Che bello quando al meteo promettono pioggia poi invece spunta fuori il sole. Uno si dà per vinto alla pioggia poi si stupisce di una sorta di clemenza del cielo. Ed è così bello sorridere per quanto di bello si ha la fortuna di vedere, e toccare, quasi un denso attraversare la felicità, in ogni sua forma e dimensione.

Neanche finito di leggere MrGwyn ed ecco una nuova pubblicazione di Alessandro Baricco. Tra le pagine “del romanzo con le lampadine” avevo intuito che i conti non tornavano, che c’era qualcosa che, effettivamente, mancava. Come se Baricco non ce la volesse raccontare tutta. Proprio nel finale, pazzesco, c’era questo titolo che si ripeteva in continuazione, Tre volte all’alba. Una ripetizione ridondante che doveva chiarire questa mancanza che il lettore percepisce  sempre più pagina dopo pagina. Tre volte all’alba, che, stando alla storia narrata in MrGwyn, è il titolo di un libro scritto da uno scrittore “mascherato”. Un titolo che esiste nella storia ed ora, magicamente – marketing, ad essere precisi – è realtà. Un libro raccontato è ora un libro reale. Che tutti possono leggere.

Io ne parlo e ancora non ce l’ho tra le mani. E ho una voglia pazzesca di leggerlo. So già che mi piacerà da morire. Senza averne letta la trama so già di cosa parlerà: del gesto, stupendo, dello scrivere. Precisamente, del gesto di Alessandro Baricco.

Allora sollevò lo sguardo da quelle righe e capì che tutti i ritratti fatti da Jasper Gwyn sarebero rimasti nascosti, come lui aveva desiderato, ma due lo avrebbero fatto in modo singolare, girando per il mondo cuciti segretamente nelle pagine dei libri. Uno lo conosceva molto bene, ed era il suo. L’altro l’aveva appena riconosciuto ed era il ritratto che qualsiasi pittore prima o poi prova fare – quello a se stesso. Da lontano, le parve, si guardavano, una spanna sopra tutti gli altri. Adesso sì, pensò – adesso è come non avevo mai smesso di immaginarla. – MrGwyn, A. Baricco

Succede che vado al bar e nessuno tifa più per Valentino Rossi. Nessuno. Tutti quelli che fino a poco tempo fa sostenevano il nove volte campione del mondo, ora che la sua carriera è scivolata in una brutta crisi, tutti, cazzo, tutti negano di essere stati fan accaniti del # 46. Sono gli stessi che ora lo danno per fallito, gli stessi che improvvisamente si sono rivelati seguaci storici di Marco Simoncelli. Naturalmente, anche questo fanatismo è nato solo dopo la triste scomparsa del pilota di Coriano. E io non capisco questa forma di tifo, che poi parlare di tifo non è nemmeno esatto. Forse è più corretto parlare di una insolita forma di simpatia, che va già meglio. Moda, è perfetto.

In un mondo dove anche gli eroi svaniscono così in fretta, qui, in questo mondo qui, non vedo alcuna possibilità di scampo, di talento, di salvezza. Salvezza, sì, perché i campioni e gli eroi servono anche a questo, per salvarci e farci sognare, evadere dalla realtà. Fanno le cose incredibili, cose che noi non possiamo, ma vogliamo fare, e una di queste è salvarci. Salvarci, che è molto diverso da farsi belli al bar dimostrando di essere in perfetta sincronia con la moda del momento. Salvarci dalla quotidianità, dalle bugie, dai nostri limiti e dalle paure, dai falsi sorrisi e dalle verità trattenute come si trattengono solo gli starnuti.

Che cosa resta dello sport, e che fine fanno i campioni, se nessuno poi si salva… Che cosa rimane del brivido di un sorpasso, dello stupore – stupore – per una staccata violenta, di un traverso. Che cosa rimane se il pubblico smette di cercare un sentimento, un senso, e s’arrende alla paura di tifare con il cuore. Non rimane granché, né dello sport, né dei tifosi.

