Credo che ogni città abbia con sé una certa magia, un’intensa bellezza che può nascondersi in cose anche banali, è solo questione di trovarle. Mica c’è bisogno di un monumento, una torre, la barriera corallina o cose del genere. Quelle sono altre cose. Io parlo di quello che c’è per le strade, i negozi, le luci, i neon, i profumi, cose così. Mi ricordo quando qualche anno fa alle 5 del mattino rientravo in albergo passeggiando tra le vie di Milano, e ho visto una delle albe più intense della mia vita. Cioè, sono abituato a veder sorgere il sole dal mare – e questo la dice lunga – ma quella mattina li, tra i palazzi annoiati di Milano, c’era una costellazione di colori straordinari che sfondavano le strade, e tutto era, incredibilmente, lilla e perla. E mi viene in mente quel paese sperduto ai confini di Londra, Swan Place, due strade che s’incrociano e decine di negozi di fiori, un laghetto con i cigni che danzano silenziosi, un caffè con dei muffin fatti in casa, l’odore caldo del cioccolato fuso. Questa magia qui.

Non ho mai creduto di riuscire a trovare meraviglie del genere anche in città apparentemente fredde e mute, come Pesaro, che per certe cose mi ha sempre lasciato indifferente alla sue nebbie ed i suoi silenzi. Viverci così, però, qualche giorno alla settimana, mi ha cambiato il modo di vedere le cose e insegnato ad usare tutti e cinque i sensi, cosa che prima non mi era capitato mai. Pesaro e l’odore di cipolla all’ora di pranzo per le vie del corso, si sente solo odore di cipolla, non ne si capisce il motivo. Non è nemmeno un granché per chi come me la odia, ma la cosa mi fa quasi sorridere. Il mare invece, a Pesaro, credo sia molto più salato, o qualcosa del genere, perché al porto e sulla spiaggia lo senti conficcarsi nelle tue narici e ti rimane li per ore, quel calore bianco salato. E come ti allontani dalla spiaggia arriva quello di cipolla, e basta. Mare e cipolla, pazzesco.

Pesaro è ferma, muta, silenziosa, a volte sembra che non ci viva nessuno. Bisogna toccarla per sentire che effettivamente c’è. E se si trova gente lungo il corso, o una fiera nella piazza del centro, vige sempre una certa calma, un preciso equilibrio che non ho mai visto spezzarsi. Ma la cosa più bella è che ci sono decine e decine di librerie. I libri. Ci sono ancora persone, a migliaia direi, che amano comprare libri e toccare la carta nuova con l’odore di fresco tra le pagine ed il sapore giallognolo delle librerie. Se a Swan Place ad ogni cinquanta metri ci trovi un negozio di fiori, nel cuore di Pesaro ad ogni dieci passi ci trovi una libreria.

Questa cosa delle librerie mi fa pensare a quanto cavolo debbano leggere i pesaresi. Quanto tempo debbano trovare, nella loro vita, per leggere. Come se le persone si riprendessero il proprio tempo. Penso a tutte quelle pagine sfogliate, alle dita che scivolano sulle parole e sulle copertine, e tutto quello scrivere che attraversa le persone, al fermare la frenesia e squarciare la nebbia, con i libri. Sembra una cosa da niente, ma se invece ci pensiamo proprio bene è qualcosa di grandioso. È un’armonia, un ritrovare sé stessi. Ritrovarsi in una città che forse ha la forza di rompere la velocità e i rumori. Gli unici suoni che si elevano sul sottofondo della quotidianità sono le note che trapelano dal conservatorio Rossini, una gran confusione a dirla tutta, di fiati ottoni e voci.

È un’atmosfera inquieta e ansiosa, certe volte. Non è facile capirla, Pesaro. Ci sono ancora alcuni conti che non mi tornano, come ad esempio dove cavolo vadano le persone la sera, o come facciano (quelle poche che passeggiano) a non far rumore. Non c’è nemmeno il McDonald’s, forse si sono dimenticati di Pesaro anche loro. Forse se ne sono dimenticati in tanti. Forse sono in tanti che si sono dimenticati di leggere. E di usare tutti e cinque i sensi quando si cammina per le vie di una città. Sembra che stiamo accusando problemi di percezione, del sentire come i posti vivono, e come noi viviamo mentre attraversiamo le strade e i corsi del centro.

