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La musica di Björk non assomiglia a nessun altra musica. E non proviene da qualche genere sparso nel tempo, e nello spazio, inizia in un punto esatto, una sorgente, un punto in cui prima non c’è nulla e dopo c’è una valanga di pensieri. Pensieri. Perché quelli di Björk non li capisci mai fino in fondo, soprattutto mentre canta dal vivo, in cui a guardarla non si distingue se pensa all’intonazione, all’interpretazione, a qualche punto focalizzato con maniacale precisione nel pubblico, o se ad un bar incastonato in un viale irlandese. Non lo capisci. E i suoni, quelli se li immagina dimenticandosi di tutta la musica che è venuta prima di lei, prima di quel preciso momento. Dimenticandosi di tutto. Cosa che nessuno, o quasi, riesce mai a fare fino in fondo.

Nei suoi occhi c’è una rara forma di egocentrismo, di piacere e di follia, una velenosa patologia di passione, come una furia, o una fuga, di straordinarie emozioni opposte e per sempre condannate a vivere assieme. Nel suo vestire c’è un narciso intrappolato in un regno di stoffe e colori, materiali e composizioni, quasi un’edera feroce che si mutila e trasforma da musica a pittura, da note a colpi di matita e pennello. La devi ascoltare e guardare, Björk, solo per realizzare che il suo mondo è tutt’altra cosa che questo. Come una fata delle favole, ma in un presente distorto e privo di contrappunto. Nulla di lei si ripete, e nulla, a lei, si può rubare.

Tutto il rock che conosco, che amo, che mi emoziona, e tutta la musica che scrivo, che canto, che sogno, tutta questa energia qui, fatta di note, pause e spartiti, questa folgore è passata tra le dita, i tasti bianchi e i tasti neri dell’organo di Jon Lord. Resta una certa percezione della fragilità della vita, soppesata con raffinata precisione sui piatti di una bilancia fatta di polvere e nostalgia.

Ci si deve pesare di mattina, appena svegli e prima di fare colazione, dicono. Non so come, ma io mi sono pesato di sera, in una sera qualsiasi, prima di andare a dormire: 74,8 kg. Dopo sette ore mi sono alzato e la prima, dico la prima cosa che ho fatto, è stata risalire sulla bilancia: 75,1. Non ci vuole un genio per contare tre etti. Tre etti di cosa? Se non ho mangiato, né bevuto, o compiuto alcuna azione se non quella di addormentarmi e svegliarmi. Dev’essere accaduto qualcosa, tra il chiudere e l’aprire gli occhi. E l’unica azione che unisce la notte al giorno, il sonno al risveglio, ecco, è sognare. Tre etti di sogni.

Come un urlo che si vede e non si sente, si vede mentre esplode in un silenzio cupo, grave, in perfetta sincronia col far finta di niente, col fingere che ci sia un equilibrio, in questi giorni qui, mentre il cielo si sgretola e precipita in polvere. Polvere grassa, quasi sabbia oliata, senza vento che la possa portar chissà dove. Resta qui e s’accumula. E camminarci sopra è un pesante sprofondare. Affondare. Immergersi nel terreno e piantarci i piedi come radici velenose. Perché l’aria è veleno, questi giorni sono malati, e le urla, che si vedono e non si sentono, sono spasmi in nome di Dio. Come urlare contro un foglio bianco davanti alla bocca e lasciarne un alone giallo fumo.

E lascia stare Dio. Mi viene da pensare. Che i casini in cui mi caccio sono dei capolavori personali di esagerata bellezza, e straordinaria follia. Tutte quelle macchie sulle tele di questi giorni, e quell’ansimare, i graffi, e i morsi, schizzi maniacali, gesti di una bellezza infinita, capolavori di mostruosa precisione, danni inspiegabili al cuore. Frantumazioni del mio equilibrio perfetto. Un grande casino in testa. Un dolce pastrocchio. Un urlo che non posso gridare, un grande urlo, che la mia pelle non sa nascondere, e l’anima abbandonare.