Succede che vado al bar e tutti indossano la moda più consueta, e tutti appaiono bellissimi con il loro amore per Casey Stoner e per i goal di Ibrahimovic. Vado al bar e scopro solo queste cose qui, e se chiudo gli occhi e mi concentro su quello che c’è da sentire, ma sentire con il cuore, succede che non sento nulla, se non un profondo silenzio. Come se la mancanza di sorpresa generi solamente silenzio, e in questo silenzio precipitano gli eroi. Che fine fanno loro, eccola qui, la fine, nel silenzio e nell’assenza di stupore. E nessuno si salva più.

L’ho incontrato una volta sola, Alessandro Baricco, in un bar qualunque, mi piace pensare sia stato un caso. È successo un paio d’anni fa, a Cattolica, e alla domanda faresti una foto con me?, ha negato di essere sé stesso. Come se quel pomeriggio non gli andasse di essere Alessandro Baricco. L’ho odiato. E pensare che i suoi libri spiccano tutti nella mia libreria, li tengo accanto a quelli che mi hanno lasciato qualcosa, accanto a McCarthy, per rendere l’idea. M’ero anche promesso di non comprare più nulla di suo. Tuttavia la delusione dell’incontro non ha inciso sull’ammirazione dello stile. Pochi giorni fa, a denti stretti e con ancora un velo di rabbia addosso, ho comprato Mr Gwyn. Un’amico mi ha letto una frase, una sola, che mi ha condannato all’acquisto:

Ogni tanto qualcuno lo riconosceva, e allora lui negava di essere chi era.

Boom. È stronzo e non lo nasconde, ho pensato. Poi però, con una precisa riflessione, ho cominciato a pensare ad una sorta di perdono. Ecco dunque Mr Gwyn tra le mie mani.

Il protagonista è davvero pazzesco, conquista per la sua visione dell’arte e delle piccole cose, per il suo nascondersi dai riflettori e per i gesti, incredibili, e i dialoghi, assurdi. Un personaggio talmente gustoso che a metà libro scompare. Basta, da metà libro in poi non c’è più. Come se fosse fisicamente scappato dalle pagine. È come le cose di cui ci si innamora, quelle che a un certo punto della vita scompaiono e non tornano più. Lui passa la staffetta ad uno splendido personaggio femminile, Rebecca, una sorta di Lisbeth Salander ma più dolce, e più grassa. Mr Gwyn è un romanzo (breve) che riassume la carriera dell’autore, con personaggi curiosi come quelli di Castelli di Rabbia e Oceano Mare, la sottile drammaticità di Emmaus e le dinamiche di City. Pazzesco e perfetto, non ci sono altri aggettivi.

Nella cura dei dettagli trovava immediato sollievo. Questo lo portava, alle volte, a raggiungere vette di perfezionismo quasi letterario. Gli accadde, ad esempio, di trovarsi davanti a un artigiano che faceva lampadine. Non lampade: lampadine. Le faceva a mano. Era un vecchietto con un lugubre laboratorio dalle parti di Camden Town. Jesper Gwyn l’aveva a lungo cercato, senza neppure sapere se esistesse, e alla fine l’aveva trovato. Quello che aveva in mente di chiedergli non era soltanto una luce molto particolare – infantile, avrebbe spiegato – ma soprattutto una luce che durasse un certo tempo determinato. Voleva lampadine che morissero dopo trentadue giorni di funzionamento.
– Di colpo, o agonizzando un po’?, chiese il vecchietto, come se conoscesse a fondo il problema.

