VeryBello cultural events

In una cosa noi italiani siamo davvero imbattibili: fare pasticci. Abbiamo l’ambizione di progettare grandi cose, la voglia di comunicare all’americana e tutto il potenziale per poterlo fare. Poi però una volta scesi in campo (proprio come la nazionale degli ultimi anni), combiniamo solo pasticci.

Proprio ieri il ministro Franceschini ha presentato con fierezza e soddisfazione il progetto VeryBello, che ha il compito di valorizzare tutto il Paese e allungare il periodo di pernottamento dei turisti durante il periodo dell’Expo 2015. Il target è, in senso generico, l’intero pubblico mondiale e quello dello stivale. Un po’ ampio per un progetto di comunicazione, ma forse gli ideatori del progetto sono molto ottimisti.

Che cos’è VeryBello?

In poche parole, VeryBello è un sito web. Poco più, davvero. Al di là del nome stravagante e discutibile, che strizza l’occhiolino al celebre brano “That’s Amore”, il sito è un semplice aggregatore di eventi presentati in un’unica pagina. A farla breve: un calendario online. Chi lavora nel mondo SEO e nel web marketing si sarà strappato i capelli nel vedere il proprio Paese presentato senza alcun criterio tecnico (niente SiteMap, Robot.txt, pagine dedicate ad ogni singolo evento e tanti altri ben elencati nel post di Matteo Flora). Chi non lavora in questo settore, invece, probabilmente non troverà mai alcuna voce di questo sito tra i risultati dei motori di ricerca, di certo non si perderà nulla di straordinario.

Al sito si può dare solo una prima occhiata, che è anche l’ultima, c’è davvero poco da leggere e approfondire, ma vale la pena soffermarsi su quello che non c’è, come la seconda lingua, la privacy policy, il nome dell’azienda che ha realizzato il portale (siamo pur sempre in un sito ministeriale, ci dovrà pur essere stato qualche appalto, giusto?) e, magari, un testo di presentazione. Restando in tema “quello che non c’è”, qualcuno noterà che sull’immagine di copertina della pagina Facebook sono state tagliate la Sicilia e la Calabria, alla faccia di valorizzare tutto il territorio italiano.

Epic fail

Ma quello che davvero fa ridere – e pure incazzare – è la gente che festeggia vedendo l’hashtag #VeryBello tra i TT di Twitter. La stessa gente non è a conoscenza, però, che la stragrande maggioranza di tweet a riguardo sono satirici, offensivi e drasticamente critici. E se c’è una cosa che i social media insegnano è che l’antico ideale del “purché se ne parli” oggi è un’enorme cavolata. In meno di 24 ore si sono scatenati più di 15.000 tweet contro il progetto italiano e già testate come La Stampa parlano di epic fail del progetto VeryBello. C’è davvero da esultare?

Ma il Ministro Franceschini cerca di liquidare le critiche, anche quelle costruttive, un po’ come fanno molti altri boss della politica italiana. E questa non è un’altra storia, è sempre la stessa, è la nostra reputazione nel mondo, è la firma italian job.

Se niente importa - artwork

Ho sempre mangiato di tutto, dagli hamburger non identificati di McDonalds ai panini di plastica dell’Autogrill, e vengo da una famiglia che mangia carne tutti i giorni. Insaccati, bistecche, pesce, ragù, salsicce, spiedini, hot dog, pollo fritto e così via. Questo ha fatto di me l’esatto contrario della parola vegetariano e il perfetto sinonimo di tritatutto.

Fino a pochi mesi fa non ho mai prestato particolare attenzione agli animali che finivano nel mio piatto. O almeno, l’unica cosa a cui badavo era il gusto: è buono, non è buono. Nient’altro. Non mi sono mai soffermato sulla loro provenienza, o se avessero trascorso una vita felice prima di finire in mattatoio. Se avessero avuto una famiglia, o a come vivessero in allevamento.

La verità è che di queste cose non me ne è mai fregato niente, e l’alimentazione vegetariana era per me una sorta di rinuncia, una tendenza o addirittura una forma di estremismo, quindi sbagliato.

