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Creare un personaggio come Lisbeth Salander è un po’ come scrivere un disco di quelli che escono uno ogni dieci anni. Che ne so, roba da Pink Floyd. E anche Lisbeth la ascolti. Il suono dei suoi passi, pagina dopo pagina, leggero, perché lei è un soffio, un petalo scuro, e forse pesano più i piercing che si porta addosso delle sue ossa. Senti lo strusciare della sua giacca di pelle contro quella delle persone che schiva, e schifa. Senti anche la sua voce. Un po’ maschile, eppur sottile. Continua a leggere

sua maestà il caffè

“Sua maestà il caffè” è un racconto elegante e raffinato sulla storia della bevanda nera. Un racconto, dico, non tanto perché c’è una trama, ma perché l’autore scrive con una tale mania e una tale precisione sul metodo, che chi ha il cuore di leggere il libro capisce che quello che conta non è la bevanda, ma sono le minuscole storie che si incontrano scorrendo tra le pagine del suo passato. Più che scrittura, quella di Pietro Semino è un’esibizione artistica. Gli dev’essere accaduta una cosa che per uno scrittore è una sorta di ipnosi: fissarsi su di un’immagine e impazzire per la sua perfezione. Studiarla, smontarla, scolpirla e riordinarla in un libro.

Dov’è nato il caffè? In quanti modi si può degustare? Quante tipologie esistono? Quali pittori ne hanno dipinto? Quali cantanti ne hanno cantato? E quali scrittori, o registi, o personaggi famosi, ne hanno scritto e raccontato? Quando uno si ficca in testa queste domande qui, o ne esce pazzo o ne scrive un libro, appunto. L’autore si concentra sulle immagini e sui gesti, e scrive un bellissimo approfondimento su di un prodotto di cui ci deliziamo tutti i giorni senza saperne nulla in proposito. L’unica cosa che manca a questo libro è un accenno su di un dibattito tutto italiano: è meglio nella porcellana o nel vetro?

Oltre a incantare, interrompere, offendere, rimare e trasportare, le parole hanno anche lo strano potere di fermare un preciso momento. Che siano scritte o raccontate, incise o sussurrate, sono indelebili e impongono un certo ordine ed una precisa misura alle cose. Sono come firme che autenticano gli eventi. Ricordi. Voci lontane.

Che io debba scrivere è cosa di cui sono sicura. C’è in me un desiderio struggente di esprimere la mia vita in una forma duratura. – Christa Wolf

Magari è per questo che certa gente non sa stare in silenzio. Che parla anche a costo di sprecare parole solo per fermare qualche frammento nel tempo, un legame, un istante, un saluto, un ricordo. Per non restare sola. E pensare che su questo pianeta ci sono sette miliardi di abitanti, è difficile credere che possano soffrire di solitudine. Le parole sono una buona medicina. Ecco perché i social network. Perché Twitter, si, si, bastano anche 140 caratteri per sentirsi meno soli. Eccome.

Il grande Gatsby - Daisy Fay

Servono poche pagine per capire che Il Grande Gatsby è un romanzo straordinario. Ben scritto, ricco di aggettivi ricercati e mai inopportuni, allo stesso tempo leggero e scorrevole. È soprattutto un romanzo di solitudine, i cui personaggi sono tutti inesorabilmente soli, affogati nei vizi e nello sfarzo di una città che pulsa di gente annoiata e trasparente. Eppure un’anima ce l’anno, Gatsby, Nick, Tom, e persino Daisy, seppur bucata e svuotata della ragione. Ed è l’anima più triste di cui abbia mai avuto il piacere di leggere.