Ogni onda è diversa dall’altra, e ogni libro di mare è diverso dall’altro. Le interpretazioni sono differenti, e pure le intenzioni. C’è Melville che ci vede un nemico invincibile, Baricco che lo descrive come un grande urlo, Hemingway che lo chiama amico. Amico, però poi ci combatte, e allora è anche nemico. Ci parla, lo sgrida e a volte lo insulta. Ecco l’urlo. Ci combatte e gli chiede scusa. Nel suo raffinato romanzo Il vecchio e il Mare affronta una creatura nobile e gigante, e la vince, ma il trionfo è solo a metà. Come se l’uomo non fosse destinato a vincere per davvero. C’è questo marlin enorme che porta Santiago a spasso per l’oceano in giornate di bonaccia, lo trascina e cerca di umiliarlo, come spesso fa la vita.

A metà libro si capisce una cosa straordinaria, non è una semplice battaglia tra un uomo e un pesce,

è un duello contro il proprio demone custode, quell’ombra che ti si appiccica addosso e vanifica ogni impegno, ogni intenzione, ogni vittoria. E non c’è modo di vincere un mostro del genere. Non c’è davvero modo di vincerlo per davvero. Perché è un nemico, un urlo e anche un fedele compagno. Non te lo levi di dosso. Lasci che sia lui a trascinarti tra le correnti e le maree verso rotte ostili tremendamente distanti dalla terraferma. E non te lo levi di dosso fino alla fine dei giorni, quando stremato si abbandona un attimo prima, un attimo soltanto, che ti abbandoni anche tu.

Chissà perché ha fatto quel salto, pensò il vecchio. Pareva quasi che volesse farmi vedere com’era grosso. Comunque ora lo so, pensò. Vorrei potergli mostrare che tipo d’uomo sono io. Ma allora mi vedrebbe la mano col crampo. Facciamogli credere che sono più uomo di quanto non lo sia e così diventerò. Vorrei essere il pesce, pensò, con tutto quello che ha da contrapporre alla mia volontà e alla mia intelligenza, che sono l’unica cosa che ho io.

Le idee vanno e vengono. Si può cercare di stanarle ma catturarle è sempre un’impresa pazzesca. Le idee vanno e vengono. Come le occasioni della vita. Vanno e vengono, e non sempre riusciamo ad approfittarne. Vanno, son fatte di vento e spirito. Vengono, ma non si ha mai carta e penna a portata di mano.
Le idee e le occasioni. E anche le cose belle della vita. Vanno e vengono. Spesso nemmeno le vediamo. Ancora più spesso non le riconosciamo. Ci sono persone che fingono di non vederle, le occasioni e le cose belle, persone senza idee, rintanate dentro ai bronchi della propria anima color cenere.

Anche i treni vanno e vengono. Hanno ritardi e spesso ti fregano, si fermano sul binario sbagliato, e tu resti lì con la faccia sbalordita e incazzata a guardare il treno che dovrebbe portarti a casa, lo guardi mentre ti lascia lì tutto solo, come un imbecille. Quello non torna a prenderti.
La soluzione è un taxi, un autobus di fortuna o una lunga passeggiata dentro te stesso. C’è che se resti solo, e non sai come uscire da quella situazione di merda, aspettare l’idea di salvataggio non ha senso. Non verrà a salvarti. Non se ne andrà neppure, non c’è e basta. E tu sei solo, e ti senti ancora più imbecille.

Un imbecille senza idee. Che magari c’ha in mano una Moleskine pronta ad acchiapparne qualcuna ma non ci sono penne o matite con cui scriverle e inchiodarle sulla carta. Un perfetto imbecille con un’arma a metà.

