Tag Archivio per: pensieri

Nell’incertezza politica si leggono i programmi elettorali e i sondaggi.
Nell’incertezza sul da farsi si leggono gli oroscopi, le notizie dei giornali e i numeri della lotteria.
Nell’incertezza del lavoro si leggono annunci e offerte con speranza e disperazione, voglia, bisogno o ambizione.
Nell’incertezza del tempo si legge il cielo, i suoi colori e le direzioni dei venti, la quantità e la densità delle nuvole, la loro trama che tende o alla panna o al piombo.
Nell’incertezza dell’orario si leggono gli orologi con o senza lancette, i tabelloni alla fermata dell’autobus, le targhette sulle porte dei negozi.

Nell’incertezza su quanto si conosce e quanto non si conosce della vita si cerca di leggere tra le righe, anche quando non c’è davvero niente da leggere, quando non ci sono nemmeno le righe, e le linee, ma solo imponenti discorsi di una certa poesia ed elevazione, e tutto quello che c’è da capire non si nasconde affatto.

Nell’incertezza di ogni giorno si leggono segnali stradali, messaggi pubblicitari e grandi manifesti, si cercano parole di consolazione a domande sempre differenti che alla fine hanno tutte a che fare con il motivo per cui ci troviamo in un posto e spostiamo in un altro.
Si leggono ovunque notizie, orari, segni, preghiere, immagini, paesaggi, situazioni di ogni genere, si codificano apparenze e casualità, distanze e mancanze, così tanto, così a lungo, che capita con incessante severità di non leggere più dentro sé stessi.

Anche i colori non hanno senso e intensità, non bastano più e non servono con un cielo di perla sopra l’erba e sopra l’inverno. È un pretesto per restare al freddo, è una scusa per congelarsi e non congedarsi da ciò che vorremmo ibernato tra l’erba umida di nebbia e madida di noia. È solo un cielo color perla, che rende il mondo più freddo e più fermo, guardato attraverso un filtro più demoniaco dell’oscurità. Perché non c’è mattino e non c’è sera sotto il cielo perlato, le ore disperse in una miscela di lancette oliate, solo la notte è reale, quando è buio per davvero e non si ha paura. Nessuna paura perché ci si barrica in casa con la tv accesa. Ma di giorno si sta come cani senza guinzaglio fuori dal recinto. Fuggiti e fermi, immobili, tra la nebbia e le colline, con una zampa alzata, e piegata, a tenersela vicina al cuore, come a sentire se batte ancora e quanto, per la paura e gli orrori degli inverni, freddi lunghissimi e interminabili, che attraversano le ossa e i polmoni, fracassano muscoli e tendini per trovarsi faccia a faccia con l’anima. E cosa si raccontano non lo saprei dire, e nessuno ne parla mai, o nessun altro mai è tornato dall’aldilà per raccontarci, raccontarmi, di come sopravvivono le stagioni.

Ho comprato una lampadina nuova, di quelle di ultima generazione, sulla confezione c’è scritto che dura 12 anni. Ma è possibile? 12 anni di luce. Dovrei provare a tenere il conto per vedere se è vero. Che se poi non lo è, se non dovesse durare per tutto il tempo promesso, con chi me la dovrei prendere?

Con nessuno perché tra 12 anni non ti ricorderai proprio un bel niente di questa lampadina e quando non funzionerà più ne comprerai una nuova e basta. E basta. E se invece durasse solo tre anni? E se ci fosse un corto circuito?

l fatto è che non si possono promettere certe cose. Né i nostri genitori né Dio né nessun altro ci promettono che la vita durerà 80 anni. Ogni vita deve passare attraverso un così alto numero di coincidenze e incidenze che è dannatamente impossibile fare una promessa. O garantire la durata di qualcosa. E allora lo dovrebbero scrivere sulla confezione. Dura 12 anni a meno che… E di seguito una lista di eventualità che possono danneggiare la lampadina.