Serve una certa padronanza del linguaggio, della penna e del cuore per scrivere una storia del genere, raccontare di una solitudine grande quanto il desiderio di non fuggirle mai per davvero. Occorre vedere la gente da alte prospettive per creare un personaggio come Jay Gatsby, talmente ambizioso da uscire in giardino, di notte, per verificare la porzione di cielo che gli spetta. Occorre vedere le storie invisibili che ogni persona si porta addosso, per raccontare il fascino di Daisy Fay, dal viso triste e bello – penso anche alla follia, riuscita, di trovare un’attrice con questo viso per la riproduzione cinematografica. Il tutto si riduce poi al silenzio del grande castello di Gatsby, immobile e impassibile, diviso da una distanza fioca dalla casa di Daisy. Il simbolo di tale lunghezza è una luce, verde, un piccolo lume, che brilla sul molo dalla parte opposta del mare tra West Egg e East Egg, una breve prossimità che è la stessa che divide ogni uomo dalla parte migliore di sé.

E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter sfuggire mai più.

Antonio percepì che involontariamente era scappata una parola di troppo, e subito pensò a Melissa e Mattia, poi a Michele, poi al figlio che non aveva mai avuto, al bambino inteso come figura, come immagine in sospensione nel mondo, di cui è figlio e futuro, di cui è meraviglia e trasposizione di quell’amore, quel grande amore che supera ogni tentazione e s’impadronisce di un’immensa forma di benevolenza. La stessa con cui dovevano essere stati concepiti poi forgiati il mondo e l’universo. Un bene intenso e grave, di smisurata lunghezza e cieca profondità, talmente grande da non poter essere visto o toccato, ma solo percepito, percepito, come solo si percepisce la fede, si percepisce Dio.

Che non si vede ma chi ci crede lo sente, dentro, lo percepisce con un senso che non ha nulla a che fare con qualcosa di sensoriale, ma pulsa in profondità, in profondità, giù, giù nella gola e poi nell’anima, dentro alle ossa, nei polmoni e in ogni respiro, ogni respiro, magari un soffio, un fiato, uno spasmo, un istante, un segreto, un movimento impercettibile di un nervo, uno scatto improvviso di un dito, la punta di un dito che si muove senza volere e indica qualcosa, indica un punto, una direzione, e lì in quel sentiero non c’è niente che si vede con gli occhi ma si percepisce, si sente che c’è, capisci? Capisci questa cosa?

È tutto qui, non si può spiegare se non con le parole, con qualche esempio, ma solo con le parole perché sono l’unica formula in grado di descrivere questa cosa. Se parlassi di un castello, se mi riferissi ad una cosa che è possibile costruire, con i mattoni, la carta o la sabbia, la costruirei identica per farti capire questa cosa, e invece quel percepire non lo puoi lasciar percepire a tua volta, agli altri, non puoi, e allora sei costretto a descriverlo, con un esempio una storia una religione una filosofia un pensiero magari una poesia o anche un solo sguardo ma lo puoi solo descrivere con una certa forma di comunicazione si quella comunicazione fatta di tasselli che sono poi lettere e parole e frasi e versi tutti insieme uniti magari senza punteggiatura si senza punteggiatura perché nel descrivere queste cose non si sa mai se e quando andare a capo. Se e quando si può andare a capo. Se capisci quello che intendo. Antonio la pensa così, su tutta quella questione dei bambini.

Leggo spesso, spessissimo, libri di ogni genere, di ogni autore, dai classici ai saggi, dai racconti brevi ai lunghissimi romanzi. E nel frattempo scrivo, per lavoro e per passione. Ma c’è un autore che mi disturba, mentre leggo le sue tragedie non riesco più scrivere, o almeno non riesco a farlo per me. È colpa di Cormac McCarthy. Non voglio omaggiarlo, non voglio imitarlo, non voglio nemmeno raccontare di quanto mi piaccia il suo ordine nel posizionare ogni singolo vocabolo anche nella frase più banale. È che dopo aver letto una manciata di pagine rimango come turbato, da uno stile, una voce, qualcosa che mi rimbomba nella testa e disperde la mia concentrazione in altri momenti che non appartengono mai al presente o a questo momento qui. Adesso. È tutta colpa sua. E se voglio ricominciare a scrivere devo al più presto smettere di leggere i romanzi di Cormac McCarthy. È qualcosa di molto più pesante e angosciante di un indicibile senso di inferiorità.