Non lo so di preciso che diamine stia accadendo, quando tutto cambierà magari avrò più chiara la questione. Perché solo quando le cose cambiano si capisce cos’è che davvero viene a mancare. Forse è per questo che Pesaro è immobile, e zitta, credo che non voglia cambiare mai, per non perdersi.

Ieri stavo passeggiando sulla spiaggia, mano nella mano con Angelica, per un istante ho lasciato la presa, mi sono abbassato per raccogliere una conchiglia e m’è sembrato come se stessi raccogliendo la mia anima.

Dove finisce la terraferma inizia il mare. Tra i due s’intromette una linea sottile, fatta di porti e vecchie taverne affollate da pescatori e marinai. E tra le onde dell’oceano è possibile ritrovare l’anima perduta nel ventre della terra. Con questa consapevolezza cullata nella prigione intercostale, marinai, pirati e commercianti affrontano i pericoli dei mari, affrontano le tempeste e i mostri marini, calamari giganti e Leviatani. Sfidare tutto ciò è un po’ sfidare la natura, sfidare Dio e la morte, che visti dalla prua di una nave sono esattamente la stessa cosa. La natura dio e la morte. E poi i mostri. C’è un capodoglio, enorme, bianco neve, Moby Dick.

Se esiste un mostro c’è anche qualcuno che lo vuole sconfiggere. Qualcuno che sfida la natura, o Dio, o la morte. Melville ha costruito un suono unico che riusciamo tutti ad immaginarlo con una certa profonda precisione: è un colpo, la gamba di legno del vecchio capitano Ahab di Nantucket, colpisce con divina regolarità le assi del ponte del Pequod, nave quasi fantasma descritta con maestria in ogni suo nodo del legno. Un colpo ogni due passi, uno con la gamba viva, muto e silenzioso, l’altro con la gamba morta, che affonda un suono cupo quasi fosse l’urlo di un demonio. Come se la vita fosse un soffio quieto e la morte una caduta tra le fauci di una bestia.
Ahab è molto più di un capitano, è un uomo ferito nell’orgoglio, è un castello di sabbia che vuole resistere ad un uragano, è ognuno di noi. Sarà sempre ognuno di noi.

Per 600 pagine Melville descriva Moby Dick in tutto il suo terrore, bianco, la descrive senza farla vedere mai, nemmeno da lontano. Perché il male, bianco, è impregnato nelle pagine e nelle parole. Ce n’è talmente tanto che quello che il lettore percepisce non è il timore verso la balena, ma verso il suo cacciatore. Ahab. Io tremo pensando al capitano Ahab che in una notte di fulmini e tempesta grida all’equipaggio <<V’è un Dio che è padrone sopra la terra e un capitano che è padrone sul “Pequod”>>.

Ahab è cocciuto, ingordo e crudele, è al confine della sua cupa esistenza e quello che v’è oltre non è il chiarore del Paradiso ma il colore latteo di Moby Dick. Il male è bianco. E Ahab che riassume l’insofferenza di tutti gli uomini, è vivo ed è oscuro. Un gioco di colori  e significati capovolti, per 600 pagine. E proprio dopo tutta questa lunghissima e incantevole prosa, a meno di cento fogli alla fine, arriva, la balena bianca, stupenda e meravigliosa. Arriva mostrando la sua gobba, “una collina di neve”, come se fosse la morte a salire in superficie e strizzare l’occhio dall’orizzonte. Le ultime pagine sono tutte dedicate alla sua caccia, alla lotta tra la follia dell’uomo e la ragione celeste, tra il bianco e il nero, il nero e il bianco, Ahab e Moby Dick, la vita e l’ingiustizia, l’uomo e la natura, l’uomo e la morte, la morte, la nave affonda in un vortice spietato, e il male non potrebbe mai avere alcun colore, neppure il nero, no, mai il nero, solo, silenziosamente, il bianco.