In generale la gente vuole la carne, l’ha sempre voluta e sempre la vorrà, punto. I vegetariani sono, nella migliore delle ipotesi, teneri ma fuori dal mondo. Nella peggiore sono sentimentalisti deliranti.

Tutto questo fino a quando ho adottato un cane. Vivendo assieme a lui ho scoperto che tutte le cose che si dicono sui cani, sul fatto che hanno sentimenti, che capiscono ciò che diciamo e che sono fedeli al proprio padrone in ogni istante della loro vita, ecco tutte quelle cose li, sono vere. Il mio cane, come tutti gli altri cani, ha pensieri ed emozioni, soffre il dolore, percepisce i pericoli. Ha memoria. Molti altri animali hanno le stesse qualità, anche i maiali. Ma per motivi di costume, sentimento e tradizione, noi occidentali non mangiamo i cani, mentre i maiali si.

Ma siamo davvero convinti di non mangiare mai carne di cane?

Attraverso un processo industriale di trasformazione chiamato rendering, che permette di riciclare proteine animali inadatte all’alimentazione umana facendone mangimi per il bestiame e per gli animali domestici, i cani morti sono trasformati in elementi produttivi della catena alimentare. In America, milioni di cani e gatti soppressi ogni anno nei centri per animali diventano cibo per il nostro cibo. (I cani e i gatti eutanasizzati sono quasi il doppio di quelli adottati ogni anno).

Quindi è solo un passaggio della catena alimentare. Il maiale che io mangio trova nel suo cibo resti di altri animali domestici. E il mio cane, a sua volta, trova resti di altri animali domestici nei croccantini della sua ciotola.

Perché allora non mangio direttamente carne di cane? Perché a me importa della vita e della felicità dei cani. E anche di quella dei gatti.

A me importa e non voglio che la mia alimentazione contribuisca allo sterminio di pesci, maiali, conigli, polli, tacchini e cavalli, non voglio che gli animali soffrano negli allevamenti. Se vi state chiedendo se la bestia che riempie il vostro piatto abbia sofferto durante il ciclo della sua vita, nel 99% dei casi la risposta è si.

Questo perché fatta eccezione di pochissimi allevatori, gli animali che compriamo al supermercato derivano da allevamenti intensivi che ammucchiano, ad esempio, anche 20.000 tacchini all’interno di un capannone rettangolare di 150 metri per 40 metri.

Le uova della tua frittata sono state “covate” da una gallina che ha trascorso la sua intera esistenza (inferiore ad un anno) in uno spazio ampio quanto un foglio A4. Il prosciutto nel tuo panino deriva da un maiale che ha vissuto ogni istante della sua vita in una gabbia talmente stretta da impedirgli di girarsi (il parallelo con un cane rinchiuso in un armadio è abbastanza accurato, per quanto benevolo).

Una vita atroce è peggio di una morte atroce.

Per non parlare poi del modo in cui vengono uccisi: molte mucche, tanto per citare un caso, vengono stordite e fatte a pezzi quando sono ancora in vita (in modo da permettere al sangue di defluire facilitando il taglio). Polli e maiali sono destinati a una fine ben peggiore. Ma anche i pesci degli allevamenti non se la passano granché bene.

Se pensate che tutto questo non sia vero, provate a chiedere ad un produttore di mostrarvi il momento in cui uccide gli animali. Provate a chiedere di visitare un macello di un brand come Amadori (uno a caso). La risposta, nella remota ipotesi che qualcuno si prenda la briga di fornirvela, sarà sempre negativa, o almeno nel 99% dei casi.

I produttori sanno bene che più il consumatore capisce cosa accade davvero in un macello, meno carne ha voglia di mangiare.

Queste sono le motivazioni per cui ho deciso di non mangiare più carne animale. Certo, non è facile, e la mia dieta non è priva di contraddizioni (perché allora mangio i derivati come uova e formaggi? Anche questi derivano quasi sempre da allevamenti intensivi in cui gli animali vengono picchiati, maltrattati e dopati con antibiotici), ma quello che posso dire, oggi, anche in seguito alla lettura del libro da cui sono tratte le citazioni di questo post è: a me importa della vita degli animali.

