Tag Archivio per: fotografia

Arrival

Più che un film di fantascienza, Arrival è un saggio sulla comunicazione e sul linguaggio. Da un punto di vista sociologico gli alieni sono un elegante pretesto per rendere il racconto più accattivante, quasi una trovata per portarci al cinema. Poi sì, certo, la regia è grandiosa, la fotografia splendida, e la protagonista Amy Adams incanta con la sua emotività, i suoi colori e il suo essere così fisicamente perfetta per il personaggio che interpreta. Tuttavia, il vero senso della pellicola non ha a che fare con UFO ed extra-terresti, ma riguarda il nostro modo di comunicare e di rapportarci con ciò che non conosciamo.

Nei 116 minuti di durata si respira una sorta di intimità che non cade mai nella ricerca del ritmo incalzante e dell’azione. È una sorta di silenzio formale (perché anche il silenzio comunica) disturbato solo da lunghi e intensi accordi, che arrivano da lontano e lontano scompaiono, creando un contrasto sonoro che ha il compito di far concentrare il pubblico su quel singolo momento di musica.

Lo stesso fa la fotografia: la predominanza di trame fredde crea un’atmosfera di insicurezza e mistero, ma l’arancione delle tute che indossano i personaggi e il colore dei capelli dell’attrice giocano un contrasto fondamentale: danno movimento, riscaldano e rassicurano, accompagnando lo spettatore all’interno delle navicelle aliene e nel mistero più assoluto.

Arrival - UFO

I piani sequenza partono spesso dalle spalle di Amy Adams, indicando al pubblico il momento in cui immergersi nel punto di vista dell’attrice e ragionare con la sua mente. Le telecamere le ruotano attorno, riprendendo ogni sua espressione con lo scopo di farci entrare in sintonia con lei, di capire il suo linguaggio non verbale e la distanza invisibile che separa forma da contenuto.

Una distanza che non ha tempo e non ha spazio, non ha inizio e non ha fine, non si sposta in senso orizzontale ma circolare, proprio come la calligrafia degli alieni, la cui comprensione è la chiave per risolvere il mistero del loro avvento. Una distanza che ci separa da ogni cosa che non conosciamo e non comprendiamo, trasformando l’ignoto in un una minaccia. E questa è una chiara metafora del mondo di oggi.

Paradossalmente, la storia ci porta con i piedi per terra: ci suggerisce di non guardare solo verso le stelle ma di abbassare lo sguardo e di guardarci negli occhi, conoscerci e capirci per davvero, oltre le parole, oltre i gesti.

Arrival è un film di fantascienza che invece di raccontare l’universo ci offre una visione più chiara di ciò che siamo veramente.

E la fantascienza è soltanto un elemento superficiale che ricopre, con volontaria trasparenza, un paradosso più grande di quanto riusciamo ad ammettere: non siamo bravi a comunicare, non leggiamo i segnali della vita né siamo in grado di riconoscerli e decifrarli.

Arrival parla di questo. Come dicevo, più che un film è un saggio sulla comunicazione, e gli alieni sono solo un accattivante pretesto per portarci in sala, o una raffinata strategia di marketing o, ancora, un’attraente confezione della storia. Mai visto un packaging del genere.

Instafram non fa di noi dei fotografi

Per me che sto sempre dalla parte delle parole, la fotografia è una cosa stupenda.
È stupendo soprattutto stare a guardare chi è davvero capace, a fotografare, chi ci mette più della passione, chi ne ha studiato ogni segreto e anche dopo 30 anni riesce a dirti che non c’ha capito poi granché.

Mi piace parlare con quelli che prendono sul serio il proprio mestiere, quelli che se gli chiedi di fotografare una rosa nel deserto ti rispondono “la preferisci con i petali rossi oppure bianchi?”.

Quella gente li, quel tipo di fotografi, ha imparato a guardare ogni cosa del mondo come se fosse una singola immagine. E tutto il mondo non è nient’altro che un’infinità di immagini, di colori, tonalità, che si muovono, non so, tipo con il vento, e con il tempo.

Per loro tutto ciò che gli si presenta davanti, un paesaggio, una strada, il bancone di un bar, una donna senza veli, una bottiglia vuota, un posacenere, cose qualsiasi, viene visto come da dietro un obiettivo.

