Lo sporco - foto di Davide Bertozzi
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Lo sporco

Ci sono cose destinate ad essere gettate nella spazzatura, nonostante abbiano più fascino, e dignità, di altre esposte in vetrina.

Ho pensato a questo durante un servizio fotografico. No, io non sono un fotografo, ma mi trovavo sul posto, sul set, si trattava di un negozio di antiquariato in cui sono esposte lampade di un secolo fa, tavoli e mobili ancora più datati, custoditi con una cura maniacale propria di chi è riuscito a trasformare una passione in un mestiere. Non un lavoro, un mestiere.

E insomma ero li dentro ad osservare tutti quegli oggetti esposti, che posavano passivamente in mezzo a luci e obiettivi puntati, con il rumore dello zoom che si sposta avanti e indietro, roteando su sé stesso mentre la messa a fuoco cambia l’importanza che si attribuisce alle cose del mondo.

Tutte quelle cose, ognuna con una sua storia fatta di proprietari vecchi e pazzi, poi nuovi e più intraprendenti, e via via altre persone – chissà quante – prima di finire nelle mani di chi si prende cura delle cose antiche, di chi cerca di ridare loro un’anima e una certa salvezza per almeno un altro secolo a venire.
Trovo che tutto questo sia magico.

Ma ancora più incredibile, ai miei occhi, è stata la polvere. Lo sporco, la sporcizia e i residui che finivano nel cestino. Le cose che venivano fotografate, infatti, passavano prima tra le mani del restauratore che le “accordava” per farle figurare in tutto il loro splendore. Le ripuliva, cioè, da tutti i vecchi fili della corrente che le attorcigliavano, dalla ruggine, dai pezzi di vetro incastrati tra viti, lampadine, attacchi e altra materia che negli anni e nei secoli si incrosta e incastona negli oggetti. Mentre puliva e raffinava, sdrucciolava e limava antiche lampade veneziane, lasciava cadere sul tavolo di lavoro, ricoperto dal cartone di una scatola da imballaggio sventrata, una serie di frammenti inutilizzabili che di li a pochi minuti sarebbero finiti nel cestino.
Ma per pochi minuti giacevano in quello che per essi era l’ultimo istante sotto i riflettori, sotto gli occhi di persone che avrebbero potuto notare, per una serie indefinita di motivi, un certo fascino in quella scena qualunque.

Io sto scrivendo proprio di quel fascino.

Di quell’immagine che ho voluto immortalare con una fotografia, non per sfogo artistico ma perché la trovavo davvero significativa. Non avevo ancora chiaro il motivo, ma intuivo che quei pezzi di materia avessero ancora una dignità, o almeno un significato. Come se stessero li a rappresentare il fatto che fino all’ultimo istante in cui tutti noi viviamo in questo mondo, abbiamo un motivo per resistere e sperare in qualcosa di migliore. Resistere e sperare, due azioni che molti hanno dimenticato, mentre sorbiscono e subiscono passivamente la frenesia e l’indifferenza di questi giorni, l’odio e l’ignoranza che i media presentano sotto forma di cultura.

Ho pensato a questa faccenda qui, fino a quando il restauratore ha ripulito il tavolo con un veloce colpo di mano, gettando tutto quanto nel cestino.

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