Leggo spesso, spessissimo, libri di ogni genere, di ogni autore, dai classici ai saggi, dai racconti brevi ai lunghissimi romanzi. E nel frattempo scrivo, per lavoro e per passione. Ma c’è un autore che mi disturba, mentre leggo le sue tragedie non riesco più scrivere, o almeno non riesco a farlo per me. È colpa di Cormac McCarthy. Non voglio omaggiarlo, non voglio imitarlo, non voglio nemmeno raccontare di quanto mi piaccia il suo ordine nel posizionare ogni singolo vocabolo anche nella frase più banale. È che dopo aver letto una manciata di pagine rimango come turbato, da uno stile, una voce, qualcosa che mi rimbomba nella testa e disperde la mia concentrazione in altri momenti che non appartengono mai al presente o a questo momento qui. Adesso. È tutta colpa sua. E se voglio ricominciare a scrivere devo al più presto smettere di leggere i romanzi di Cormac McCarthy. È qualcosa di molto più pesante e angosciante di un indicibile senso di inferiorità.

Il vecchio era ancora seduto al tavolo con il cappello in testa. Era nato nel milleottocentossessantasette, nel Texas orientale, ed era arrivato in quel paese da giovane. Nel corso della sua vita aveva visto il paese passare dalle lampade a olio, dai cavalli e dai calessi ai jet e alla bomba atomica, ma non era stato questo a confonderlo. Era il fatto che sua figlia fosse morta, era di questo che non riusciva a capire il senso.

Città della pianura, Cormac McCarthy, Eiunaudi 2006.

Ho comprato una lampadina nuova, di quelle di ultima generazione, sulla confezione c’è scritto che dura 12 anni. Ma è possibile? 12 anni di luce. Dovrei provare a tenere il conto per vedere se è vero. Che se poi non lo è, se non dovesse durare per tutto il tempo promesso, con chi me la dovrei prendere?

Con nessuno perché tra 12 anni non ti ricorderai proprio un bel niente di questa lampadina e quando non funzionerà più ne comprerai una nuova e basta. E basta. E se invece durasse solo tre anni? E se ci fosse un corto circuito?

l fatto è che non si possono promettere certe cose. Né i nostri genitori né Dio né nessun altro ci promettono che la vita durerà 80 anni. Ogni vita deve passare attraverso un così alto numero di coincidenze e incidenze che è dannatamente impossibile fare una promessa. O garantire la durata di qualcosa. E allora lo dovrebbero scrivere sulla confezione. Dura 12 anni a meno che… E di seguito una lista di eventualità che possono danneggiare la lampadina.

Già me la immagino come se la tira, la lampadina LED che vive 12 anni, alla faccia delle altre luci alogene della stanza. Racconta loro di qualcosa come una promessa fatta dal signor Philips. Una promessa di lunga vita. Le altre gelose replicano che niente è certo, soprattutto la durata della vita. Raccontano che può accadere di tutto, black out, incendi, incidenti, distrazioni di ogni genere. Lei respinge ogni cosa, sicura della promessa del signor Philips. Le alogene rispondono allora che nessuna certezza è vera se non quella di morire, e che un certo signor Marlboro lo scrive e lo ripete ogni giorno. Che se ne morirà. Se ne morirà di tutto questo, senza un tempo preciso ma con l’unica certezza, perché è l’unica davvero, che la vita finisce. Per uomini, animali, piante e lampadine.