Ideas come and go. Campaign for Moleskine.
Advertising Agency: Miami Ad School, USA
Art Director: Jessica Stewart
Copywriter: Nick Panayotopoulos

Disegna con il cacao, Michele. Ha 8 anni e sa disegnare con il cacao su tele bianche fatte di latte. I frequentatori assidui del bar dicono che è completamente matto, talmente fuori di testa da essere un genio in qualcosa di impossibile. Gli anziani, dall’alto della loro saggezza conquistata con migliaia di partite a carte, seduti negli stretti storti sgangherati tavolini di plastica del Circolo Kappa, dicono semplicemente – lui si fa i cazzi suoi; poi con decisione avvicinano le carte al petto, inclinano il mento verso il basso, e con le pupille scavalcano le lenti degli occhiali per inquadrare la zona del bancone in cui Michele versa sottili linee di cacao sul cappuccino fumante che Franco ha appena creato. Creato, perché il cappuccino, dice Franco, è un’opera d’arte di estrema difficoltà tecnica. Insomma Michele deve stare in punta di piedi, non è colpa del suo metro e venti di statura, quello no, è una questione di concentrazione dice lui. Tutto qui, quando qualcuno gli chiede questa storia dello stare in punta di piedi, in casi estremamente fortuiti Michele risponde semplicemente “così mi concentro”, senza aggiungere altro. Ma più frequentemente risponde con un “sssshhhh”. A volte è l’unico suono che gli si sente udire per giorni. Ssssshhhh.

Anche il Dr. Merli, il logopedista, tentò di capire quella faccenda dei disegni con il cacao. E dopo trenta cappuccini con dipinto, tra i quali apprezzò particolarmente quello con il ritratto di Roberto Baggio, diagnosticò sul retro dello scontrino del bar una particolare forma di autismo aggravata da problemi di dislessia e, forse, schizofrenia. Consigliò anche visite specifiche per l’udito e il parere di uno psicologo per l’infanzia. In basso, accanto ad una macchia di latte, scrisse con grafia incerta il nome Morelli.
Quindi è pazzo. Pensò Franco. No, lui si fa solo i cazzi suoi. Risposero gli anziani dall’alto della loro saggezza conquistata con centinaia di vittorie di briscola e rubamazzo fra i tavoli, dieci, del Circolo Kappa.

Illustrazione di Nicolò Rigobello
Testo di Davide Bertozzi, tratto dalle bozze di Lara Loire

Annamaria Testa è una copywriter italiana di successo, guru della comunicazione pubblicitaria. Ho letto, studiato, sottolineato e stropicciato alcuni sui scritti, tra cui La parola immaginata, che considero uno dei libri sacri del mestiere del pubblicitario. Sfogliando le sue pagine si trova un paragrafo pazzesco dedicato alle diverse interpretazioni che si possono dare alle parole. Ce ne sono alcune, spiega, che si prestano ad una doppia lettura, parole come letto, che può essere inteso come sostantivo (il mobile domestico) o anche come participio passato del verbo leggere. Annamaria Testa usa la parola leggere anche nel titolo di un suo libro di racconti: leggere e amare. Anche qui la lettura si presta a due diverse interpretazioni: leggère e amare intesi come due aggettivi, o anche lèggere e amare intesi come due verbi all’infinito. Questa cosa la trovo semplicemente fantastica. Anche un disco di Samuele Bersani si presta a questo gioco: Manifesto Abusivo.

Sospeso fra significati e significanti, ho cercato più volte di mettere in pratica questa tecnica formidabile. Ci sono riuscito in una campagna pubblicitaria per Motopolis, realizzata dall’agenzia pubblicitaria in cui lavoro – P+A. Motopolis è una scuola di educazione alla guida per ragazzi, che si occupa di preparare i giovani all’esame del patentino e alla guida sicura sulle due ruote. In questo caso, il concetto di educazione è alla base di tutto. Ho messo in pratica quanto appreso dagli “insegnamenti” di Annamaria Testa: l’headline della pubblicità dice Educati alla guida. La possibilità di interpretarlo in due modi congruenti, èducati o educàti, è il punto di forza del messaggio, e il logo che strizza liberamente l’occhio a quello di Topolino, collega il prodotto al mondo dei giovani. Insomma, la lingua italiana offre molte più possibilità di quanto comunemente si immagini.

Art director: Gianluca Alessandrini
Copywriter: Davide Bertozzi
Web & communication: Stefano Paolucci