Già me la immagino come se la tira, la lampadina LED che vive 12 anni, alla faccia delle altre luci alogene della stanza. Racconta loro di qualcosa come una promessa fatta dal signor Philips. Una promessa di lunga vita. Le altre gelose replicano che niente è certo, soprattutto la durata della vita. Raccontano che può accadere di tutto, black out, incendi, incidenti, distrazioni di ogni genere. Lei respinge ogni cosa, sicura della promessa del signor Philips. Le alogene rispondono allora che nessuna certezza è vera se non quella di morire, e che un certo signor Marlboro lo scrive e lo ripete ogni giorno. Che se ne morirà. Se ne morirà di tutto questo, senza un tempo preciso ma con l’unica certezza, perché è l’unica davvero, che la vita finisce. Per uomini, animali, piante e lampadine.

Di solito con Dio ci parlo prima di andare a dormire. Quando sono già sdraiato nel letto e con le coperte fino al naso. Credo che molti scelgano quel momento lì perché è forse l’unico in cui ci si sente soli per davvero. Al buio, senza difese. Si chiede pietà. Un po’ come arrendersi. O almeno io la penso così.

Quello che è difficile è riuscire a restare concentrati. Recitare una preghiera senza pensare ad altro. Pregare dall’inizio alla fine senza altri pensieri in mente. Come quando si parla alla gente comune: si rimane concentrati su ciò che si racconta, sui significati e sull’esprimere un pensiero nel modo più preciso possibile. Con tono scherzoso, arrabbiato, annoiato, inferocito, contagioso o apatico.

Parlare con Dio, invece, è tutt’altra cosa. Pregare non è per niente facile. Farlo a voce alta aiuta. Ma nella mente, parlare nella mente – perché Dio ti sente comunque – è una prova di fede e concentrazione. E mi capita ogni notte. Ogni notte comincio a recitare una preghiera, a chiedere un aiuto, un miracolo, una qualsiasi cosa e mentre parlo, in solitario segreto, la concentrazione viene dirottata verso altri pensieri, anche i più banali. A volte mi accorgo che concludo una frase del Padre Nostro con quella di un Ave Maria, e non ricordo dove e quando ho sbagliato.

Se Dio ascoltasse veramente tutto, tutto, sai che confusione. E come potrebbe aiutarci. La mia percezione delle cose, e del mondo, di quello che accade e non accade, è che Dio ascolta ogni pensiero, anche il più distratto.

Conosco gente che ha percorso milioni di chilometri intorno al mondo. Intorno, senza riuscire mai a entrarci dentro per davvero. Tutti i porti e tutti i mari, le grandi metropoli e le cime più elevate, le isole nascoste e le città antiche. Milioni di chilometri, passi, mattoni e cemento. Gente che ha calpestato la sabbia, la terra e i prati di tutto il mondo per tornare, sempre, a casa. Perché poi si torna sempre, con qualcosa in più, qualcosa in meno, ricordi, valigie piene e vuote, fotografie, cartoline e souvenir. Conosco gente che ha viaggiato così tanto che alla fine è tornata al punto di partenza. Come se non contassero i chilometri, ma qualcos’altro, non contassero le bandiere, ma una motivazione. Perché alla fine tornano sempre tutti a casa. Che ci vogliano due anni o anche tutto il tempo di una vita. Tornano a casa. Anche lasciando il corpo in un porto nascosto in un’isola della Grecia, o il cuore in una birreria di Monaco, la passione in un bordello francese, il sorriso nel traffico di Tokyo e i vestiti nelle nebbie inglesi. L’anima torna da dove è partita, torna alla prima valigia. Come fosse cenere di ossa cremate, evasa da ogni confine e ogni distanza per posarsi in una giornata di bonaccia davanti all’uscio di casa, ancora impregnato da quell’odore che si percepisce solo in quel posto e in quello soltanto. Anche dopo molto tempo. Quando si torna a casa c’è ancora quell’odore. Conosco gente che mi racconta queste cose, con una prosa elevata ed un piacere nel narrare i dettagli e le pratiche di tutto il mondo, gente che racconta al bancone di un bar, dove il pubblico è sempre lo stesso, che non applaude ma viaggia assieme alle storie del mondo. Conosco questa gente, che quando racconta dei tramonti africani e dei campi di grano si riempie gli occhi di bagliori e luccichii, come quelli degli anziani, che sono sempre un po’ umidicci e non si capisce mai se stiano piangendo.

Piove a dirotto e le gocce di pioggia sembrano spari. Una mitragliata di proiettili d’acqua fini e sottili e letali, che forano, scoppiano e s’arrestano in tanti frammenti prima di unirsi assieme in un dito di bagnato che si innalza sulla strada. Come fossero spari. Che violenza che deve avere il cielo per svuotare tutti quei caricatori senza prendere la mira, sparare e basta verso il basso. Come dire “da che parte miro?”.
– In basso.
– In basso dove?
– In basso e basta.