C’è la nebbia e mi fa male tutto, le ossa, le articolazioni, anche il cuore. Fa male quasi respirare, per il freddo e per tutto quello che accade. Nervi e muscoli sono tesi e rigidi, le articolazioni fuse come leghe di rame, e ogni movimento e ogni sentimento e ogni convinzione che tutto si risolverà, che tutto alla fine andrà bene, è solo l’abbagliante dell’auto che m’acceca. E non vedo la strada e non vedo dove sto andando. Sul sedile non trovo neppure la posizione giusta. Comunque lo regolo e comunque mi regolo mi fanno sempre male le caviglie, e anche la schiena. Le vertebre dure, secche e contratte. La frizione cigola e il freno non è più tempestivo. Fin dove posso guidare nella nebbia. Non lo riesco nemmeno ad immaginare. Non vedo al di là del cofano, e la luce dei fari torna indietro. Non me lo spiego. In fondo alla strada c’è un casello, o almeno una volta lì si trovava. Un casello per uscire dal mondo, paghi il pedaggio e sei fuori, dove non ci sono più urla e odore di lenzuola sudate. Dove non c’è più niente, proprio più niente, e là in quel posto serve un gran fegato per riuscire ad addormentarsi e dormire a lungo senza incubi. O svegliarsi, al mattino, senza ricordarli. Gli incubi. Sogni deliziosi compresi.

Di solito con Dio ci parlo prima di andare a dormire. Quando sono già sdraiato nel letto e con le coperte fino al naso. Credo che molti scelgano quel momento lì perché è forse l’unico in cui ci si sente soli per davvero. Al buio, senza difese. Si chiede pietà. Un po’ come arrendersi. O almeno io la penso così.

Quello che è difficile è riuscire a restare concentrati. Recitare una preghiera senza pensare ad altro. Pregare dall’inizio alla fine senza altri pensieri in mente. Come quando si parla alla gente comune: si rimane concentrati su ciò che si racconta, sui significati e sull’esprimere un pensiero nel modo più preciso possibile. Con tono scherzoso, arrabbiato, annoiato, inferocito, contagioso o apatico.

Parlare con Dio, invece, è tutt’altra cosa. Pregare non è per niente facile. Farlo a voce alta aiuta. Ma nella mente, parlare nella mente – perché Dio ti sente comunque – è una prova di fede e concentrazione. E mi capita ogni notte. Ogni notte comincio a recitare una preghiera, a chiedere un aiuto, un miracolo, una qualsiasi cosa e mentre parlo, in solitario segreto, la concentrazione viene dirottata verso altri pensieri, anche i più banali. A volte mi accorgo che concludo una frase del Padre Nostro con quella di un Ave Maria, e non ricordo dove e quando ho sbagliato.

Se Dio ascoltasse veramente tutto, tutto, sai che confusione. E come potrebbe aiutarci. La mia percezione delle cose, e del mondo, di quello che accade e non accade, è che Dio ascolta ogni pensiero, anche il più distratto.

Il mondo è grande, è così grande. Non se ne vede la fine e non si sa come andrà a finire. Neanche a occhi chiusi la si riesce ad immaginare, la fine. L’ultimo giorno, se poi ci sarà davvero. Quello che so è che ho perso molti amici, in un giorno del genere, l’ultimo. Che per un motivo o per l’altro se ne sono andati e non torneranno più. Non è facile credere che in un’altra vita li rivedrò. Non lo è per niente. C’è un vuoto troppo grande, di una distanza troppo profonda e una lunghezza senza fiato. E un’altra vita fa paura, il solo immaginarla quasi mi terrorizza. Ho perso così tanto in questa. Che un’altra. Non lo so e non voglio saperlo, non voglio ora. Che le ceneri hanno girato il mondo in ogni sua forma e dimensione, in ogni disperata città, perché mi mancano quelle persone, quelle anime dell’ultimo giorno. Le ceneri che si spostano da un paese all’altro anche in assenza di vento. Sono ovunque e le incontro ogni giorno. Nonostante il mondo sia così dannatamente grande e distante e dispersivo e volgare, dappertutto, ci sono i miei amici che mi salutano. La sensazione è che li incontro in grandi spazi di silenzio, senza riuscire a toccarli. Come se la grandezza, e la mancanza, fossero una cosa sola.