È quello che noi comuni amatori, gente che scatta con l’iPhone, facciamo più o meno con Instagram: riconosciamo quelle immagini che possono essere degne, secondo un criterio tutto nostro, di essere fotografate.

Un profilo Instagram seguito da migliaia di utenti non fa di noi dei fotografi,

ma è bene provarlo, Instagram, per capire una milionesima parte del genio, del pensiero e della follia di un fotografo vero.

A pensarla in questo modo, lo stesso vale per Twitter. Altro non si fa che aspettare un momento, una citazione o una situazione da raccontare in 140 caratteri. È proprio come pensare al mondo non più come una serie di immagini ma come un flusso di post, brevi, velocissimi, ma memorabili. Anche qui, vale la stessa regola di Instagram:

Twitter non fa di noi degli scrittori.

Se c’è un motivo per cui consiglio di provare ad utilizzare i social media è proprio questo: cercare di capire la milionesima parte del pensiero di un vero professionista. Di qualsiasi arte o mestiere.

Per me che sto dalla parte delle parole, il mondo è una grande storia da raccontare. E per raccontarla con il rispetto che merita e la meraviglia che percepisco con tutti i sensi, e anche quella che sento, dentro, ma non saprei spiegare esattamente come e quanto, ho deciso di provare a capire la follia dei mestieri, dei gesti, delle passioni artistiche e sportive, per conoscere nuovi segni e modi differenti, profondi, estremi, di scrivere e raccontare.

 

Lo sporco - foto di Davide Bertozzi

Ci sono cose destinate ad essere gettate nella spazzatura, nonostante abbiano più fascino, e dignità, di altre esposte in vetrina.

Ho pensato a questo durante un servizio fotografico. No, io non sono un fotografo, ma mi trovavo sul posto, sul set, si trattava di un negozio di antiquariato in cui sono esposte lampade di un secolo fa, tavoli e mobili ancora più datati, custoditi con una cura maniacale propria di chi è riuscito a trasformare una passione in un mestiere. Non un lavoro, un mestiere.

E insomma ero li dentro ad osservare tutti quegli oggetti esposti, che posavano passivamente in mezzo a luci e obiettivi puntati, con il rumore dello zoom che si sposta avanti e indietro, roteando su sé stesso mentre la messa a fuoco cambia l’importanza che si attribuisce alle cose del mondo. Continua a leggere

Piove a dirotto e le gocce di pioggia sembrano spari. Una mitragliata di proiettili d’acqua fini e sottili e letali, che forano, scoppiano e s’arrestano in tanti frammenti prima di unirsi assieme in un dito di bagnato che si innalza sulla strada. Come fossero spari. Che violenza che deve avere il cielo per svuotare tutti quei caricatori senza prendere la mira, sparare e basta verso il basso. Come dire “da che parte miro?”.
– In basso.
– In basso dove?
– In basso e basta.

I fulmini sembrano invece più geometrici, si lanciano come arpioni, sempre verso terra ma ragionando su dove precipitare, a caccia di balene nere, in mare o nei boschi, accompagnati a stento dai tuoni, che all’orecchio arrivano come esplosioni, granate, ma senza fuoco e senza fumo. Spaventano persino i cani, e i cani spaventati non s’avvicinano  all’uomo perché loro sentono la vera paura e non la vogliono condividere con nessuno. I cani amano per davvero e il dolore se lo tengono tutto dentro, lo mandano giù tutto in un sorso con quella loro aria nostalgica negli occhi, da qui il detto essere soli come cani. Soli a guardare la pioggia da dietro la finestra. O fuori, in mezzo alla strada a farsi trivellare dai proiettili. Soli in mezzo alla strada bagnati fradici con la macchina fotografica, a scattare istantanee senza mai riuscire, dico mai nemmeno una volta, a fotografare la pioggia.

Ci vorrà un sacco di tempo per capire che c’è una tecnica precisa per intrappolare le fucilate del cielo e tutta quella faccenda di arpioni, balene e granate dentro ad un unico scatto. Ci vorrà un sacco di tempo e ci si ammalerà parecchio a stare sotto lo scroscio con i calzini zuppi e il culo gelato. Ci vorrà un sacco di tempo per prendere bene la mira. Puntare con precisione.
– Da che parte miro?
– Dritto davanti a te.
– Verso dove?
– Dritto e basta.