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A Roma ci sono capitato in diverse occasioni e solo nell’ultima mi sono stupito particolarmente. Non che nelle precedenti visite non ne fossi rimasto affascinato, perché non è una questione di bellezza, che a Roma ce n’è quasi da buttare, è piuttosto una sensazione che ho provato, un po’ di soprassalto, cercando il motivo di così tanta maestosità.

Insomma, non è che dall’oggi al domani si decide di costruire Roma. Ci dev’essere una sorta di ambizione, di promessa, un’intenzione di creare qualcosa di eterno, per sempre maestoso e antico oltre ogni dire. Quindi non è un singolo monumento che mi ha colpito, e nemmeno il tempo richiesto per la sua edificazione. Se così fosse non sarei qui a scriverne e basterebbe uno sguardo al Colosseo per smettere anche di parlarne. E invece è un’altra cosa: il motivo. Il perché costruire qualcosa di così immenso e continuare a farlo per sempre.

Mentre riflettevo su questo mi sono venute in mente le parole di Cormac McCarthy nel romanzo “Non è un paese per vecchi”. Descrivono quello che ho provato e lo sguardo con cui ho osservato la bellezza di Roma.

Proprio nell’ultima pagina del libro McCarthy scrive:

Quando uscivi dalla porta sul retro di quella casa, da un lato trovavi un abbeveratoio di pietra in mezzo alle erbacce. C’era un tubo zincato che scendeva dal tetto e l‘abbeveratoio era quasi sempre pieno, e mi ricordo che una volta mi fermai lì, mi accovacciai, lo guardai e mi misi a pensare. Non so da quanto stava lì. Cento anni. Duecento. Sulla pietra si vedevano le tracce dello scalpello. Era scavato nella pietra dura, lungo quasi due metri, largo suppergiù mezzo e profondo altrettanto. Scavato nella pietra a colpi di scalpello. E mi misi a pensare all’uomo che l’aveva fabbricato. Quel paese non aveva mai avuto periodi di pace particolarmente lunghi, a quanto ne sapevo io. Dopo di alloro ho letto un po’ di libri di storia e mi sa che di periodi di pace non ne ha avuto proprio nessuno. Ma quell’uomo si era messo lì con una mazza e uno scalpello e aveva scavato un abbeveratoio di pietra che sarebbe potuto durare diecimila anni. E perché? In cosa credeva quel tizio? Di certo non credeva che non sarebbe mai cambiato nulla. Uno potrebbe anche pensare questo. Ma secondo me non poteva essere così ingenuo. Ci ho riflettuto tanto. Ci riflettei anche dopo essermene andato da lì quando la casa era ridotta a un mucchio di macerie. E ve lo dico, secondo me quell’abbeveratoio è ancora lì. Ci voleva ben altro per spostarlo, ve lo assicuro. E allora penso a quel tizio seduto lì con la mazza e lo scalpello, magari un paio d’ore dopo cena, non lo so. E devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una sorta di promessa dentro al cuore. E io non ho certo intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. È la cosa che mi piacerebbe più di tutte.

McCarthy mi ha fatto riflettere alla promessa di chi ha costruito una città come Roma. Con tutto quello che ne è conseguito e che abbiamo letto nei libri di storia.

È stato come scegliere un nuovo punto di osservazione, una differente prospettiva, e come dietro ad una lente magica ho amato Roma e quella promessa che intravedo, ancora oggi, nello sguardo di chi scopre per la prima volta il Colosseo.

Leggo spesso, spessissimo, libri di ogni genere, di ogni autore, dai classici ai saggi, dai racconti brevi ai lunghissimi romanzi. E nel frattempo scrivo, per lavoro e per passione. Ma c’è un autore che mi disturba, mentre leggo le sue tragedie non riesco più scrivere, o almeno non riesco a farlo per me. È colpa di Cormac McCarthy. Non voglio omaggiarlo, non voglio imitarlo, non voglio nemmeno raccontare di quanto mi piaccia il suo ordine nel posizionare ogni singolo vocabolo anche nella frase più banale. È che dopo aver letto una manciata di pagine rimango come turbato, da uno stile, una voce, qualcosa che mi rimbomba nella testa e disperde la mia concentrazione in altri momenti che non appartengono mai al presente o a questo momento qui. Adesso. È tutta colpa sua. E se voglio ricominciare a scrivere devo al più presto smettere di leggere i romanzi di Cormac McCarthy. È qualcosa di molto più pesante e angosciante di un indicibile senso di inferiorità.

