Se chiedi ad un anziano del bar un’opinione sui giovani d’oggi, ti risponde senza tanti giri di parole che i ragazzi non capiscono un accidenti di niente. Gli anziani del bar sono in grado di formulare e teorizzare un governo nuovo ogni giorno, smontare la politica e le problematiche sociali con la stessa semplicità con cui un bambino smonta un castello di Lego. Se ne stanno lì seduti sempre allo stesso posto ogni giorno, per ore intere, senza ordinare nulla di nuovo ma sempre e solo le solite cose. Al mattino presto c’è il caffè, e loro lo prendono liscio, mai una goccia di latte, fa male al fegato, rispondono se glielo si chiede. Al massimo una goccia di Varnelli, se hanno il raffreddore e il naso chiuso. Al pomeriggio vino rosso, o acqua frizzante e vino, che fa bene alla circolazione, e la sera una grappa, due quando fuori fa freddo, o la tisana bollente se non hanno digerito la cena. I giovani non capiscono mai un cazzo e stai tranquillo che una volta la vita l’abbiamo gustata tutta, senza tante cazzate, senza la droghe e tutte quelle schifezze di ferro nella faccia.

C’hanno un fare meccanico molto più che programmato, e quasi tutti hanno un odore addosso impregnato nella pelle nei vestiti e forse nell’anima, che ha un ché di stantio, di colonia e urina. Le loro mani tremano, e anche se le tengono ben salde sul tavolo, ancorate o anche piantate con dei chiodi neanche fossero dei Cristi, quelle non smettono di tremare, non c’è modo. Giocano a carte e bestemmiano, bestemmiano con ferocia e cattiveria, lo fanno con una semplicità imbarazzante, che quando hanno finito di imprecare si capisce che non cambieranno idea su ciò che hanno appena detto. Non lo faranno mai neanche scoppiasse il cielo. E c’hanno questa cosa negli occhi, che sono sempre umidi, come se stessero piangendo ma non lo si capisce mai per davvero e fino in fondo. Non si capisce a cosa pensano, se stanno ancora continuando a bestemmiare con violenza e arroganza dentro di sé, imprigionati nel loro stesso corpo, con sbarre fatte di ossa fragili, muscoli e tendini lacerati.

Mi sarebbero sempre servite e invece mi sono sempre mancate, la parole lontane, a cui do la caccia con perseveranza anche nelle rare occasioni in cui potrei farne a meno. Poi ho trovato, per caso, con il fascino della scoperta accidentale, il Dizionario delle Parole Perdute. Un vero e proprio vocabolario online in cui si trovano sostantivi inusuali – perduti o quasi, appunto – come grammofono, abaco e arrotino, nomi che evocano storie lontane,  la cui descrizione dà vita a racconti tra i più disparati e disperati, che si leggono talvolta con una lacrima di nostalgia, o un sorriso che cuce accuratamente un ricordo prezioso.

Parole perdute, vocaboli, termini e nomi da custodire e da prendere con la massima serietà. Parole preziose, quelle che hanno fatto piangere e soffrire, valgono e vivono tutto il tempo di una vita, apostrofano significati più forti e profondi, riconoscono i contrasti e i colori di tutto ciò che accade, accade e basta ad ogni istante e crea così il presente. Le cerco ogni giorno, le parole perdute, per pizzicare le frasi e stimolare la fantasia e il legame con quanto di più emozionante, e caro, si disperda come le parole nelle storie. Tutte cose che hanno a che fare il nascondersi, senza riuscirci mai completamente.

Antonio percepì che involontariamente era scappata una parola di troppo, e subito pensò a Melissa e Mattia, poi a Michele, poi al figlio che non aveva mai avuto, al bambino inteso come figura, come immagine in sospensione nel mondo, di cui è figlio e futuro, di cui è meraviglia e trasposizione di quell’amore, quel grande amore che supera ogni tentazione e s’impadronisce di un’immensa forma di benevolenza. La stessa con cui dovevano essere stati concepiti poi forgiati il mondo e l’universo. Un bene intenso e grave, di smisurata lunghezza e cieca profondità, talmente grande da non poter essere visto o toccato, ma solo percepito, percepito, come solo si percepisce la fede, si percepisce Dio.

