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Tutta colpa di McCarthy

Leggo spesso, spessissimo, libri di ogni genere, di ogni autore, dai classici ai saggi, dai racconti brevi ai lunghissimi romanzi. E nel frattempo scrivo, per lavoro e per passione. Ma c’è un autore che mi disturba, mentre leggo le sue tragedie non riesco più scrivere, o almeno non riesco a farlo per me. È colpa di Cormac McCarthy. Non voglio omaggiarlo, non voglio imitarlo, non voglio nemmeno raccontare di quanto mi piaccia il suo ordine nel posizionare ogni singolo vocabolo anche nella frase più banale. È che dopo aver letto una manciata di pagine rimango come turbato, da uno stile, una voce, qualcosa che mi rimbomba nella testa e disperde la mia concentrazione in altri momenti che non appartengono mai al presente o a questo momento qui. Adesso. È tutta colpa sua. E se voglio ricominciare a scrivere devo al più presto smettere di leggere i romanzi di Cormac McCarthy. È qualcosa di molto più pesante e angosciante di un indicibile senso di inferiorità.

Il vecchio era ancora seduto al tavolo con il cappello in testa. Era nato nel milleottocentossessantasette, nel Texas orientale, ed era arrivato in quel paese da giovane. Nel corso della sua vita aveva visto il paese passare dalle lampade a olio, dai cavalli e dai calessi ai jet e alla bomba atomica, ma non era stato questo a confonderlo. Era il fatto che sua figlia fosse morta, era di questo che non riusciva a capire il senso.

Città della pianura, Cormac McCarthy, Eiunaudi 2006.

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