Immagine: particolare di una foto di Marco Morosini, designer.
Marco Simoncelli - grafica by Davide Bertozzi

Non c’è proprio niente da aggiungere. La fragilità della vita è tutta qui. O tutta lì, sull’asfalto e tra gli appunti di un copione teatrale. E quando i nostri eroi svaniscono così all’improvviso, in un modo che nessuno s’aspetta, quello che rimane è un equilibrio sul quale si soppesano tutte le anime del mondo.


 
 

Penso alle grandi biblioteche e al loro odore sepolcrale di carta invecchiata, alle copertine rovinate e rugose, ricoperte di plastica dilatata e squarciata, le pagine ingiallite e quel romantico mistero che avvolge ogni volume. Penso al peso di tutte quella carta e inchiostro, ai mobili inclinati, distorti e dirottati dal carico della cultura. Librerie immense e infinite, come cimiteri viventi o parcheggi in affitto, versi in libertà vigilata. C’è qualcosa di magico e meraviglioso.
Penso agli anni che passano e all’inesorabile destino dei vinili, delle musicassette, e dei videoregistratori VHS. Penso che iTunes si sia portato via molto più di oggetti storici, credo che in realtà abbia strappato altre cose della quotidianità, come gesti, piaceri, contatti fisici e manie. In cambio ha lasciato leggerezza e velocità. Ha concesso spazio alle mensole e alle vetrine di casa, ha imprigionato l’usura e l’invecchiamento degli oggetti, dando loro l’incantesimo dell’immortalità.

Ho sempre creduto che anche i libri, quelli di carta, quelli che ingialliscono e puzzano di vecchio, quelli analogici, ho sempre creduto che alla fine ce l’avrebbero fatta a salvarsi. La difficoltà di leggere sugli schermi digitali non avrebbe mai vinto la morbidezza e la neutralità dell’inchiostro su carta. Ho sempre creduto.
Poi per una serie di imprecisi e improvvisi motivi, avvenimenti, tecnologie, ho scoperto questo Kindle. Un quaderno in cui è possibile incollare migliaia di storie e di romanzi, un taccuino senza pagine, con una sola lastra che non emette luce e non aggredisce la vista. E pesa poco più o meno come un iPod. Centinaia di libri in 170 grammi, 16×11 cm, meno di 1 cm lo spessore. 170 grammi. Inchiostro elettronico.

Inchiostro come? Elettronico. Roba da uscirne pazzi. Si risparmia spazio, fantastico, e si risparmiano anche tanti soldi, visti i prezzi dei libri virtuali che costano molto bene di quelli stampati. Pazzesco. Si risparmia carta, e Greenpeace ringrazia. Si risparmia praticamente su tutto, anche sul fascino di avere una bella libreria polverosa e ingiallita in casa, bellissima e poderosa. Si risparmia sulla magia delle librerie, con i librai geniali che hanno letto milioni di volumi e sanno consigliare, con loro si parla di cose straordinarie, di storie e nazioni, romanzi e viaggi, terre dimenticate dalle agenzie turistiche e dagli orizzonti comuni. Con i librai si parla di tutto l’universo narrativo. Con un Kindle risparmio proprio su questo universo. È questo il mio problema.

Ci penso di continuo e mi tormento. Sono tentato a comprarlo, anche solo per provare e dargli una possibilità. Sono tentato a rincorrere Moby Dick assieme al Capitano Ahab anche su di un libro che non ingiallisce, per vedere se anche in esso si riesce a sentire l’odore degli oceani e le grida dei marinai.

