i mezzi parenti, o i mezzi amici, che grossomodo sono la stessa identica cosa.

Immagine di Marco Morosini 

Antonio percepì che involontariamente era scappata una parola di troppo, e subito pensò a Melissa e Mattia, poi a Michele, poi al figlio che non aveva mai avuto, al bambino inteso come figura, come immagine in sospensione nel mondo, di cui è figlio e futuro, di cui è meraviglia e trasposizione di quell’amore, quel grande amore che supera ogni tentazione e s’impadronisce di un’immensa forma di benevolenza. La stessa con cui dovevano essere stati concepiti poi forgiati il mondo e l’universo. Un bene intenso e grave, di smisurata lunghezza e cieca profondità, talmente grande da non poter essere visto o toccato, ma solo percepito, percepito, come solo si percepisce la fede, si percepisce Dio.

Che non si vede ma chi ci crede lo sente, dentro, lo percepisce con un senso che non ha nulla a che fare con qualcosa di sensoriale, ma pulsa in profondità, in profondità, giù, giù nella gola e poi nell’anima, dentro alle ossa, nei polmoni e in ogni respiro, ogni respiro, magari un soffio, un fiato, uno spasmo, un istante, un segreto, un movimento impercettibile di un nervo, uno scatto improvviso di un dito, la punta di un dito che si muove senza volere e indica qualcosa, indica un punto, una direzione, e lì in quel sentiero non c’è niente che si vede con gli occhi ma si percepisce, si sente che c’è, capisci? Capisci questa cosa?

È tutto qui, non si può spiegare se non con le parole, con qualche esempio, ma solo con le parole perché sono l’unica formula in grado di descrivere questa cosa. Se parlassi di un castello, se mi riferissi ad una cosa che è possibile costruire, con i mattoni, la carta o la sabbia, la costruirei identica per farti capire questa cosa, e invece quel percepire non lo puoi lasciar percepire a tua volta, agli altri, non puoi, e allora sei costretto a descriverlo, con un esempio una storia una religione una filosofia un pensiero magari una poesia o anche un solo sguardo ma lo puoi solo descrivere con una certa forma di comunicazione si quella comunicazione fatta di tasselli che sono poi lettere e parole e frasi e versi tutti insieme uniti magari senza punteggiatura si senza punteggiatura perché nel descrivere queste cose non si sa mai se e quando andare a capo. Se e quando si può andare a capo. Se capisci quello che intendo. Antonio la pensa così, su tutta quella questione dei bambini.

Votare è un dovere, un diritto. E tutto quello che ne consegue è effettivamente qualcosa di importante che ha più o meno a che fare con il volere, e il potere. Votare è in alcuni casi il gesto che da il senso alla giornata degli uomini soli. Di certi uomini soli. Che seduti sulla poltrona davanti alla tv un po’ spenta un po’ accesa controllano lo scorrere del tempo con il palinsesto televisivo e i programmi che si susseguono e rincorrono, ma mai si raggiungono e mai s’incontrano, passano uno alla volta e mai assieme, in una triste e buffa solitudine.

Certi uomini soli nel giorno delle elezioni indossano l’abito migliore, scelgono persino il cappello più adatto per l’occasione, solitamente dalla trama scura e tenebrosa, che nasconde dietro al velluto buio gli occhi e lo sguardo. Stringono forte tra le mani la scheda elettorale, la leggono e la rileggano, cercando di ricordare ogni data timbrata al suo interno. Cercando di rianimare un flashback di tutti quei giorni così simili e lontani. E pensare a quel singolo momento in cui si trovano ora, a come sia stato possibile arrivare sino a li, e superare tutto quel dolore e quella fatica, quel sudore e quei tormenti, le voci e gli avvenimenti, uno per volta in fila e a ripetizione, come i programmi televisivi. Votare è l’unico impegno della giornata, e in quell’azione c’è un certo orgoglio e una certa importanza di un singolo gesto, e tutto il resto, poi, conta ben poco.