I fulmini sembrano invece più geometrici, si lanciano come arpioni, sempre verso terra ma ragionando su dove precipitare, a caccia di balene nere, in mare o nei boschi, accompagnati a stento dai tuoni, che all’orecchio arrivano come esplosioni, granate, ma senza fuoco e senza fumo. Spaventano persino i cani, e i cani spaventati non s’avvicinano  all’uomo perché loro sentono la vera paura e non la vogliono condividere con nessuno. I cani amano per davvero e il dolore se lo tengono tutto dentro, lo mandano giù tutto in un sorso con quella loro aria nostalgica negli occhi, da qui il detto essere soli come cani. Soli a guardare la pioggia da dietro la finestra. O fuori, in mezzo alla strada a farsi trivellare dai proiettili. Soli in mezzo alla strada bagnati fradici con la macchina fotografica, a scattare istantanee senza mai riuscire, dico mai nemmeno una volta, a fotografare la pioggia.

Ci vorrà un sacco di tempo per capire che c’è una tecnica precisa per intrappolare le fucilate del cielo e tutta quella faccenda di arpioni, balene e granate dentro ad un unico scatto. Ci vorrà un sacco di tempo e ci si ammalerà parecchio a stare sotto lo scroscio con i calzini zuppi e il culo gelato. Ci vorrà un sacco di tempo per prendere bene la mira. Puntare con precisione.
– Da che parte miro?
– Dritto davanti a te.
– Verso dove?
– Dritto e basta.

Non è vero che il caffè nel vetro è più buono. Non è vero un accidente. Ci sono clienti che me lo chiedono nel bicchiere di plastica, quello da asporto, perché lo ritengono più igienico. Come se io non lavassi bene le altre tazzine. Altri clienti non lo vogliono nel vetro, dicono che le tazzine di vetro si usano meno e quindi si lavano di rado, e c’hanno la polvere dentro, quindi preferiscono la ceramica. È un modo carino per dirmi che non pulisco mai le mie tazzine. Per fortuna alcuni non badano a questa faccenda. Purché il caffè sia buono, dicono. E il mio caffè lo è di sicuro. Poi però lo allungano con il latte. Che porcheria. Caldo o freddo, talvolta tiepido. Roba da matti. Alto, basso, corto, ristretto, un solo goccino, non troppo caldo, bollente, mi raccomando non freddo, con la tazzina bollente, corretto con rum, amaro, whiskey, crema di whiskey, anice, apice, pedice, doppio, tazza piccola, tazza grande, doppio in tazza piccola, doppio in tazza grande, normale in tazza grande, macchiato freddo, macchiato caldo, macchiato con cremina, macchiato perché nessuno è mai contento per davvero.

Quindi io lo servo solo nel vetro e della quantità che ritengo giusta. Per principio. Perché nella sua trasparenza riesco a vedere il colore del caffè, lo spessore della schiuma in superficie, fattori a cui tengo particolarmente. Non è vero un cazzo che è più buono. Lo vedo. Capisci? Lo vedo per quello che è.  

Questo dilemma del caffè è un’ironica similitudine della vita. C’è gente che la corregge con tutto ciò che gli appare sensato, che la riempie con altre cose che non hanno un cazzo a che fare con il vivere. Gente a cui non basta una vita soltanto e se la corregge con stili e atteggiamenti altrui. Come correggere il caffè. Non so se mi spiego. Persone che ce l’hanno servita nella plastica, quella bella vita da asporto, chissà dove se la devono portare. Servita nella ceramica, una vita di cui non ne si capisce un cazzo fino al momento in cui la si sorbisce per davvero, e ne si capisce il sapore solo un attimo prima che sia tutto finito, pochi istanti prima che si spengano le luci dei bar. Servita nel vetro è un’altra cosa. Ne si vede ogni attimo, la densità, lo scorrere del tempo, gli errori e le ipocrisie, le cose belle e quelle né belle né brutte che accadono e basta per il semplice fatto che devono accadere. E nel vetro la vita si manifesta effettivamente per quello che è. Nient’altro per quello che effettivamente è.