Non c’è porta che tenga, né ragione ne corrente d’aria, l’odore del caffè di Franco attraversa vetri e finestre, fumi di sigaretta e tavoli da biliardo, lampade verdi, il campionato alla domenica e le coppe in mezzo alla settimana. Quell’odore si percepisce con tutti i cinque sensi, lo si sente scivolare fra le tende trasparenti dei timpani e aggrovigliarsi ai pori della pelle, lo si vede anche mentre attraversa le stanze, i tavoli e i posacenere, quell’odore li, insomma, s’impregna in qualcosa di solido nascosto dietro al petto, incastonato fra le costole. Attorcigliato dentro all’anima quasi fosse una sua cicatrice, ipertrofica e permanente, ricalcata sui pensieri che separano le labbra dalla prima tazzina al Circolo Kappa.

Rumori qualunque, ci sono momenti in cui si possono sentire solo quelli, come il fuoco che brucia una sigaretta mentre una bocca e due polmoni aspirano con determinazione; o il fruscio di una palla sul tavolo #5 che attraversa una fila di birilli; lo stropicciarsi delle pagine dei quotidiani; il mescolarsi delle carte da gioco tra le mani incallite di persone qualunque che riscoprono sé stesse solo entro i muri, i limiti e i confini del bar. Si sentono cose di questo genere, che valgono più per quello che rappresentano piuttosto che per i suoni in sé. I suoni del quotidiano.

Poi ci sono anche i vuoti. E quelli arrivano sempre da lontano, molto lontano, non si sa mai da dove, ma scivolano sotto la coltre di Marlboro e l’umidità e il vapore. Sfuggono anche all’odore del caffè. I vuoti arrivano da qualche parte dimenticata dalla luce dei lampioni, dei neon e delle vetrine, arrivano da una mancanza lontana e feroce. Giungono come ricorrenze, scricchiolando come vetro sotto i passi di chi se n’è andato per non tornare più, di chi deve scontare un ergastolo in paradiso e chi si promette di tornare, presto o tardi. Scricchiolii tenui e brevi. Tasti di pianoforte, briciole e polvere nascoste sotto un tappeto color inverno.

Foto di Fabio Borra, scattata al vero Circolo Kappa.
Testo tratto da Lara Loire.


Come esplode, delle volte, il senso delle cose che voglio dire. La forza delle parole, lo spostare il soggetto nell’ordine lessicale per cambiare drasticamente il senso di ciò che scrivo. Di quello che dico. Che voglio. Di come un punto, così, all’improvviso, accentua il significato. Così. Proprio così. E le virgole, tutte quelle virgole, a centinaia, che stoppano, frenano, rallentano e danno ritmo alla voce e alla lettura, densa e lenta o sottile e veloce, calmano, placano, inclinano e indicano che invece di scrivere voglio prenderti e portati via, voglio suonare una melodia con le lettere, una canzone che non si ascolta ma si legge. Così, per prenderti e portarti via. Prenderti. E. Portati. Via.

Lasciando stare tutta questa faccenda complicata e di mille significati della punteggiatura posso anche provare a toglierti il fiato e la ragione scrivendo senza di essa senza i punti e le virgole e i punti e virgola lasciando che siano l’immaginazione e la ricerca a posizionare gli accenti e le cadenze le danze i salti le accelerazioni gli stop e le pause quelle pause che qualcuno una volta disse che sono più importanti della musica stessa poiché nel loro decidere quale dinamica impostare creano un percorso.

C’è chi c’ha scritto libri poesie o capitoli, in questo modo.
C’è anche chi ci vive, così. Senza punteggiatura.

Ci sono giorni pieni di punti di sospensione, altri zeppi di punti esclamativi, di domanda, con troppe virgole o troppi due punti. Ce ne sono altri in cui non si vede l’ora di andare a capo, o svoltare pagina, o attendere la clemenza di un apostrofo che colleghi la nostra vita a qualcosa di migliore. C’è chi ha la giornata tempestata di segni di punteggiatura e accorgimenti, chi vive tra le parole degli altri, tra virgolette, e c’è chi riesce invece a riempirsi il giorno di sole parole, libere e indipendenti da regole e costrizioni. Quelle persone che non si mettono in vetrina con una grafia elegante e uno stile narrativo straordinario, ma inventano invece nuove cose, significati, melodie. Persone che ascoltano il suono, la pronuncia, gli accenti e il rumore di quando frasi o parole, certe volte, esplodono.

