Le geografie di McCarthy
Tipo quando finisci di leggere un libro e sei convinto di non aver mai letto niente di più bello. Ecco.
Cormac McCarthy e la sua scrittura spoglia e minimale, o almeno quella dei suoi ultimi lavori, perché i primi romanzi li ha costruiti con mattoni di descrizioni e palate di aggettivi, anche impossibili da incastonare in uno stesso pensiero. McCarthy, che se in Non è un paese per vecchi e Sunset Limited mi aveva catturato per la sua spietata creatività e per l’arte del riuscire a impregnare in quattro parole un immaginario così grande che non basterebbero cento pagine per riuscire a descriverlo, con La Strada mi ha steso al tappeto, mi ha messo KO. Prima di commuovermi nelle ultime tre pagine, in cui è descritto con un miasma poetico il senso della vita, mi son davvero sentito mancare.
La strada
Ambientato in un mondo simile a quello del cartone giapponese Ken il Guerriero, quindi in una terra distrutta, dove tutto è stato bruciato e perduto, dove non cresce più erba verde e l’aria è tossica, con strade ponti e città distrutte. Un uomo e suo figlio camminano verso sud in cerca di qualcosa che nemmeno sanno cosa sia, ma sperano sia migliore della disperazione che stanno attraversando. C’è l’amore di un genitore, la solitudine, il freddo e la fame, c’è una speranza più forte della morte e della fame. C’è uno scrittore che ha disegnato un mondo incredibile nel quale è impossibile non immergersi. C’è il male che sembra non aver rivali, e il bene, ridotto in polvere, continua ancora a soffiare lungo le strade dei boschi desolati.
Non ci sono capitoli, ma molti paragrafi brevi che attraversano periodi a volte brevi come un respiro altri lunghi come un inverno. Qualcosa di stupendo e, soprattutto, creativo. L’oceano plumbeo e il cielo color catrame, e un fuoco di speranza che arde a stento nel cuore dei protagonisti. Ora non è che mi voglio improvvisare critico di libri, non ne son mica all’altezza. Però, un po’ per il lavoro che faccio, un po’ per l’amore per la letteratura e per lo scrivere, e anche per altre piccole cose che hanno a che fare con la comunicazione, insomma, dopo aver letto La strada mi son reso conto che tutte le parole scritte in 5 anni in questo blog, concentrate più o meno in 200 post, non valgono una sola frase scritta nel momento meno ispirato di un McCarthy svogliato in una domenica di noia.
La cenere si sollevava leggera in lenti mulinelli sopra l’asfalto. Studiò quel poco che riusciva a vedere. I ritratti di strada laggiù fra gli alberi morti. In cerca di qualche traccia di colore. Un movimento. Un filo di fumo. Abbassò il binocolo e si tirò giù la mascherina di cotone dal viso, si asciugò il naso con il polso e riprese a scrutare la zona circostante. Poi rimase seduto lì con il binocolo in mano a guardare la luce cinerea del giorno che si rapprendeva sopra la terra. Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: Se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato.
Cormac McCarthy
Non ho per niente letto questo post, ma mi ha colpito la foto. Mi è venuto in mente un passo di un libro che ho letto tempo fa.. non so, magari l’hai letto anche tu. Diary di Chuck Palahniuk.
Ci sono delle pagine in cui Misty, con sua figlia Tabbi, corre in un bosco e incappa in una statua di Apollo invecchiata e semi-distrutta. Le sue manie non riescono a distinguere la statua da un un essere umano e si accovaccia nell’erba a proteggere la bambina. E’ un’immagine che mi è rimasta impressa.. e l’ho sempre pensata così, con questo stesso verde.
E’ stato bello ricordarlo 🙂
um…no non l’ho letto, però mi sono appena segnato il titolo, così provvedo al + presto 🙂
grazie ^^