Per quanto possa sembrare semplice, questa risposta è la mia motivazione e mi ha permesso di cambiare idea dopo 29 anni di cucina carnivora. Altri trovano la propria motivazione dopo studi approfonditi sulle malattie causate dal mangiare carne e dai benefici della cucina vegetariana, o addirittura per questioni ecologiche: l’allevamento intensivo è responsabile del 18% delle emissioni di gas serra e del 70% delle deforestazioni del pianeta, senza contare i danni del consumo del suolo e dell’inquinamento da nitrati.

Se niente importa – perché mangiamo gli animali?

Il libro di Jonathan Safran Foer, parla del mio motivo, e offre un’attenta e brutale analisi sul modo in cui vengono allevati gli animali oggi (con tanto di interviste dirette ad allevatori e animalisti), sui farmaci che vengono loro somministrati, sul modo in cui si riproducono (artificialmente) e, in alcuni casi, sui maltrattamenti documentati.

“Se niente importa – perché mangiamo gli animali?” non è un libro sul diventare vegetariani, ma si rivolge a tutti i consumatori di carne, per far luce su quello che mangiamo ogni giorno e soprattutto quello che diamo da mangiare ai nostri figli.

Ben scritto e facilmente scorrevole, il libro offre una tonnellata di fonti che documentano i fatti raccontati e si concentra, senza alcuna pietà, su come la tecnologia abbia permesso all’uomo di trasformare il pianeta in un luogo di sterminio (animale) di massa. Tuttavia l’autore confessa un sottile e trasparente velo di ottimismo verso il futuro:

Quando cambia il nostro modo di mangiare cambia il mondo.

 

 

 

 

Agli sgoccioli di dicembre qualcuno aspetta la neve, qualcuno il Natale, sicuro c’è chi li desidera entrambi. Si corre per i regali e sulla calcolatrice per non sforare con le spese. Ci sono le ferie, per alcuni, gli straordinari per altri, o anche la semplice routine per chi non fa differenza tra gli ultimi giorni dell’anno e quelli della primavera, abbigliamento e nebbia a parte. I social network e le pagine dei taccuini si riempiono di buoni propositi, di parole barrate e desideri intrappolati con inchiostro e grafite. Hashtag a fiumi, ondate continue di titoli acchiappa click come “Le 10 foto più belle dell’anno”, cappellini di Babbo Natale sui loghi aziendali, le vetrine che promettono sconti clamorosi, il calore di una tazza di cioccolato nel tardo pomeriggio.

E si iniziano a tirare le somme. Ci si guarda allo specchio, come per controllare il tempo, e qualcuno riesce pure a piacersi un po’ di più. Sfogliando gli archivi nel computer e sugli smartphone si cercano le foto e i momenti più importanti degli ultimi dodici mesi, si fa un back up e si fugge fuori casa per conservarlo al freddo degli ultimi giorni di dicembre.

Nel primo pomeriggio le ombre si allungano fino all’arrivo della nebbia e del buio. E quando non so più che ore sono e dove sto andando, sfilo via il guanto dalla mano e cerco il mio vecchio Swatch di acciaio – ogni volta scopro qualche graffio in più sul vetro – e misuro la lunghezza e la distanza dal posto in cui sono e quello che non riesco mai a raggiungere.

Agli sgoccioli di dicembre i conti non tornano mai, o almeno non ho mai incontrato qualcuno pronto a dimostrarmi il contrario. Non serve nemmeno cercare il modo di farli quadrare, basterebbe, semmai, amarsi un po’ di più, e guardare con più dolcezza, e pietà, i graffi e le cicatrici, sull’orologio e sulla pelle. Che poi sono la stessa identica cosa.

whatsapp

Ok, perfetto, ti wazzappo stasera.
Ti cosa???

Di tutte i termini diventati di uso comune, ti wazzappo è davvero il più terribile. Dal famoso e ormai vecchio chattiamo (pronuncia esatta: ciattiamo), che si coniuga in modo piuttosto morbido, io chatto, tu chatti, egli chatta, ecc…, al più moderno followami, da cui io followo, tu followi, egli followa, noi followiamo (con la i, come per il verbo scavare), voi followate, essi followano. Per non parlare di cliccare, che ormai è davvero attempato: io clicco, tu clicchi e così via.