Che non si vede ma chi ci crede lo sente, dentro, lo percepisce con un senso che non ha nulla a che fare con qualcosa di sensoriale, ma pulsa in profondità, in profondità, giù, giù nella gola e poi nell’anima, dentro alle ossa, nei polmoni e in ogni respiro, ogni respiro, magari un soffio, un fiato, uno spasmo, un istante, un segreto, un movimento impercettibile di un nervo, uno scatto improvviso di un dito, la punta di un dito che si muove senza volere e indica qualcosa, indica un punto, una direzione, e lì in quel sentiero non c’è niente che si vede con gli occhi ma si percepisce, si sente che c’è, capisci? Capisci questa cosa?

È tutto qui, non si può spiegare se non con le parole, con qualche esempio, ma solo con le parole perché sono l’unica formula in grado di descrivere questa cosa. Se parlassi di un castello, se mi riferissi ad una cosa che è possibile costruire, con i mattoni, la carta o la sabbia, la costruirei identica per farti capire questa cosa, e invece quel percepire non lo puoi lasciar percepire a tua volta, agli altri, non puoi, e allora sei costretto a descriverlo, con un esempio una storia una religione una filosofia un pensiero magari una poesia o anche un solo sguardo ma lo puoi solo descrivere con una certa forma di comunicazione si quella comunicazione fatta di tasselli che sono poi lettere e parole e frasi e versi tutti insieme uniti magari senza punteggiatura si senza punteggiatura perché nel descrivere queste cose non si sa mai se e quando andare a capo. Se e quando si può andare a capo. Se capisci quello che intendo. Antonio la pensa così, su tutta quella questione dei bambini.

C’è una croce d’acciaio che ciondola dallo specchio retrovisore, le sta avvolta attorno al collo di plastica regolabile, ciondola a lungo anche a motore spento. E questo non me lo spiego. Accendo e parto, attraverso la notte a fari spenti, guido verso nessun posto e alla fine ci arrivo per davvero. Da nessuna parte. Il luogo ideale in cui fermarsi, spegnere l’auto ma non l’autoradio, con i Pink Floyd a basso volume e la croce d’acciaio che non si ferma un momento. La sensazione è quella di sostare in un luogo mai segnato su alcuna mappa, mai raccontato o indicato. Eppure è qui, nemmeno il Tom Tom ha le idee chiare, eppure io sono qui, dove non arrivano le mappe ma giungo io durante l’assolo di Time e la croce che ciondola con un ritmo ansioso e impreciso. In questa notte le lucciole emanano più luce della luna, un’altra cosa che non mi spiego, ma capisco quanto sia facile nel buio della pianura confonderle per lanterne.

Il biliardo è un gioco misterioso. Già l’etimologia del nome non è chiarissima, la maggior parte dei dizionari etimologici tagliano corto dicendo che deriva dal francese billard, radice di bille. Non è nemmeno certo che sia nato in Francia, perché era praticato anche in epoca romane e, a dire di qualche studioso, anche in alcuni rituali egizi millecinquecento anni prima di Cristo.

Per quanto risulti fisicamente poco impegnativo è uno sport che piega prima il corpo poi l’anima sul panno verde, che allontana i giocatori dalla vita familiare e li costringe a lunghi allenamenti, numerose ore di solitudine e pazienti giornate di studio del gioco di quelli più bravi. L’età non sempre conta. Certo, i giovani sono più feroci ed affamati, e spesso il loro colpo è più deciso di quello di un veterano. Il biliardo è uno sport in cui il campione in carica, magari un elegante e teatrale quarantenne, si vede fregare il titolo da un ragazzino di appena diciotto anni. Non servono doti fisiche, ma grande intelligenza, bisogna pensare con un anticipo di almeno quattro mosse. È uno sport complicato, nelle regole e nei movimenti, talvolta è difficile capirne il senso, la profondità, l’intimità.

Anche le donne giocano a biliardo, non molte, poiché la maggioranza si rifiuta a priori di stendere il seno sul panno verde. Tuttavia non sono viste di buon occhio dai giocatori maschi e dai circoli esclusivi, possono entrare come invitate, ma di tessera non se ne parla neanche, scrive Mordecai Richler nel suo ultimo libro, ultimo per davvero, Il mio biliardo – Adelphi 2002.