Il vecchio era ancora seduto al tavolo con il cappello in testa. Era nato nel milleottocentossessantasette, nel Texas orientale, ed era arrivato in quel paese da giovane. Nel corso della sua vita aveva visto il paese passare dalle lampade a olio, dai cavalli e dai calessi ai jet e alla bomba atomica, ma non era stato questo a confonderlo. Era il fatto che sua figlia fosse morta, era di questo che non riusciva a capire il senso.

Città della pianura, Cormac McCarthy, Eiunaudi 2006.

Quanto puoi spingerti lontano e quanto puoi cercare qualcosa che nemmeno sai cos’è. Senza conoscerne forma e dimensione, colore e odore, con il rischio di farti fregare dalla geometria delle ombre e delle nuvole. Non è una domanda. Quanto puoi spingerti oltre il confine, in paesaggi e inverni lunghi e senz’anima, privi anche di case, e di anime, incontrando solo cani e persone che della vita si son stupiti per la sua fatalità, la crudeltà che si manifesta in gesti raccapriccianti e parole di terrore. Quanto puoi spingerti lontano da solo con un cavallo senza ferri e senza alcuna voglia di portarti a spasso oltre il confine, oltre il confine, oltre il confine. Quello che cerchi è una terra fantasma, non c’è, non c’è, ma sei convinto possa nascondersi in quelle casette di adobe in cui nessuno ci abita più. In cui ci sono cani così soli che cercano pulci per compagnia. Non c’è, non c’è. Ad ogni chilometro aumentano le possibilità di essere ammazzato da proiettili che arrivano da lontano, come urla, canti di zingari. Come le parole. Le parole che per essere semplici da comprendere devono essere raccontate con lo prosa di qualcuno che torna da un lungo viaggio. Da lontano.

Si stava scatenando un temporale verso sud, lì dove la strada finiva nel deserto e tutto intorno, sotto le nuvole, prevaleva un colore blu e le sottili strisce dei lampi che si susseguivano con insistenza, sulle montagne in lontananza, di un colore blu vivo, scoppiavano nel silenzio più assoluto, come un temporale in una campana di vetro.

Oltre il Confine, Cormarc McCarthy, Einaudi editore.

“Caro amico adesso nelle polverose ore senza tempo della città quando le strade si stendono scure e fumanti nella scia delle autoinnaffiatrici e adesso che l’ubriaco e il senzatetto si sono arenati al riparo di muri nei vicoli o nei terreni incolti e i gatti avanzano scarni e ingobbiti in questi lugubri dintorni, adesso in questi corridoi selciati o acciottolati neri di fuliggine dove l’ombra dei fili della luce disegna arpe gotiche sulle porte degli scantinati non camminerà anima viva all’infuori di te.” Cormac McCarthy.

Sono un’ottantina di parole, a seconda della traduzione. C’è solo una virgola, una soltanto per prendere fiato. Il resto lo devi leggere con calma, anche sbagliando la ritmica, non ha importanza. Quello che conta è che lo inghiotti tutto. Che lo mandi giù fino in fondo. E aspetti.

Ho letto quasi tutti i libri di Cormac McCarthy, quasi. E per tre volte mi è capitato di pensare, appena un attimo dopo aver letto l’ultimo capoverso, qualcosa come “non ho mai letto nulla di così intenso, e bello”. O qualcosa del genere. L’ho pensato dopo aver terminato Non è un Paese per Vecchi, La Strada e ora, di nuovo, al termine di Cavalli Selvaggi (Einaudi, 1996). Sarà per la pulizia del testo, lo spogliarsi delle dense descrizioni che hanno caratterizzato altri scritti di McCarthy, o anche per l’affluenza delle solite frasi straordinarie che svelano segreti della vita, della sua, che vorresti avere anche tu, ma son segreti, e non saranno mai tuoi. O miei. La cosa che più mi ha colpito è la raffinata descrizione di un amore nella sua essenza più primitiva e nella sua durezza più feroce. Senza tanti giri di parole, o metafore, l’autore crea un desiderio immenso senza smielare la narrazione.

Le giurò che se gli avesse affidato la vita non l’avrebbe mai tradita né abbandonata e l’avrebbe amata fino alla morte e lei disse che gli credeva. […] Loro tirarono le tende, fecero l’amore e dormirono abbracciati. Si svegliarono all’imbrunire. Lei uscì dalla doccia avvolta in un asciugamano, si sedette sul letto, gli prese la mano e lo guardò. Non posso fare quello che mi chiedi, gli disse. Vorrei. Ma non posso. Lui percepì chiaramente che quel momento era l’esito di tutta la vita e che dopo non c’era più nulla.