I ragazzini hanno trasformato in verbo anche il famoso Like di Facebook, con un dissonante ti laiko. Qui la coniugazione diventa davvero fantasiosa: io laiko, tui laiki, egli laika (come il cane), noi laikiamo, voi laikate, essi laikano. Continua a leggere

die hard marketing

Ogni volta che in TV passano lo spot di Immobildream, che si conclude con la frase Parola di Roberto Carlino (Roberto pronunciato con due B: Robberto), penso: “ma chi cazzo è Roberto Carlino?

Digitando questo nome su Google ho trovato diversi risultati interessanti: svetta una domanda su Yahoo! Answers: “ma chi diavolo è Roberto Carlino?”. E già mi sento meno solo. Tra gli altri risultati si trovano pagine Facebook il cui titolo sfotte l’abbronzatura a 10.000 watt del personaggio, e tanti articoli più o meno satirici su blog più o meno seri.

Ho anche cercato di togliere la sua immagine dalla mente e ragionato da “tecnico” sullo spot in questione, il cui slogan acclama “Immobildream non vende sogni ma solide realtà”. Così sono andato sul sito web per verificare la solida realtà, senza troppe illusioni su quello che avrei trovato. Continua a leggere

oche Moncler

Moncler può presentare tutte le giustificazioni che vuole, ma ormai ha perso. Può esporre denuncia e può stravincere ogni causa. Ne uscirà comunque perdente. Ma a vincere la battaglia non è Report, che tuttavia ha messo in luce una realtà nota a molti ma ignorata da molti di più.

I veri vincitori sono tutti gli altri brand che si comportano come Moncler, che hanno dalla loro la fortuna di non essere stati beccati, e ora hanno il tempo per coprire i loro imbrogli e passare addirittura per santi, improvvisandosi grandi amici degli animali.

I vincitori sono anche tutti quelli che prendono la palla al balzo promettendo prodotti realizzati in pieno rispetto della natura. E non solo: molte case editrici hanno già messo in sconto libri di ricette vegetariane; i brand di prodotti vegani incrementano gli investimenti pubblicitari; gli animalisti alzano il tono di voce; e quelli come me, invece, scrivono. Questi sono i veri vincitori. Continua a leggere

Lo sporco - foto di Davide Bertozzi

Ci sono cose destinate ad essere gettate nella spazzatura, nonostante abbiano più fascino, e dignità, di altre esposte in vetrina.

Ho pensato a questo durante un servizio fotografico. No, io non sono un fotografo, ma mi trovavo sul posto, sul set, si trattava di un negozio di antiquariato in cui sono esposte lampade di un secolo fa, tavoli e mobili ancora più datati, custoditi con una cura maniacale propria di chi è riuscito a trasformare una passione in un mestiere. Non un lavoro, un mestiere.

E insomma ero li dentro ad osservare tutti quegli oggetti esposti, che posavano passivamente in mezzo a luci e obiettivi puntati, con il rumore dello zoom che si sposta avanti e indietro, roteando su sé stesso mentre la messa a fuoco cambia l’importanza che si attribuisce alle cose del mondo. Continua a leggere

Le cose comunicano, anche le più banali. Solo che non ce ne accorgiamo. Eppure c’è sempre un motivo se sono progettate in un certo modo. Un manifesto pubblicitario, la carta di identità, la sigla di Dexter, solitamente passano inosservate, e invece sono visual design. Ovvero, sono fatte in un certo modo perché devono comunicare una cosa precisa.

Prendiamo la mappa del mondo, ad esempio. Per convenzione, tutte le cartine hanno il continente americano a sinistra, l’Europa al centro e l’Asia a destra. Questa disposizione non è affatto casuale. La Terra è tonda, e quindi una cartina potrebbe iniziare anche con l’Europa a sinistra, l’Asia al centro e l’America a destra. Ma in giro non se ne trovano. Perché? Continua a leggere