Quei momenti in cui non servono parole. In cui le parole non bastano più. E nemmeno i gesti. Quei momenti che di solito hanno a che fare con un certo dolore che s’impossessa di ogni parte del corpo e della memoria. Molti dicono che quando non ci sono parole di conforto la cosa migliore da fare è restare in silenzio. Io non penso sia così. Penso che anche il silenzio sia, in qualche modo, inopportuno. E in quei momenti di strazio fatti di pianti e singhiozzi, non ci sono né parole, né gesti, né silenzi. E questo è quanto.

Quelli che dicono che presto passerà non capiscono proprio un cazzo della situazione. Quelli che dicono “ti capisco” mentono e sbagliano, perché nessuno può conoscere quel dolore, quel dispiacere a cui ognuno, a suo modo, si abbandona. La verità è che il dolore non passerà, non lo farà mai, e il vuoto resterà sempre vuoto, scoperto e abbandonato. La realtà è che i giorni passano comunque, e non ci sono parole, gesti, silenzi, e nemmeno persone che possono capire. Sono momenti sbagliati, sbagliati e basta, sbagliati in ogni loro frangente. E questo è quanto.

Foto di Marco Morosini

La testa è da un’altra parte, un’altra parte, e non c’è modo che il corpo la raggiunga. Non c’è modo. La testa è da un’altra parte, pare verso un lontano amante, che poi lontano è una parola veramente troppo grande da raccontare. Ma comunque il corpo è qui e il pensiero da tutt’altra parte. E il cuore non può battere per due persone. Sarebbe cosa pazzesca, e forse sarebbe è un condizionale ingenuo, poiché è cosa pazzesca, il cuore che batte per due persone, una follia. Scoppierà, scoppierà. Certamente lo farà. Il cuore resta attaccato al busto, incastonato tra costole torace schiena e anima, e lì fermo se ne sta. Eppure batte per la ragione che è qui, ora, e anche per il desiderio, che è incollato al cervello, da tutt’altra parte, verso un segreto amante, lontano, e pure amante è parola sbagliata, volgare, perché senz’ombra di dubbio quel pensiero distante e distratto è più forte della ragione che resta qui e grida alla testa di tornare al suo posto, questo posto.

Lara Loire è troppo anche per il cuore di ogni uomo. Amarla è un gesto così lungo e minuzioso, devoto e raffinato, che non c’è uomo sulla terra che meriti il suo sguardo. Quel sorriso che è luce. Si riconosce tra tutte le cose preziose, Lara Loire, basta voltarsi verso il mondo e intuire quanto di più caro c’è all’orizzonte. Come a guardare il cielo scoperto, di notte, ma guardarne solo le stelle, guardarle brillare, perché tolte quelle, il cielo è sempre lo stesso.

Tratto da Lara Loire ©

Più di una totale devozione al proprio lavoro, René voleva capirne il senso, andare oltre il gesto del fare, del portare a termine ogni mansione, lui voleva capire cosa accadeva dopo. René aveva ereditato l’impresa funebre che da mezzo secolo apparteneva alla sua famiglia e lavorato sodo per nove anni, sino a quando, in un pomeriggio color zinco e piombo passato a dare colpi di martello ai gomiti di un cadavere – un uomo di 84 anni morto congelato sotto mezzo metro di neve – si chiese se in un qualche strano modo, strano ma perché no possibile, l’anima di quel vecchio potesse essersi congelata assieme al busto ed essere rimasta li, fredda ed immobile, in attesa di scongelarsi e scivolare via, da qualche parte, non so dove.

Si chiese questo, appoggiando l’orecchio sul torace dell’uomo, se l’anima fosse ancora lì dentro. Con qualche colpetto di martello alle costole faceva vibrare la cassa toracica, e dopo ogni colpo si metteva ad ascoltare, in silenzio, cercando di capire se qualcosa davvero si muoveva. Gli aprì anche la bocca, un paio di volte, e mentre si impegnava a trattenere il respiro per risparmiarsi l’alito fetido del morto, gli parve, per un attimo solo e uno soltanto, di percepire qualcosa, un soffio di aria calda uscire da quella bocca e attraversargli il viso, come una carezza trasparente e senza forma. Si convinse che quella sensazione doveva essere, certamente, l’anima che abbandona questo mondo.