E che dopo non c’era più nulla. In questa frase c’è il senso dell’amore, l’ampiezza, la portata nella vita di un uomo. Qualcosa che riempie ogni senso. E ognuno capisce benissimo di cosa sta parlando. Senza descrizioni, senza colori, e forme, o piani, ogni lettore capisce perfettamente – perfettamente – questo senso di vuoto, l’orizzonte opposto della felicità. Con la stessa durezza Cormac affronta un instancabile legame fra l’uomo e la natura, fra l’uomo e il male, e Dio.

Pensò che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile, che la sofferenza e la bellezza del mondo crescevano di pari passo, ma in direzioni opposte, e che forse quella forbice vertiginosa esigeva il sangue di molta gente per la grazia di un semplice fiore.

C’è un viaggio a cavallo, con due protagonisti, una donna – Alejandra, con i suoi occhi che possono in un batter di cuore sconvolgere il mondo -, c’è un grande silenzio, e la speranza di un mondo migliore che, di solito, non arriva. Ci sono quelle cose che non cambieranno mai, e tanta sofferenza, in ogni sua forma, misura e dimensione. Non mancano gli spari, e il sangue, le questioni d’onore, e ancora attesa, un treno che arriva e se ne va portandosi via qualcosa di profondo che ha a che fare con l’anima.

The Road, Cormac McCarthy

Tipo quando finisci di leggere un libro e sei convinto di non aver mai letto niente di più bello. Ecco.

Cormac McCarthy e la sua scrittura spoglia e minimale, o almeno quella dei suoi ultimi lavori, perché i primi romanzi li ha costruiti con mattoni di descrizioni e palate di aggettivi, anche impossibili da incastonare in uno stesso pensiero. McCarthy, che se in Non è un paese per vecchi e Sunset Limited mi aveva catturato per la sua spietata creatività e per l’arte del riuscire a impregnare in quattro parole un immaginario così grande che non basterebbero cento pagine per riuscire a descriverlo, con La Strada mi ha steso al tappeto, mi ha messo KO. Prima di commuovermi nelle ultime tre pagine, in cui è descritto con un miasma poetico il senso della vita, mi son davvero sentito mancare.

La strada

Ambientato in un mondo simile a quello del cartone giapponese Ken il Guerriero, quindi in una terra distrutta, dove tutto è stato bruciato e perduto, dove non cresce più erba verde e l’aria è tossica, con strade ponti e città distrutte. Un uomo e suo figlio camminano verso sud in cerca di qualcosa che nemmeno sanno cosa sia, ma sperano sia migliore della disperazione che stanno attraversando. C’è l’amore di un genitore, la solitudine, il freddo e la fame, c’è una speranza più forte della morte e della fame. C’è uno scrittore che ha disegnato un mondo incredibile nel quale è impossibile non immergersi. C’è il male che sembra non aver rivali, e il bene, ridotto in polvere, continua ancora a soffiare lungo le strade dei boschi desolati.

Non ci sono capitoli, ma molti paragrafi brevi che attraversano periodi a volte brevi come un respiro altri lunghi come un inverno. Qualcosa di stupendo e, soprattutto, creativo. L’oceano plumbeo e il cielo color catrame, e un fuoco di speranza che arde a stento nel cuore dei protagonisti. Ora non è che mi voglio improvvisare critico di libri, non ne son mica all’altezza. Però, un po’ per il lavoro che faccio, un po’ per l’amore per la letteratura e per lo scrivere, e anche per altre piccole cose che hanno a che fare con la comunicazione, insomma, dopo aver letto La strada mi son reso conto che tutte le parole scritte in 5 anni in questo blog, concentrate più o meno in 200 post, non valgono una sola frase scritta nel momento meno ispirato di un McCarthy svogliato in una domenica di noia.

La cenere si sollevava leggera in lenti mulinelli sopra l’asfalto. Studiò quel poco che riusciva a vedere. I ritratti di strada laggiù fra gli alberi morti. In cerca di qualche traccia di colore. Un movimento. Un filo di fumo. Abbassò il binocolo e si tirò giù la mascherina di cotone dal viso, si asciugò il naso con il polso e riprese a scrutare la zona circostante. Poi rimase seduto lì con il binocolo in mano a guardare la luce cinerea del giorno che si rapprendeva sopra la terra. Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: Se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato.

Cormac McCarthy