Il vecchio era ancora seduto al tavolo con il cappello in testa. Era nato nel milleottocentossessantasette, nel Texas orientale, ed era arrivato in quel paese da giovane. Nel corso della sua vita aveva visto il paese passare dalle lampade a olio, dai cavalli e dai calessi ai jet e alla bomba atomica, ma non era stato questo a confonderlo. Era il fatto che sua figlia fosse morta, era di questo che non riusciva a capire il senso.

Città della pianura, Cormac McCarthy, Eiunaudi 2006.

Quanto puoi spingerti lontano e quanto puoi cercare qualcosa che nemmeno sai cos’è. Senza conoscerne forma e dimensione, colore e odore, con il rischio di farti fregare dalla geometria delle ombre e delle nuvole. Non è una domanda. Quanto puoi spingerti oltre il confine, in paesaggi e inverni lunghi e senz’anima, privi anche di case, e di anime, incontrando solo cani e persone che della vita si son stupiti per la sua fatalità, la crudeltà che si manifesta in gesti raccapriccianti e parole di terrore. Quanto puoi spingerti lontano da solo con un cavallo senza ferri e senza alcuna voglia di portarti a spasso oltre il confine, oltre il confine, oltre il confine. Quello che cerchi è una terra fantasma, non c’è, non c’è, ma sei convinto possa nascondersi in quelle casette di adobe in cui nessuno ci abita più. In cui ci sono cani così soli che cercano pulci per compagnia. Non c’è, non c’è. Ad ogni chilometro aumentano le possibilità di essere ammazzato da proiettili che arrivano da lontano, come urla, canti di zingari. Come le parole. Le parole che per essere semplici da comprendere devono essere raccontate con lo prosa di qualcuno che torna da un lungo viaggio. Da lontano.

Si stava scatenando un temporale verso sud, lì dove la strada finiva nel deserto e tutto intorno, sotto le nuvole, prevaleva un colore blu e le sottili strisce dei lampi che si susseguivano con insistenza, sulle montagne in lontananza, di un colore blu vivo, scoppiavano nel silenzio più assoluto, come un temporale in una campana di vetro.

Oltre il Confine, Cormarc McCarthy, Einaudi editore.

Un libro che non mi piace, non mi piace e basta. Non c’è molto da fare. Di solito mi bastano un centinaio di pagine, a volte meno, per capire se un romanzo riesce a condurmi fino all’ultima frase. E solitamente ci arrivo sempre, alla fine. Ci sono poi rari casi, rarissimi, in cui proprio non ce la faccio. A volte è lo stile dello scrittore che mi innervosisce, o la trama poco convincente, o qualcosa di scontato, o troppo estremo. Insomma qualcosa che proprio non va. Come mettere troppo olio in un piatto di pasta. E allora lo abbandono, sia il libro che, in caso, il piatto di pasta. Se non mi piace non mi piace, c’è poco da fare. E anche fra dieci anni probabilmente non mi piacerà. Mettiti l’anima in pace e chiudi quel libro.

La faccio finita con 1Q84 giunto al 30% della lettura (il Kindle considera le percentuali, non i numeri di pagina). Bella l’intenzione, bello lo stile, fantastico il fascino giapponese e le strade di Tokyo negli anni ’80. Ma la sua lentezza, come quella di molte altre cose nella vita, mi ha stremato. Così con un certo silenzio, che poi è il silenzio dei libri digitali, metto fine a questa lettura, convinto che probabilmente non la ricomincerò mai. Con un certo silenzio ed una stanchezza costante, quella di tutti i giorni. Proprio tutti, non c’è scampo, non c’è aria. Non c’è scampo e non c’è aria. Solo il respiro, sordo e vuoto e senza volume, prima di sbuffare un po’ di noia, sbuffare un sottile filo di fiato, secco, e poi chiudere, senza rumore, 1Q84 di Murakami.