Iniziò così ad ascoltare e studiare, osservare e ammirare tutti i cadaveri che gli venivano commissionati. Mentre li vestiva e ne univa le mani in segno di eterna preghiera, si soffermava su qualche singolo dettaglio che – riteneva – gli indicasse la via dell’anima. Ma non capitavano spesso corpi ibernati, erano ben più frequenti quelli freddi e stecchiti, quelli morti e basta, e in quei corpi lì, l’anima se n’era già andata da un pezzo. Iniziò così a visitare segretamente gli ospedali, camuffandosi da medico in una solitudine che solo lui poteva capire, e si avvicinava, di notte, ai corpi dei malati terminali, li annusava e li ascoltava, stando attento a scovare la fuga dell’anima nel momento della morte. Li guardava morire e nel preciso istante in cui si spegnevano zompava sul letto come un folle maniaco – muto – che gridava solo nei pensieri “dove sei, dove sei, dove cazzo sei!”.

René passò la vita a cercare l’anima degli altri, perché credeva che scovando quel macabro rifugio in cui si nascondeva sarebbe riuscito, forse un giorno, a trattenere la sua, o a dirottarne la rotta verso uno di quei posti che aveva visto una volta sola nella vita, una volta soltanto e se ne era innamorato, senza più tornarci, in quei posti lì, mai più.

Tratto da Lara Loire ©

Con l’ultima giornata di campionato di Seria A 2012 finisce quella parte di calcio che mi piace, quello che ho conosciuto da ragazzino e di cui mi sono innamorato: il calcio della vecchia guardia.

Non capisco il calcio di oggi, fatto di giocatori tatuati e capricciosi, di club quotati in borsa gestiti (anche) da imprenditori cinesi e ricconi del petrolio. Questo calcio qui io proprio non lo capisco, e quella parte di me che credeva ancora nelle giocate di Del Piero, nelle rapine di Inzaghi, nelle bombe di Batistuta e nelle giocate di Baggio, è svanita. Svaniti loro, i giocatori della vecchia guardia, di cui rimane in attività solo Totti, non ho più alcuno stimolo, proprio nessuno, per seguire le partite.

Da milanista sono contento di vedere Del Piero alzare la coppa nell’ultimo suo anno di attività, perché il mio modo di tifare è fatto paradossalmente così. E sono felice di vedere Inzaghi segnare nella sua ultima partita con la maglia del diavolo. Sono contento anche di smettere di seguire il calcio, tutto quel mondo che non capisco più, che non mi piace più. Saranno i capricci di Balotelli, o le battute di Mourinho, il carattere di Ibrahimovic, non saprei con precisione, ma queste cose qui non fanno per me.

Non fa per me il campionato in mezzo alla settimana, al sabato pomeriggio, al sabato sera, all’ora di pranzo della domenica, al pomeriggio della domenica, all’ora dell’aperitivo di domenica, la domenica sera, all’ora di merenda il venerdì. Il campionato diluito in ogni momento della settimana, è troppo per me. Non fa per me un calcio che tiene Del Piero in panchina. Concordo con Alessandro Baricco quando, riferendosi a Roberto Baggio, dice  che

quando uno sport, per un sacco di ragioni, si rigira in un modo per cui diventa sensato non far scendere in campo il suo punto più alto, allora qualcosa è successo. […] Nella tristezza dei numeri 10 in panca, il calcio racconta una mutazione apparentemente suicida (I Barbari, Feltrinelli, 2006).

Con l’ultima giornata di campionato di Seria A 2012, quello sport che conoscevo io lascia il posto ad una nuova generazione di giocatori e di società che, per me, sono troppo. Non sono peggio o meglio, non fanno per me, e basta. Magari da ragazzino non riuscivo a vedere bene quello che c’era intorno, perciò mi piaceva. Ora vedo ogni orizzonte, e quello che vedo non mi piace. Non ho nemmeno voglia capire, o tentare di farlo. Forse non c’è nulla da capire. Neanche leggendo tra le righe, o tra le linee dell’area di rigore.