Nell’incertezza politica si leggono i programmi elettorali e i sondaggi.
Nell’incertezza sul da farsi si leggono gli oroscopi, le notizie dei giornali e i numeri della lotteria.
Nell’incertezza del lavoro si leggono annunci e offerte con speranza e disperazione, voglia, bisogno o ambizione.
Nell’incertezza del tempo si legge il cielo, i suoi colori e le direzioni dei venti, la quantità e la densità delle nuvole, la loro trama che tende o alla panna o al piombo.
Nell’incertezza dell’orario si leggono gli orologi con o senza lancette, i tabelloni alla fermata dell’autobus, le targhette sulle porte dei negozi.

Nell’incertezza su quanto si conosce e quanto non si conosce della vita si cerca di leggere tra le righe, anche quando non c’è davvero niente da leggere, quando non ci sono nemmeno le righe, e le linee, ma solo imponenti discorsi di una certa poesia ed elevazione, e tutto quello che c’è da capire non si nasconde affatto.

Nell’incertezza di ogni giorno si leggono segnali stradali, messaggi pubblicitari e grandi manifesti, si cercano parole di consolazione a domande sempre differenti che alla fine hanno tutte a che fare con il motivo per cui ci troviamo in un posto e spostiamo in un altro.
Si leggono ovunque notizie, orari, segni, preghiere, immagini, paesaggi, situazioni di ogni genere, si codificano apparenze e casualità, distanze e mancanze, così tanto, così a lungo, che capita con incessante severità di non leggere più dentro sé stessi.

Michele guardava la luce affievolirsi, la fissava mentre cambiava colore e filtrava con sempre meno tenacia dalla porta d’ingresso del Circolo Kappa. Sembrava avere una sorta di conto in sospeso con le ombre delle tazzine sul bancone. Non le perdeva di vista un secondo, studiando l’allungarsi delle ombre e quel loro impazzire come fiamme di teatrale oscurità ogni volta che qualcuno passava davanti all’ingresso e faceva da scudo ai raggi di sole. Ombre come fiamme impazzite. Sempre più lunghe, e fredde, fievoli. Se ne stava buono lì anche parecchi minuti nella stessa posizione con lo sguardo fisso su qualcosa che solo lui conosceva. Fermo lì e vai a capire cosa gli passava per la mente. Di tanto in tanto perdeva la concentrazione, e sbadigliava, controllava che il delfino appeso al collo di Lara Loire fosse sempre al suo posto e lo replicava a memoria nella mente. E pensava alla forma della sua ombra se si fosse trovato sul bancone accanto alle tazzine. All’ombra di un delfino, che s’allunga fino a gettarsi via dalla superficie del banco e scivolare via da qualche altra parte. Come tuffarsi nel pavimento, mare di ogni ombra.

Leggo spesso, spessissimo, libri di ogni genere, di ogni autore, dai classici ai saggi, dai racconti brevi ai lunghissimi romanzi. E nel frattempo scrivo, per lavoro e per passione. Ma c’è un autore che mi disturba, mentre leggo le sue tragedie non riesco più scrivere, o almeno non riesco a farlo per me. È colpa di Cormac McCarthy. Non voglio omaggiarlo, non voglio imitarlo, non voglio nemmeno raccontare di quanto mi piaccia il suo ordine nel posizionare ogni singolo vocabolo anche nella frase più banale. È che dopo aver letto una manciata di pagine rimango come turbato, da uno stile, una voce, qualcosa che mi rimbomba nella testa e disperde la mia concentrazione in altri momenti che non appartengono mai al presente o a questo momento qui. Adesso. È tutta colpa sua. E se voglio ricominciare a scrivere devo al più presto smettere di leggere i romanzi di Cormac McCarthy. È qualcosa di molto più pesante e angosciante di un indicibile senso di inferiorità.

Il vecchio era ancora seduto al tavolo con il cappello in testa. Era nato nel milleottocentossessantasette, nel Texas orientale, ed era arrivato in quel paese da giovane. Nel corso della sua vita aveva visto il paese passare dalle lampade a olio, dai cavalli e dai calessi ai jet e alla bomba atomica, ma non era stato questo a confonderlo. Era il fatto che sua figlia fosse morta, era di questo che non riusciva a capire il senso.