Senti che musica tra le nuvole che scivolano miti sulle ali di libellule sospese all’alba di ogni luce celeste di quelle che profumano di pioggia e di sole mentre tutt’intorno i bagliori e i colori riflettono sulle gocce appese ovunque nelle dense armonie di questi giorni sì questi giorni qui quelli in cui mi sveglio la mattina tra le tue braccia di te che punteggi con raffinata poesia ogni mio tentativo di squarciare la ridondanza di un continuo vivere tra piume rose e parole leggero a galla come un fiore di loto in balia di una corrente che solo le tue labbra sanno dirottare verso argini sicuri di quelli in cui si attracca poche volte nella vita spesso una sola a volte mai quegli argini in cui si ormeggia in quel senso di deriva e si trovano raccolti i frammenti esplosi del senso delle cose che ti voglio dire.

The Road, Cormac McCarthy

Tipo quando finisci di leggere un libro e sei convinto di non aver mai letto niente di più bello. Ecco.

Cormac McCarthy e la sua scrittura spoglia e minimale, o almeno quella dei suoi ultimi lavori, perché i primi romanzi li ha costruiti con mattoni di descrizioni e palate di aggettivi, anche impossibili da incastonare in uno stesso pensiero. McCarthy, che se in Non è un paese per vecchi e Sunset Limited mi aveva catturato per la sua spietata creatività e per l’arte del riuscire a impregnare in quattro parole un immaginario così grande che non basterebbero cento pagine per riuscire a descriverlo, con La Strada mi ha steso al tappeto, mi ha messo KO. Prima di commuovermi nelle ultime tre pagine, in cui è descritto con un miasma poetico il senso della vita, mi son davvero sentito mancare.

La strada

Ambientato in un mondo simile a quello del cartone giapponese Ken il Guerriero, quindi in una terra distrutta, dove tutto è stato bruciato e perduto, dove non cresce più erba verde e l’aria è tossica, con strade ponti e città distrutte. Un uomo e suo figlio camminano verso sud in cerca di qualcosa che nemmeno sanno cosa sia, ma sperano sia migliore della disperazione che stanno attraversando. C’è l’amore di un genitore, la solitudine, il freddo e la fame, c’è una speranza più forte della morte e della fame. C’è uno scrittore che ha disegnato un mondo incredibile nel quale è impossibile non immergersi. C’è il male che sembra non aver rivali, e il bene, ridotto in polvere, continua ancora a soffiare lungo le strade dei boschi desolati.

Non ci sono capitoli, ma molti paragrafi brevi che attraversano periodi a volte brevi come un respiro altri lunghi come un inverno. Qualcosa di stupendo e, soprattutto, creativo. L’oceano plumbeo e il cielo color catrame, e un fuoco di speranza che arde a stento nel cuore dei protagonisti. Ora non è che mi voglio improvvisare critico di libri, non ne son mica all’altezza. Però, un po’ per il lavoro che faccio, un po’ per l’amore per la letteratura e per lo scrivere, e anche per altre piccole cose che hanno a che fare con la comunicazione, insomma, dopo aver letto La strada mi son reso conto che tutte le parole scritte in 5 anni in questo blog, concentrate più o meno in 200 post, non valgono una sola frase scritta nel momento meno ispirato di un McCarthy svogliato in una domenica di noia.

La cenere si sollevava leggera in lenti mulinelli sopra l’asfalto. Studiò quel poco che riusciva a vedere. I ritratti di strada laggiù fra gli alberi morti. In cerca di qualche traccia di colore. Un movimento. Un filo di fumo. Abbassò il binocolo e si tirò giù la mascherina di cotone dal viso, si asciugò il naso con il polso e riprese a scrutare la zona circostante. Poi rimase seduto lì con il binocolo in mano a guardare la luce cinerea del giorno che si rapprendeva sopra la terra. Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: Se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato.

Cormac McCarthy