È uno sport senza grandi almanacchi, senza poster di campioni appesi alle pareti. Talvolta anche nelle grandi sale da biliardo si preferiscono illustrazioni di scarsa qualità alle espressioni impassibili dei campioni, di cui nessuno si ricorda mai il nome. E come ogni altro sport ha le sue barriere, di classe o di razza. Ha una similarità con la box: molte grandi stelle sono rimaste, a fine carriera, senza un soldo bucato, senza famiglia e senza amici.

A suo modo è uno sport pure romantico, a renderlo tale sono certi rumori, come il ronzio delle lampade verdi, il bruciare delle sigarette, il parlare sottovoce, quasi un tenebroso pregare. Romantico e nostalgico, nei colori e nell’atmosfera dei piccoli circoli incastonati in città disperate, eppure mite e narcotico, quasi ipnotico nella sua sinistra eleganza. Va poi sottolineato che tutte quelle cose che si dicono sulle sale da biliardo, che sono posti lugubri, pieni di fumo e bestemmie, che sono locali in cui gli uomini si rifugiano per scappare dalla famiglia e dalle mogli, quelle così li, sono tutte vere.

Scrivere è una piacevole abitudine e trascurarne il gesto è come strappare via un tasto da un pianoforte.

Suonaci ora, sul quel pianoforte, che non è di quelli antichi, in cui il tasto mancante è un elegante segno di antiquariato. Devi suonarci ora, su quel pianoforte moderno e luccicante, privo di un tasto, mettiamo che sia un re diesis, stai tranquillo che presto o tardi ti capita, anche nel più banale degli spartiti.

Da quando sono stati introdotti i software di dettato negli smartphone, come Siri, si tende a scrivere un po’ meno. Basta dettare o anche dare un ordine vocale e il telefono esegue con tiepida precisione. Effettivamente è una grande tecnologia, un superamento del brevetto QWERTY di Christopher Sholes. Io detto, lui scrive. A pensare quante macchine per scrivere deve avere consumato Sholes per trovare il giusto ordine delle lettere sulla tastiera mi viene la febbre.

Ma gli inventori e gli ingegneri hanno il compito di facilitare e velocizzare ogni azione, e l’unico prezzo da pagare, nel tempo, è la perdita del gesto, in questo caso del sedersi con i gomiti sul tavolo e iniziare a scrivere, con carta e penna o monitor e tastiera. Quei gesti li. Io parlo lui scrive, non c’è nemmeno più bisogno di appoggiare i gomiti. Poi però lo voglio vedere nelle ore notturne, quando in casa tutti dormono e io scrivo, no cioè parlo e lui scrive, ma non posso far baccano e detto sottovoce, capirà?
Si perdono i gesti, come il posare la puntina sul disco, o il rumore dei polpastrelli che nella fioca luce della abat-jour martellano sui morbidi rilievi della tastiera. E ci si ritrova a suonare su pianoforti senza un re diesis, che quando serve, non c’è.

Mi piacciono gli orologi. Mi piace averne molti. Non che mi importi particolarmente dello scorrere del tempo, che tanto quello ti frega sempre e comunque, e questo è garantito. Il ticchettio continuo a cui non bado, il peso al polso e lo strisciare con morbida continuità sulla pelle, il freddo dell’acciaio e il vellutato spostamento della plastica gommosa degli Swatch, che sono leggerissimi ma fanno un così gran baccano, queste cose così mi piacciono da morire. Poi l’ora non la guardo quasi mai, tanto è sempre tardi. E se inizio a controllare di quanto sono in ritardo sui sogni che vorrei realizzare finisce che arrivo tardi per davvero, ma dove, poi, dove voglio andare io, che alla fine quel poco di buono che combino è spesso merito di una fortuita occasione, mentre tutti i danni che creo accadono solamente per colpa mia.

Tutto questo ha a che fare con gli orologi, in qualche modo continuo e parallelo al perdere le occasioni buone e perdere me stesso, tra i sentieri dei boschi e gli incroci urbani, senza segnaletiche e direzioni, tra le scelte e le incomprensioni, piene di consigli a cui non ho mai dato ascolto. Preferisco gli Swatch perché fanno davvero un gran casino, scandiscono il secondo con un suono ed un colpo devastante. Mi piace ascoltarli, e guardarli passare, scorrere via e aspettarli all’infinito senza che ne capiti mai uno differente.