A Luca e Giacomo

Conosco gente che ha percorso milioni di chilometri intorno al mondo. Intorno, senza riuscire mai a entrarci dentro per davvero. Tutti i porti e tutti i mari, le grandi metropoli e le cime più elevate, le isole nascoste e le città antiche. Milioni di chilometri, passi, mattoni e cemento. Gente che ha calpestato la sabbia, la terra e i prati di tutto il mondo per tornare, sempre, a casa. Perché poi si torna sempre, con qualcosa in più, qualcosa in meno, ricordi, valigie piene e vuote, fotografie, cartoline e souvenir. Conosco gente che ha viaggiato così tanto che alla fine è tornata al punto di partenza. Come se non contassero i chilometri, ma qualcos’altro, non contassero le bandiere, ma una motivazione. Perché alla fine tornano sempre tutti a casa. Che ci vogliano due anni o anche tutto il tempo di una vita. Tornano a casa. Anche lasciando il corpo in un porto nascosto in un’isola della Grecia, o il cuore in una birreria di Monaco, la passione in un bordello francese, il sorriso nel traffico di Tokyo e i vestiti nelle nebbie inglesi. L’anima torna da dove è partita, torna alla prima valigia. Come fosse cenere di ossa cremate, evasa da ogni confine e ogni distanza per posarsi in una giornata di bonaccia davanti all’uscio di casa, ancora impregnato da quell’odore che si percepisce solo in quel posto e in quello soltanto. Anche dopo molto tempo. Quando si torna a casa c’è ancora quell’odore. Conosco gente che mi racconta queste cose, con una prosa elevata ed un piacere nel narrare i dettagli e le pratiche di tutto il mondo, gente che racconta al bancone di un bar, dove il pubblico è sempre lo stesso, che non applaude ma viaggia assieme alle storie del mondo. Conosco questa gente, che quando racconta dei tramonti africani e dei campi di grano si riempie gli occhi di bagliori e luccichii, come quelli degli anziani, che sono sempre un po’ umidicci e non si capisce mai se stiano piangendo.

Piove a dirotto e le gocce di pioggia sembrano spari. Una mitragliata di proiettili d’acqua fini e sottili e letali, che forano, scoppiano e s’arrestano in tanti frammenti prima di unirsi assieme in un dito di bagnato che si innalza sulla strada. Come fossero spari. Che violenza che deve avere il cielo per svuotare tutti quei caricatori senza prendere la mira, sparare e basta verso il basso. Come dire “da che parte miro?”.
– In basso.
– In basso dove?
– In basso e basta.

I fulmini sembrano invece più geometrici, si lanciano come arpioni, sempre verso terra ma ragionando su dove precipitare, a caccia di balene nere, in mare o nei boschi, accompagnati a stento dai tuoni, che all’orecchio arrivano come esplosioni, granate, ma senza fuoco e senza fumo. Spaventano persino i cani, e i cani spaventati non s’avvicinano  all’uomo perché loro sentono la vera paura e non la vogliono condividere con nessuno. I cani amano per davvero e il dolore se lo tengono tutto dentro, lo mandano giù tutto in un sorso con quella loro aria nostalgica negli occhi, da qui il detto essere soli come cani. Soli a guardare la pioggia da dietro la finestra. O fuori, in mezzo alla strada a farsi trivellare dai proiettili. Soli in mezzo alla strada bagnati fradici con la macchina fotografica, a scattare istantanee senza mai riuscire, dico mai nemmeno una volta, a fotografare la pioggia.

Ci vorrà un sacco di tempo per capire che c’è una tecnica precisa per intrappolare le fucilate del cielo e tutta quella faccenda di arpioni, balene e granate dentro ad un unico scatto. Ci vorrà un sacco di tempo e ci si ammalerà parecchio a stare sotto lo scroscio con i calzini zuppi e il culo gelato. Ci vorrà un sacco di tempo per prendere bene la mira. Puntare con precisione.
– Da che parte miro?
– Dritto davanti a te.
– Verso dove?
– Dritto e basta.