Città della pianura, Cormac McCarthy, Eiunaudi 2006.

Ho comprato una lampadina nuova, di quelle di ultima generazione, sulla confezione c’è scritto che dura 12 anni. Ma è possibile? 12 anni di luce. Dovrei provare a tenere il conto per vedere se è vero. Che se poi non lo è, se non dovesse durare per tutto il tempo promesso, con chi me la dovrei prendere?

Con nessuno perché tra 12 anni non ti ricorderai proprio un bel niente di questa lampadina e quando non funzionerà più ne comprerai una nuova e basta. E basta. E se invece durasse solo tre anni? E se ci fosse un corto circuito?

l fatto è che non si possono promettere certe cose. Né i nostri genitori né Dio né nessun altro ci promettono che la vita durerà 80 anni. Ogni vita deve passare attraverso un così alto numero di coincidenze e incidenze che è dannatamente impossibile fare una promessa. O garantire la durata di qualcosa. E allora lo dovrebbero scrivere sulla confezione. Dura 12 anni a meno che… E di seguito una lista di eventualità che possono danneggiare la lampadina.

Già me la immagino come se la tira, la lampadina LED che vive 12 anni, alla faccia delle altre luci alogene della stanza. Racconta loro di qualcosa come una promessa fatta dal signor Philips. Una promessa di lunga vita. Le altre gelose replicano che niente è certo, soprattutto la durata della vita. Raccontano che può accadere di tutto, black out, incendi, incidenti, distrazioni di ogni genere. Lei respinge ogni cosa, sicura della promessa del signor Philips. Le alogene rispondono allora che nessuna certezza è vera se non quella di morire, e che un certo signor Marlboro lo scrive e lo ripete ogni giorno. Che se ne morirà. Se ne morirà di tutto questo, senza un tempo preciso ma con l’unica certezza, perché è l’unica davvero, che la vita finisce. Per uomini, animali, piante e lampadine.

Conosco gente che ha percorso milioni di chilometri intorno al mondo. Intorno, senza riuscire mai a entrarci dentro per davvero. Tutti i porti e tutti i mari, le grandi metropoli e le cime più elevate, le isole nascoste e le città antiche. Milioni di chilometri, passi, mattoni e cemento. Gente che ha calpestato la sabbia, la terra e i prati di tutto il mondo per tornare, sempre, a casa. Perché poi si torna sempre, con qualcosa in più, qualcosa in meno, ricordi, valigie piene e vuote, fotografie, cartoline e souvenir. Conosco gente che ha viaggiato così tanto che alla fine è tornata al punto di partenza. Come se non contassero i chilometri, ma qualcos’altro, non contassero le bandiere, ma una motivazione. Perché alla fine tornano sempre tutti a casa. Che ci vogliano due anni o anche tutto il tempo di una vita. Tornano a casa. Anche lasciando il corpo in un porto nascosto in un’isola della Grecia, o il cuore in una birreria di Monaco, la passione in un bordello francese, il sorriso nel traffico di Tokyo e i vestiti nelle nebbie inglesi. L’anima torna da dove è partita, torna alla prima valigia. Come fosse cenere di ossa cremate, evasa da ogni confine e ogni distanza per posarsi in una giornata di bonaccia davanti all’uscio di casa, ancora impregnato da quell’odore che si percepisce solo in quel posto e in quello soltanto. Anche dopo molto tempo. Quando si torna a casa c’è ancora quell’odore. Conosco gente che mi racconta queste cose, con una prosa elevata ed un piacere nel narrare i dettagli e le pratiche di tutto il mondo, gente che racconta al bancone di un bar, dove il pubblico è sempre lo stesso, che non applaude ma viaggia assieme alle storie del mondo. Conosco questa gente, che quando racconta dei tramonti africani e dei campi di grano si riempie gli occhi di bagliori e luccichii, come quelli degli anziani, che sono sempre un po’ umidicci e non si capisce mai se stiano piangendo.